Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I - 14

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deriva, per quanto sia grandissimo l'ingegno poetico del Pontano, una
innegabile inferiorità di forma ne' suoi scritti, di fronte a quelli
del Poliziano; l'atticismo toscano dà al latino di questo una greca
eleganza che non si può del pari ritrovare nell'altro. Tuttavia è certo
che anch'egli riesce mirabilmente nell'adoperare il latino ad esprimere
il pensiero moderno, e dove non gli basta, latinizza parole italiane
o napoletane, e va innanzi spedito come uno che parli la lingua
imparata sin dalla cuna. Nei dialoghi, il _Caronte_, l'_Antonio_,
l'_Asino_, che sono tutti lavori d'immaginazione, in elegante prosa
latina, spesso interrotta da poesie bellissime, v'è una dipintura dei
costumi napoletani, di feste popolari, di scene campestri e d'amore;
una serie d'aneddoti pieni di brio tale, che par di leggere le pagine
più belle del Boccaccio. La festa del porcello a Napoli, l'indole
delle città italiane, la corruzione dei preti a Roma, le dispute
ridicole dei pedanti, e l'accanimento con cui perseguitano la gente,
per una particella o un ablativo non adoperati secondo le loro regole,
spesso fallaci, hanno una potenza descrittiva, una freschezza, una
_vis comica_ tali da far mettere il Pontano fra gli uomini di vero
genio letterario. Egli scrive in latino, ma il suo spirito, il suo
ingegno sono moderni, e le sue opere sono perciò un vero gioiello
della letteratura italiana. Nel suo _Antonius_ vediamo i Napoletani
seduti all'ombra, motteggiare chi passa; il Pontano vivo parlante; un
figlio che racconta le querele di casa; un poeta che, preceduto da un
trombetto, sale, secondo l'uso napoletano del tempo, sopra un poggio a
recitare la descrizione d'una battaglia, di tanto in tanto abboccando
il fiasco di vino. Poi leggiamo l'ode di Galatea inseguìta da Polifemo,
una delle sue più belle:
_Dulce dum ludit Galatea in unda,_
_Et movet nudos agilis lacertos,_
_Dum latus versat, fluitantque nudae_
_Aequore mammae_, etc.;
ed in mezzo a tutto ciò sempre un gusto squisito, uno spirito che
s'inebbria, anche nella vecchiezza, in una voluttà sensuale ed
artistica, uno scetticismo profondo che ride d'ogni cosa.
Nelle liriche si manifesta veramente tutto quanto il genio letterario
dell'autore, e si vede più chiaro ancora che in quelle del Poliziano,
l'immagine del Rinascimento. Le sue donne, dice il Carducci, denudano
ridenti ogni loro bellezza in cospetto del sole e dell'amore. «E con
quel suo riposato senso di voluttà e di sincero godimento della vita,
il Pontano, in latino, è il poeta più moderno e più vero del suo tempo
e del suo paese.»[222] Leggendo le odi, è davvero mirabile il vedere
come in quel suo latino egli si muova agile e felice, quasi navighi a
seconda d'un fiume; e come il suo italiano napoletano cerchi infondere
giovane sangue nel vecchio idioma, anche quando lo altera un po'
troppo:
_Amabo mea chara Fanniella,_
_Ocellus Veneris, decusque amoris,_
_Iube isthaec tibi basiem labella_
_Succiplena, tenella, mollicella,_
_Amabo, mea vita, suaviumque,_
_Face istam mihi gratiam petenti_, etc.[223]
Egli ride e motteggia; canta la ninna nanna; s'inebria nella voluttuosa
bellezza, fra le molli braccia delle Ninfe, che l'accolgono in riva
al mare, in presenza della natura, in mezzo ai fiori. E questo è il
suo mondo, il mondo del Rinascimento. Tutte le città, le ville, le
isole dei dintorni di Napoli, le strade, le fontane, personificate
in esseri fantastici, camminano, danzano intorno al poeta. Le Ninfe
Posilipo, Mergellina, Afragola, Acerra, _Panicocolis studiosa lupini_,
e Marianella che canta accompagnando Capodimonte,
_et cognita bucellatis_
_Ulmia, et intortis tantum laudata torallis:_[224]
tutte si muovono e vivono nella sua _Lepidina_.[225] Il Vesuvio, in
forma di vecchio, discende dal monte sopra un asino per venire alla
festa, e le donne lo circondano. A chi dà un anello da cucire, a chi un
fusaiuolo, a chi dice un motto, e tutte fanno a gara intorno a lui ed
all'asino, per salutarli con alte e festose grida,
_Plebs plaudit, varioque asinum clamore salutant,_
_Brasiculisque apioque ferum nucibusque coronant._
I medesimi pregi possono notarsi nei due libri degli _Amori_,
negli _Endecasillabi_, nella _Buccolica_, e nel poema didascalico,
_L'Urania_, in cui sono mirabili descrizioni della natura. Vi troviamo
sempre un singolare impasto di due lingue, l'una viva e l'altra
morta, nel quale ambedue sembrano rinascere; e questa varia e ricca
unione d'immagini classiche, di bizzarrìe fantastiche, di splendide
descrizioni della natura, di sentimenti moderni, tutto mescolato e
tutto in fermento nella fantasia dell'erudito, che si trasforma in
poeta, ci fa capire come la nuova letteratura nasca dall'antica, e
come, in mezzo al mondo classico, con tanta cura evocato, possa sorgere
il poema cavalleresco, che pare e non è una contradizione nel secolo
degli eruditi.
Qui dovremmo accennare alle lettere politiche di Ferrante d'Aragona,
che portano la firma anche del Pontano suo primo ministro, il quale
ebbe certo una parte non piccola nel compilarle. Ma, oltre che è ben
difficile il determinare con precisione qual fosse veramente questa
parte, ci sarà data occasione di parlarne in luogo più opportuno. Per
ora ci basti ricordare che anch'esse hanno rarissimi pregi: scritte
con verità ed eloquenza, potrebbero stare fra le migliori nostre prose
letterarie, se la loro forma italiana non fosse troppo alterata dal
dialetto napoletano, che spesso aggiunge forza e naturalezza, ma non
può giovare alla unità, nè alla eleganza della lingua.
Accanto al Pontano viveva un altro scrittore, che era nato nel
Napoletano, che morì nella seconda metà del secolo XV, e del quale
abbiamo un volume di novelle assai notevoli, massime se ricordiamo
che quel genere, dopo il Sacchetti, pareva quasi abbandonato. Uomo di
mondo e non erudito, ma vissuto in mezzo alla erudizione, egli ci dice
di aver voluto imitare, «il vetusto satiro Giovenale, e l'ornatissimo
idioma e stile del famoso commendato poeta Boccaccio.»[226] Spesso
invoca gli Dei immortali; e Mercurio eloquentissimo Dio gli ragiona
degl'inganni fatti dalle donne «al sommo nostro padre Giove, e al
radiante Apollo, a noi e agli altri Dei.»[227] Egli, come il Sacchetti,
dichiara che vuol raccontare novelle «per autentiche istorie approbate,
e certi moderni e altri non molto antichi travenuti fatti.»[228]
La sua lingua è molto artificiosa, per la imitazione visibile del
latino e del _Decamerone_; vi si mescolano in buona copia il dialetto
napoletano ed il salernitano, che dànno grande vivacità, ma alterano
l'italiano, e rendono sconnessa la grammatica di Masuccio, che era
nato a Salerno. Il suo brio spontaneo, la sua verità ed evidenza sono
tali, che egli sarebbe uno dei nostri classici, se la forma fosse meno
scorretta. Tuttavia il suo _Novellino_, così com'è, ci dà una immagine
fedele dei tempi e della Corte di Napoli. Con una grande conoscenza
degli uomini e delle cose, con un animo che sembra assai schietto e
buono, l'autore sa infondere vita ne' suoi personaggi; sa raccontare
con la disinvoltura, la naturalezza ed il sorriso d'un vero scrittore
del Rinascimento. Domina in lui un odio profondo contro le immoralità
dei preti, i quali egli sferza sanguinosamente, senza perciò essere
punto avverso alla religione. Nell'_Esordio_ alla terza novella, che
è dedicata al Pontano, di cui esalta le virtù, le quali egli dice
macchiate solo dal conversare che esso fa continuo con preti, frati
e monache, «atteso che con loro non altro che usurai e fornicatori e
omini di mala sorte conversare se vedono.» Tutto ciò non ci maraviglia
molto in uno scrittore che viveva nella Corte degli Aragonesi, la quale
fu di continuo in guerra coi Papi, ed aveva accolto e protetto Antonio
Panormita e Lorenzo Valla. Il vedere però dedicato ad Ippolita, figlia
di Francesco Sforza e giovane sposa d'Alfonso II d'Aragona, un libro
di novelle assai spesso molto oscene, alcune delle quali sono anche
dedicate in particolare a qualche nobile donna, reca certo grande
maraviglia, ma è pure un altro segno dei tempi.
Dai _Dialoghi_ del Pontano e dalle _Novelle_ di Masuccio non
occorre un gran salto per passare ai poemi cavallereschi, un altro
dei generi di letteratura proprî di questo secolo. Veramente erano
nati in Francia, e parrebbero in tutto contrarî al genio nazionale
dell'Italia. La Cavalleria s'era infatti poco o punto diffusa tra
noi; il feudalismo era stato combattuto ed in grandissima parte
distrutto; alle Crociate avevamo preso una parte secondaria; Carlo
Magno, eroe nazionale della Francia, era fra noi un principe straniero
e conquistatore. E questi sono tutti elementi sostanziali, per la
formazione del poema cavalleresco. Lo scetticismo religioso, cominciato
assai presto in Italia, contrastava anch'esso coll'indole di poemi
fondati principalmente sulla guerra dei Cristiani contro gl'Infedeli.
Ed il maraviglioso che ne costituisce l'essenza, neppure era adatto
all'indole degl'italiani, ammiratori sempre della bellezza classica.
Passati da uno stato di decadenza ad una nuova forma di civiltà, essi
non avevano avuto la selvaggia e vigorosa giovanezza, in mezzo alla
quale era stato creato quel mondo d'eroi, le cui avventure impossibili,
i cui caratteri fantastici si mutano e confondono continuamente fra
loro. Tuttavia questi poemi francesi, come si diffusero rapidamente in
tutta l'Europa feudale, così vennero anche fra noi, e si propagarono
assai più largamente che non si crederebbe.
Prima ancora che sorgesse la nostra letteratura, quando nel
Settentrione d'Italia molti scrivevano provenzale o francese, avemmo
una serie di poemi cavallereschi, compilati da Italiani in un francese
italianizzato o in un italiano infranciosato. Nel Mezzogiorno, invece,
quei racconti furono portati dai Normanni, e nel Centro della Penisola
si diffusero per mezzo di scritti italiani e di poeti vaganti. Ma
quegli eroi, nati e cresciuti in una nebbia fantastica, che non era
punto adatta alla nostra indole, trovarono fra noi, specialmente
nell'Italia centrale, un terreno poco favorevole, e quasi si
dileguarono dalla nostra letteratura, per rifugiarsi nelle capanne del
contado o nei tugurî del popolo, quando sorse sull'orizzonte il sole
della poesia di Dante. In molti lavori del Boccaccio, nei _Trionfi_ del
Petrarca, anche nella _Divina Commedia_, troviamo spesso reminiscenze,
che riconfermano come quei poemi fossero sempre assai diffusi nel
popolo. Paolo e Francesca ricordano nell'_Inferno_ la lettura che,
nei tempi felici, avevano fatta insieme degli amori di Lancillotto; e
quando il Sacchetti racconta del fabbro che sciupava, nel recitarli,
i versi di Dante, dal quale veniva perciò aspramente rimproverato,
egli aggiunge: e così, se volle, dovè invece cantare di Tristano
e di Lancillotto: segno evidente che questi racconti erano allora
giudicati più adatti alla fantasia popolare anche in Firenze. Quando
poi i dotti cominciarono a scrivere in latino, i poemi cavallereschi
sembrarono risorgere fra noi da un temporaneo letargo, ed insieme coi
Rispetti, gli Strambotti, le Canzoni, le Laudi e le Rappresentazioni,
fecero parte di quella letteratura che, come già vedemmo, fu chiamata
popolare. Così largamente e così profondamente infatti si diffusero,
che ancora oggi il cantastorie napoletano racconta d'Orlando e di
Rinaldo ad un popolo estatico, e nella campagna toscana i _Maggi_,
che si rappresentano la primavera, dinanzi ai contadini, pigliano
dai medesimi poemi i loro soggetti. Alcuni di questi _Maggi_ e di
questi racconti sono composizioni recenti; ma altri non pochi sono
addirittura del secolo XV. Allora se ne scrisse un numero sterminato,
ed erano letti con l'avidità stessa, con cui oggi si leggono i romanzi.
Gl'Italiani non creavano nuovi poemi, nè ripetevano materialmente gli
antichi; ma di questi facevano compilazioni in verso o in prosa, e più
in prosa che in verso, spesso molti riunendone in uno, e formando così
come grandi repertorî di novelle fantastiche, che i cantastorie, il
più delle volte essi stessi autori, andavano leggendo al popolo delle
città e delle campagne, che li ascoltava con insaziabile avidità. La
così detta _Cronaca di Turpino_, ed in generale il ciclo di Carlo Magno
forniscono la materia principale dei racconti italiani; ma il ciclo del
re Arturo e della _Tavola Rotonda_ vi ha pure una grandissima parte.
Il più grande di questi compilatori, che può bastare a darci un'idea
degli altri, visse nella seconda metà del secolo XIV e nella prima del
XV. Egli è Andrea dei Mangabotti da Barberino in Val d'Elsa, che chiama
Firenze _la mia città_, perchè colà visse e fu educato. Di un'attività
senza pari, scrisse non solo i famosi _Reali di Francia_ in sei libri,
ma ancora l'_Aspromonte_ in tre libri, la _Storia di Rinaldo_ in sette,
la _Spagna_ in uno, la _Seconda Spagna_ in uno, le _Storie Narbonesi_
in sette, _Aiolfo_ in un libro lunghissimo, _Ugone d'Avernia_ in tre, e
finalmente _Guerino il Meschino_, che, sebbene continui i fatti narrati
nell'_Aspromonte_, forma un lavoro a sè, la cui popolarità, di poco
inferiore a quella dei _Reali_, dura anch'oggi. Tutti questi lavori
sono scritti in prosa, salvo alcune parti dell'_Ugone d'Avernia_.
L'autore s'era proposto di raccogliere e coordinare la gran moltitudine
dei racconti, che fanno parte del ciclo di Carlo Magno. E così nei
_Reali_, che son sempre la sua opera principale, compilò la storia
della stirpe del grande Imperatore, senza però fare nè una vera storia,
nè un vero romanzo cavalleresco. Egli vuol mettere nesso e precisione
là dove era confusione deplorabile, corregge la geografia, ordina le
genealogie, ma perde con ciò la ingenuità popolare e l'originalità
poetica. Sembra che quel realismo italiano tanto ammirato nelle
novelle, che restan sempre il racconto più proprio e nazionale della
nostra letteratura, predomini anche qui, ed alteri il poema, formando
un lavoro che non è certo senza merito, ma di un genere ibrido. Noi
qui non abbiamo veramente nè poesia popolare, nè poesia letteraria,
ma piuttosto una materia epica, che si va trasformando, e cerca una
forma nuova, senza ancora trovarla. Il linguaggio parlato si mescola
colle reminiscenze classiche, familiari allora a tutti gl'Italiani;
la narrazione ha una riposata solennità quasi liviana, e l'autore
vuol riunire dentro i confini d'una macchina ideale ben disegnata e
determinata, una miriade di racconti originariamente germogliati con la
ricchezza esuberante e disordinata d'una foresta vergine.[229] Queste
qualità degli scritti del Mangabotti sono comuni a quelli di centinaia
d'altri compilatori in verso o in prosa.
Da quanto abbiamo detto fin qui risulta chiaro, che il giorno in
cui i nostri letterati ricominciarono a scrivere in italiano, e,
stanchi della retorica di poemi come la _Sforziade_ e la _Borseide_,
s'avvicinarono al popolo, trovarono in mezzo ad esso diffusi, insieme
coi Rispetti e le Ballate, racconti come i _Reali di Francia_, in
verso o in prosa. Si diedero allora a rifare anche questi, provandosi
a renderli vere opere d'arte. Lasciarono inalterata la macchina
generale della narrazione; la divisione in canti; le ricapitolazioni
in principio d'ognuno di essi, indirizzate agli «amici e buona gente»
dal poeta del popolo, che di ogni canto era costretto a far come un
lavoro indipendente. Anche questi nuovi scrittori usavano leggere a
brani i loro racconti, non in piazza, ma nelle Corti, nei desinari
dei signori, a gente culta, che però voleva divertirsi, ed era stanca
della vuota solennità degli eruditi. Spesso i cambiamenti che portavano
nel riscrivere quelli che ora chiameremo anche noi poemi popolari, si
restringevano solo a ritoccarli, correggerli, ravvivarli nella forma,
aggiungendovi nuovi episodî, nuove descrizioni, qualche volta interi
canti. In questo ritoccarli però stava l'arte, che infondeva vita là
dove mancava, ed arrivava così ad una creazione nuova ed originale.
I personaggi si staccavano dal fondo ancora fantastico e nebuloso,
nel quale erano confusi, per divenire vivi e veri; le descrizioni
della natura spiravano come un'aura di primavera, avevano un'insolita
fragranza; e quelle parti che restavano inalterate nella loro prima
e più rozza forma, facevano meglio risaltare la verità, quasi direi,
la giovinezza di tutto ciò che veniva presentato sotto nuovo aspetto,
animato di nuova vita. Era quasi una improvvisa ribellione contro
ogni retorica convenzionale, contro ogni vincolo artificiale; lo
spirito italiano si sentiva come chi ritorna a respirar l'aura fresca
dei campi e dei monti, dopo essere stato lungamente rinchiuso in
un'atmosfera divenuta insalubre. Cercare in questi poemi profondità di
sentimenti, uno svolgimento logico di caratteri, un disegno generale e
filosofico, è cercarvi quello che non può e non deve esserci. L'autore
anzi disordina a bella posta la narrazione monotona de' racconti
che trova già compilati, confonde e ricompone a capriccio le fila
intricate della vasta tela, per meglio tener desta la curiosità del
lettore. L'importante per lui è che egli sia padrone de' suoi eroi, e
che essi appariscano sempre ben definiti e vivi nel momento in cui li
chiama sulla scena. Egli cerca un ideale diverso dal nostro; non vuole
scendere nelle profondità del cuore umano; vuole ritrarre la mutabile
realtà di tutto ciò che fugge, passa e si vede. Se torna di continuo
a nascondere nel fantastico fondo del quadro i suoi personaggi, ciò
è solo per meglio illuderci, per farcene meglio ammirare la verità e
realtà, quando di nuovo li avvicina a noi, presentandoli quasi come
quei putti del Correggio, che spingono innanzi la testa di sotto a un
bosco di fiori, o come quelli che sulle pareti del Vaticano sembrano
muoversi fra un laberinto d'eleganti rabeschi. Così segue che, sebbene
ci parli continuo di mostri, di fate, d'incantesimi, di bevande
prodigiose, la sua narrazione ha pur tale verità, che crediamo leggere
la storia d'avvenimenti reali. È però ben naturale, che in questo
stato di cose, un perenne sorriso apparisca sulle labbra dell'autore,
rallegrato egli stesso dalla illusione e dalla maraviglia che desta
ne' suoi lettori, dei quali sembra pigliarsi giuoco, per poi dominarli
e commuoverli ancora più profondamente. S'ingannano coloro che
vogliono in tutto ciò vedere una satira o una ironia profonda. Credere
sul serio a questi personaggi il poeta stesso non può; a lui basta
d'esprimere nel suo racconto tutta la varia vicenda della vita, tutte
le contradizioni che sono nel suo spirito, in un secolo così pieno
d'elementi diversi e cozzanti fra loro; di rapire e di essere rapito
dalle proprie creazioni. La sua fantasia, uscita dalle convenzioni
classiche ed artificiali, ha finalmente ritrovato tutta la propria
libertà nel mondo fantastico in cui sola comanda. Si richiede quindi
un temperamento artistico, per gustare tutto il valore di questi poemi,
che si godono anche meglio leggendoli a brani, come li avevano letti al
popolo i cantastorie, e come li lessero ai loro protettori o amici il
Pulci, il Boiardo e l'Ariosto.
Il primo che fra questi poemi possa veramente chiamarsi un'opera
d'arte, è il _Morgante Maggiore_ del fiorentino Luigi Pulci, nato
nel 1431. Questo lavoro è un rifacimento d'altri più antichi. I
primi ventitrè canti riproducono, ora più ora meno fedelmente, uno
di quei poemi che i cantastorie leggevano al popolo, ed in esso si
narravano le avventure d'Orlando. Gli ultimi cinque raccontano,
invece, la rotta di Roncisvalle, e sono rifacimenti di altre due
compilazioni popolari, intitolate _La Spagna_. Tra l'una e l'altra
parte del _Morgante_ passano venticinque o trenta anni; sicchè i
personaggi che nella prima erano giovani, sono nella seconda divenuti
vecchi, cosa della quale l'autore non si dà gran pensiero.[230]
Nè egli si perita punto, specialmente nella prima parte, di andare
così fedelmente dietro al suo modello, correggendone o modificandone
appena le ottave, da sembrare un vero plagiario.[231] Tuttavia sono
questi semplici e leggerissimi tocchi di mano maestra, quelli che
mutano un'opera volgare in un'opera d'arte, dànno ai personaggi vita
e rilievo, lasciano da parte gli artifizî retorici, per condurci in
presenza della natura. Di tanto in tanto però egli abbandona affatto
il suo originale, e abbiamo, per esempio, le 275 ottave che narrano
l'episodio di Morgante e di Margutte, in cui risplendono tutto lo
spensierato scetticismo e la ricca fantasia e la mordace ironia del
Pulci.[232] Questo poema, che ad ogni passo rompe il filo principale
della narrazione, sembra ritrovare la propria unità solo nella sempre
chiara, definita, evidente precisione de' suoi varî ed inesauribili
episodî. È un singolare turbinìo d'eventi: scene pietose, ridicole,
maravigliose, allegre. Gli elementi che formavano la cultura di quel
secolo, Paganesimo e Cristianesimo, scetticismo e superstizione, ironia
ed entusiasmo artistico per le bellezze della natura, coesistono tutti,
e senza bisogno di sforzo per mettersi d'accordo, sembrano essere in
armonia fra loro, perchè il solo scopo del poeta sta nel riprodurre
la irrequieta mutabilità degli eventi nella natura e nella realtà
della vita. Il Pulci è un impareggiabile novellatore; la sua ironia
cade, come quella dei novellieri, sui preti e sui frati, qualche
volta anche sulla religione stessa,[233] ma sempre in modo da far poi
capire che egli non vuol punto rinnegarla, intende anzi rispettarla.
L'antichità non gli è ignota, e penetra nel suo lavoro, quantunque
manchi nell'originale che egli imita; la sua musa è, nonostante,
essenzialmente popolare:
Infino a qui l'aiuto del Parnaso
Non ho chiesto nè chieggo....
Io mi starò tra faggi e tra bifulci,
Che non dispregin le muse del Pulci.
La sua forma è difatti così popolare, che spesso manca di lima, e
quando si scolorisce, non cade mai nel retorico, ma piuttosto nel
volgare. La spontaneità di questa forma ha più di tutto contribuito
alla fama del _Morgante_, scritto a richiesta di Lucrezia Tornabuoni,
madre di Lorenzo dei Medici, alla cui tavola veniva letto, nelle
fuggevoli ore dei lieti desinari.
Il Pulci, che rideva sempre, passò pure giorni molto tristi, perchè il
fallimento di suo fratello Luca involse anche lui. Nè gran fatto gli
valse l'amicizia di Lorenzo, di cui era intimo ed affezionatissimo,
perchè restò sempre, anche nella più grande familiarità, un cortigiano
protetto. L'aiutava invece un'indole allegra che mai non si smentiva.
Lontano da Firenze, per non cadere in balìa di creditori ai quali egli
personalmente nulla doveva, nelle sue lettere a Lorenzo si doleva
dell'infausta stella, che lo aveva destinato ad esser sempre preda
degli altri. «Pure i ribelli, ladri, assassini ho visto a' miei giorni
venire costì, essere uditi, avere qualche termine al morire.» Solo a me
tutto è negato, nulla concesso. «Se mi sforzeranno a questo modo, senza
udire la mia ragione, io verrò costì in su la fonte a sbattezzarmi,
dove fui in maledetta ora e punto e fato et augurio indegnamente
battezzato, che certo io ero più tosto destinato al turbante che
al cappuccio.»[234] E prometteva che quando sarebbe nella Mecca,
manderebbe a Lorenzo versi in lingua moresca, e dall'inferno gliene
manderebbe altri per mezzo di qualche spirito.[235] «Non permettere,»
gli diceva poi, «nel colmo della tua felicità, che i tuoi amici siano
come cani ributtati e straziati. Io però ho paura che quando non mando
versi, tutto quello che ti scrivo in prosa, venga da te mal volentieri
letto e subito gettato via.»[236] Lorenzo era sempre lo stesso uomo,
proteggeva tutti, ma non aveva gran cuore per nessuno, neppure per
quelli che come il Pulci erano stati suoi compagni d'infanzia, e lo
amavano quale fratello. Più tardi però l'autore del _Morgante_ fu da
lui inviato a trattare presso le Corti d'Italia faccende di qualche
gravità, ed anche allora le sue lettere non smentiscono punto l'indole
propria dell'autore, paiono anzi più di una volta brani del suo poema
ridotti in prosa.
Il 20 maggio 1472 scriveva da Fuligno, come era stato in Roma «a
visitare la figliuola del dispoto della Maremma, volsi dire della
Morea.... Descriverò adunque brevemente questa cupola di Norcia, anzi
questa montagna di sugna, che noi visitammo, che non credevo ne fussi
tanta nella Magna, non che in Sardigna. Noi entramo in una camera, dove
era parato in sedia questo berlingaccio, et avea con che sedere! almeno
ti prometto.... Due naccheroni turcheschi nel petto, un mentozzo, un
visozzo compariscente, un paio di gote di scrofa, il collo tralle
nacchere. Due occhi che sono per quattro, con tanta ciccia intorno
e grasso e lardo e sugna, che 'l Po non ha sì grandi argini.»[237]
Questa forma tutta popolare è nelle poesie del Pulci assai più ne'
suoi sonetti, che correggono la maniera troppo volgare e spesso anche
plateale del povero barbiere Burchiello, nella cui bottega, secondo che
egli stesso ci dice,
La poesia combatte col rasoio.
Il Pulci scriveva allora gareggiando con Matteo Franco, col quale
scambiava ogni sorta di piacevolezze, di oscenità, d'insolenze, per
mero passatempo, riducendo i sonetti ad una specie di dialogo in
versi, cercando e trovando quella spontanea semplicità, divenuta ora il
bisogno irresistibile della nuova letteratura.[238]
A questi facili scrittori di sonetti popolari, che al loro carattere
comico, buffo e satirico univano quel gergo toscano proprio del
Burchiello, se ne potrebbero aggiungere altri non pochi. Ricorderemo
solo il più noto fra di essi, Tommaso Cammelli, che fu chiamato il
Pistoia, dalla città dove nacque (1440), in assai umile condizione. A
lui disse la musa:
Di tutto quel che vedi fai sonetti.
E continuamente ne scrisse, continuamente tutti gliene chiedevano, in
ogni più futile occasione,
Come s'io avessi i versi in un sacchetto.
In questi sonetti il Pistoia descrive i particolari più minuti, più
insignificanti, spesso anche più indecorosi della sua vita vagabonda
e misera. Noi lo vediamo percorrere le varie Corti d'Italia, andare
da Ferrara a Mantova, da Mantova a Milano, altrove, facendo più o meno
il poeta cortigiano e buffone, attaccando gli emuli, ridendo di tutto
e di tutti, lamentando la sua miseria, questuando, lodando coloro
da cui spera danaro o protezione, per schernirli poi quando la ruota
della fortuna gira contro di essi. Quello che dà a lui una speciale
importanza, e costituisce l'indole propria de' suoi sonetti, è che egli
ci ha in essi lasciato quasi un gazzettino politico dei tempi in cui
visse, ricordando, giorno per giorno, tutto ciò che avveniva in quegli
anni fortunosi davvero per l'Italia. Il Papa e i Cardinali, Carlo VIII
e i Francesi, Firenze, il Savonarola, i Medici, Pisa, Venezia, i re di
Napoli, tutti sono ricordati, per essere lodati quando si trovano in
alto, derisi, sferzati quando cadono in basso. E sebbene queste sue
descrizioni o piuttosto rapidi accenni riescano qualche volta assai
vivi, sì che la desolante miseria d'Italia, che egli pur freddamente
deplora, apparisce evidente, tuttavia, in mezzo a tante sventure, ad
una catastrofe che avvolge e trascina la intera Penisola, di rado esce
dal suo petto un accento di vero, profondo dolore, una scintilla di
nobile, alta poesia. Egli è stato definito quale anello di congiunzione
fra il Burchiello ed il Berni. Se però il suo riso è la manifestazione
d'uno spirito arguto e satirico, che vede sempre il lato comico
della vita, quel ridere continuo, anche quando vi sarebbe materia di
pianto, disgusta. Troppo spesso v'è nei suoi versi qualche cosa di
cinico e degradante, che opprime. Il Pistoia è un poeta popolare,
che frequentando le Corti, ne ha preso tutta la corruzione, senza
quella raffinatezza di modi e di forme, che, esteriormente almeno, la
correggeva.[239]
Per comprendere quanto più basso da quel che era stato una volta, fosse
moralmente e politicamente disceso lo spirito italiano, basterebbe
paragonare i versi del Pistoia con quelli d'Antonio Pucci, il poeta
popolare del secolo XIV. Animato sempre dalla speranza che _'l giglio
di Fiorenza avanzi_, questi cantava,
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