Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I - 01

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PASQUALE VILLARI

NICCOLÒ MACHIAVELLI
E
I SUOI TEMPI

ILLUSTRATI
CON NUOVI DOCUMENTI
3ª Edizione riveduta e corretta dall'Autore
VOLUME I

ULRICO HOEPLI
EDITORE-LIBRAIO DELLA REAL CASA
MILANO
1912


PROPRIETÀ LETTERARIA
169-911. — Firenze, Tipografia di S. Landi, Via Santa Caterina, 14


_A_
_LINDA VILLARI_

_A te, che mi sei compagna diletta negli studî, nelle gioie e nei
dolori della vita, dedico questo libro con un affetto che invano
cercherei parole a descrivere._
_P. VILLARI._


AVVERTENZA

Nel dare alle stampe la terza edizione di questa mia opera, debbo solo
dire al lettore, che ho cercato di tener conto delle pubblicazioni
fatte, in questi ultimi anni, intorno al Machiavelli.
Firenze, ottobre 1911.


AVVERTENZA
PREMESSA ALLA SECONDA EDIZIONE

Nel presentare al lettore una nuova edizione di questo libro, non ho
bisogno di aggiungere molte parole. Mi basta dir solamente, che l'ho
riveduto con quella maggiore diligenza che ho saputo, correggendo gli
errori di cui mi sono avvisto, tenendo conto di tutte le osservazioni
che mi furono fatte dai critici, e dei nuovi scritti che vennero alla
luce sul Machiavelli. Sento però il dovere di ringraziar sinceramente i
miei amici professor Cesare Paoli e cav. Alessandro Gherardi. Il primo
di essi mi ha aiutato rileggendo tutte le bozze di stampa, il secondo,
facendo per me nell'Archivio fiorentino i moltissimi riscontri di cui
l'ho continuamente pregato.
Firenze, 1895.


PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE

Si è scritto e si scrive tanto sul Machiavelli, che nel pubblicare una
nuova biografia di lui, mi par necessaria qualche spiegazione.
Per lungo tempo sembrava che egli fosse una sfinge, di cui niuno poteva
comprendere l'enigma. Chi lo dipingeva come un mostro di perfidia,
e chi lo diceva animato dal più puro e nobile patriottismo. Secondo
alcuni, i suoi scritti davano iniqui consigli, per rendere sicura la
tirannide; secondo altri, il _Principe_ era una satira sanguinosa dei
despoti, fatta per affilare i pugnali contro di essi, ed istigare i
popoli a ribellione. A coloro che esaltavano il merito letterario e
scientifico delle sue opere, rispondevano altri affermando che erano un
ammasso di dottrine erronee e pericolose, capaci solo di corrompere e
di mandare a rovina qualunque società stolta abbastanza per accettarle.
E così il nome stesso del Machiavelli divenne nel linguaggio popolare
un'ingiuria.
Non poche di queste esagerazioni, è vero, sono coll'andare del tempo,
e per opera di critici autorevoli scomparse; ma s'ingannerebbe di
certo chi credesse, che almeno sui punti di capitale importanza vi sia
oggi un giudizio universalmente accettato. Molti ricorderanno le grida
d'indignazione che alcuni sollevarono, specialmente in Francia, contro
il Governo Provvisorio della Toscana, quando sin dai primi giorni
della rivoluzione del 1859, esso decretava una nuova edizione di tutte
le opere del Segretario fiorentino. Alle ingiurie che allora furono
scagliate contro gl'italiani in generale, e contro il Machiavelli in
particolare, risposero altri esaltandone il genio politico e l'animo
incorrotto. È scorso appena qualche anno dacchè vide la luce una nuova
_Storia della Repubblica di Firenze_, scritta da uno degli uomini
più amati e venerati in Italia. In essa troviamo un paragone molto
eloquente, pieno di acute e giuste osservazioni, fra il Guicciardini
ed il Machiavelli, nel quale, dopo aver manifestato una preferenza
decisa pel primo dei due scrittori, si afferma che il Machiavelli
ebbe _malvagio l'ingegno, l'anima corrotta dalla disperazione del
bene_.[1] Questo giudizio non è certo improvvisato; è anzi il resultato
di molti studî e di lungo meditare, ed è dato da uno storico fra noi
autorevolissimo. I due eruditi toscani, che incominciarono nel 1873
la più recente edizione delle opere del Machiavelli, alludono più
volte all'intima e cordiale amicizia che, secondo essi, egli avrebbe
avuta col Valentino, di cui lo fanno consigliere, anche quando questi
insanguinava le sue mani nei più atroci delitti; e pubblicano qualche
documento inedito a conferma della loro asserzione. Da un altro lato i
più recenti biografi, sebbene non vadano sempre fra di loro d'accordo,
pure esaltano di nuovo il patriottismo non meno che l'ingegno del
Machiavelli, e qualcuno, dopo accurate indagini sulle opere di lui
e su documenti inediti, ne loda la generosità, la nobiltà e squisita
delicatezza d'animo, tanto da farne un modello impareggiabile di virtù
pubbliche e private. Tutto questo prova, mi sembra, che siamo assai
lontani da un giudizio, da un'opinione concorde, e che però nuove
ricerche e nuovi studî non sono del tutto superflui.
Le cagioni di un così grande e continuo dissenso furono varie. I tempi
in cui il Machiavelli visse, sono per lo storico pieni di difficoltà
e contradizioni, che in lui si personificano e moltiplicano in modo
da farlo qualche volta sembrare addirittura un mistero inesplicabile.
Vedere un uomo che in alcune pagine esalta la libertà e la virtù con
eloquenza inarrivabile; in altre insegna come ingannare e tradire,
come opprimere i popoli e render sicuri i tiranni, deve far nascere
certamente molti dubbî. Vederlo quindici anni servire fedelmente
la Repubblica, sostenere poi miseria e persecuzioni pel suo amore
alla libertà, e vederlo più tardi ancora raccomandarsi per essere
adoperato a servire i Medici, fosse pure _a voltolare un sasso_, non
può certo dissipare questi dubbî. Pure le contradizioni nella storia
e nell'umana natura sono molte, e nel caso presente si sarebbero
assai più facilmente spiegate, se la maggior parte degli scrittori
non avessero in ogni modo voluto essere accusatori o difensori del
Machiavelli, facendosi giudici non sempre imparziali della moralità e
del patriottismo di lui, piuttosto che veri biografi. A molti sembrava,
specialmente in Italia, che bastasse aver provato che egli amò la
libertà, l'unità e l'indipendenza della patria, per essere indulgenti
su tutto il resto, esaltarne le dottrine ed il carattere morale, anche
prima d'averli con diligenza e con critica esaminati, quasi che il
patriottismo fosse una prova sicura del genio politico e letterario, nè
venisse mai accompagnato da vizî e da colpe nella vita privata. Questo
doveva inevitabilmente promuovere opinioni contrarie, cui dettero
facile alimento le contradizioni più sopra notate. Così fu che, a poco
a poco, tutta la questione parve ridotta a sapere se il _Principe_ e
i _Discorsi_ erano stati scritti da un uomo onesto o disonesto, da
un repubblicano o da un cortigiano, quando invece si doveva cercar
di sapere che valore scientifico avevano le teorie in essi sostenute:
erano vere o erano false, contenevano o no verità nuove, facevano o no
avanzare la scienza? Nessuno vorrà negare che se le dottrine fossero
false, le virtù dello scrittore non le muterebbero in vere; come, se
fossero vere, non potrebbero i suoi vizî renderle false.
Certo non mancarono scrittori autorevoli, i quali intrapresero un esame
imparziale e razionale delle opere del Machiavelli; ma essi ci dettero
quasi sempre opuscoli storici o dissertazioni critiche, non vere e
proprie biografie. Occupati nell'esame filosofico delle dottrine, si
fermarono troppo poco ad esaminare i tempi ed il carattere dell'autore,
o ne parlarono solo, come se ogni disputa si potesse comporre dicendo,
che il Machiavelli ebbe la sua indole dal secolo in cui visse, e che
fedelmente ritrasse nei proprî scritti. Ma in un secolo v'è luogo per
molti uomini, molte idee, vizî e virtù diverse; nè possono i tempi
per sè soli spiegare tutto ciò che è opera, creazione personale del
genio. Lo studio di essi è tuttavia sempre necessario a chi vuol
conoscere e giudicare le dottrine di un pensatore, massime quando si
tratta d'un uomo come il Machiavelli, che tanto ricevette dalla società
in cui nacque, e tanta parte di sè pose ne' suoi libri. Ma io non
voglio qui prendere in esame i biografi ed i critici, dei quali dovrò
parlare altrove, assai spesso citandoli e valendomi delle loro opere.
Il mio scopo è ora solamente di dichiarare che non intendo essere nè
l'apologista, nè l'accusatore del Segretario fiorentino. Mi accinsi a
studiarne la vita, i tempi e gli scritti, per tentare di conoscerlo e
descriverlo quale fu veramente, con tutti i suoi meriti e demeriti, i
suoi vizî e le sue virtù.
Questo, è vero, può sembrare una strana presunzione, dopo i tentativi
fatti da uomini assai più autorevoli di me. Se non che i materiali
storici di recente pubblicati, e quelli che solamente ora son divenuti
accessibili a tutti, rendono oggi molto più agevole il risolvere
parecchi di quei dubbî che prima sembravano presentare difficoltà
insormontabili. È certo che pubblicazioni come, ad esempio, i dieci
volumi delle _Opere inedite_ del Guicciardini, i carteggi diplomatici
di quasi ogni provincia italiana, un numero infinito d'altri documenti,
per non parlare dei tanti scritti originali d'Italiani e stranieri,
hanno dissipato molte oscurità e contradizioni nella storia letteraria
e politica del Rinascimento italiano. Anche i rapidi progressi fatti ai
nostri giorni dalle scienze sociali, debbono rendere assai più agevole
determinare il valore intrinseco ed il carattere storico di quello
che molti chiamarono il Machiavellismo. E quanto alla persona stessa
del Segretario fiorentino, non poca luce posson dare le carte che,
dopo la sua morte, andarono alla famiglia Ricci, poi alla Biblioteca
Palatina di Firenze, dove per molto tempo vennero assai gelosamente
custodite, ed oggi sono nella Nazionale visibili a tutti, in parte
anzi già pubblicate. I signori Passerini e Milanesi, nei cinque
volumi[2] finora usciti alla luce della nuova edizione delle _Opere_,
da essi cominciata in Firenze, sono andati stampando dagli archivî e
dalle biblioteche fiorentine molti utili documenti. Restava nondimeno
ancora inesplorata una mole non piccola di carte preziosissime. Posso,
ad esempio, affermare che ascendono a parecchie migliaia le lettere
d'ufficio scritte di propria mano del Machiavelli, tuttavia inedite, e,
per quanto io sappia, da nessun biografo esaminate. In tali condizioni
adunque non mi parve addirittura presuntuoso l'accingersi a ritentare
la prova.
Se tutte le biografie dovessero aver sempre la medesima forma, io di
certo potrei meritar severo biasimo, per essermi, in alcune parti di
quest'opera, fermato assai lungamente a parlar dei tempi. Ma ho creduto
di dover preferire quella forma che meglio s'adattava alla natura del
soggetto. Si conosce così poco del Machiavelli in tutti gli anni nei
quali egli compiva i suoi studî giovanili, e s'andava formando la sua
propria indole, che io ho cercato di colmare, in qualche parte almeno,
la grave lacuna con un minuto esame della società e dei tempi in cui
egli visse. Mi sono quindi sforzato di esaminare come nel secolo
XV andasse sorgendo lo spirito del Machiavellismo, prima che egli
comparisse sulla scena a dargli l'impronta originale del suo genio, a
formularlo scientificamente. E dopo di avere, se così posso esprimermi,
studiato il Machiavelli prima del Machiavelli, mi sono finalmente
avvicinato a lui, quando egli comincia personalmente a divenir visibile
nella storia, ed ho cercato di studiarne, di conoscerne le passioni,
i pensieri, per quanto ho saputo e potuto, nei suoi proprî scritti, in
quelli degli amici più intimi e degli altri contemporanei. Non ho mai
tralasciato d'esaminare gli scrittori moderni, ma ho preferito sempre
fondarmi sull'autorità di coloro che più erano vicini ai fatti che
dovevo narrare.
Ma anche ciò ha contribuito non poco a dare una forma del tutto
speciale a questa biografia. Uno dei documenti più importanti a
conoscere la vita del Machiavelli sono di certo le _Legazioni_,
trovandosi in esse non solamente la storia fedele delle sue ambascerìe,
ma anche i primi germi delle sue dottrine politiche. Nondimeno, sebbene
tutto ciò fosse stato già da altri, specialmente dal Gervinus, più
volte avvertito, pure continuarono sempre ad esser poco lette, perchè
in esse l'autore è necessariamente costretto a ripetere assai spesso
le medesime cose, fermandosi di continuo sopra minuti particolari,
e perchè a farle universalmente intendere e gustare occorrerebbe
un comentario perpetuo sugli avvenimenti di cui ragionano o a cui
alludono. Io quindi, affinchè il lettore potesse assistere da sè, e
quasi vedere coi proprî occhi come nacquero e come s'andarono formando
le idee del nostro autore, ho dovuto riportare letteralmente od in
sunto molti de' suoi dispacci,[3] assai più che non avrei voluto e che
non giovi alla rapidità della narrazione, ma non più di quello che mi
parve necessario alla piena conoscenza del soggetto.
Complemento opportunissimo alle _Legazioni_ sono le lettere d'ufficio,
che il Machiavelli scrisse nella Cancelleria. Se le prime ci fanno
conoscere la sua vita politica fuori, le seconde ce la fanno conoscere
dentro la Repubblica. Moltissime di certo non hanno valore alcuno,
essendo semplici ordini dati ad uno o un altro Commissario, ripetendo
fino alla sazietà in fretta e furia le medesime cose. In altre però
rifulgono di tanto in tanto lo stile, il pensiero, l'originalità del
grande scrittore. La massima parte di esse restando, come abbiamo già
detto, ancora inedite, era pur necessario percorrerle ed esaminarle.
E però m'accinsi al lungo e spesso ingrato lavoro, copiandone o
facendone copiare qualche migliaio, molte citandone nelle note, di
altre riportando notevoli brani; solo alcune poche dètti integralmente
nell'_Appendice_, affinchè si potesse avere una chiara idea di ciò che
veramente sono. Ed anche questo fece procedere più lenta la narrazione.
Ma, per quanto io vi riflettessi e stessi in guardia contro me stesso,
non vi potei trovare rimedio alcuno. Passare sotto silenzio quello
che per tanti anni era stato il lavoro principale del Machiavelli,
non mi sembrava possibile; nè potevo parlare d'una sì vasta mole di
lettere inedite senza spesso citarle e darne qualche saggio, tanto
più non essendo sperabile che qualcuno mai s'accingesse a pubblicarle
tutte. Non starò qui ad enumerare i molti altri documenti che cercai
e che lessi: si vedrà facilmente dalle note. Ricorderò nondimeno
che, durante queste indagini, potei dare alla luce i tre volumi di
_Dispacci_ d'Antonio Giustinian,[4] i quali raccolsi e studiai, non
solamente perchè recavano nuova luce sui tempi di cui m'occupavo, ma
ancora perchè mi davano modo di porre accanto al Segretario ed Oratore
fiorentino uno dei principali ambasciatori della repubblica veneta, e
così paragonarli fra loro.
Quando nel 1512, dopo la battaglia di Ravenna, i Medici tornarono a
Firenze, la libertà fu spenta, ed il Machiavelli, uscito d'ufficio,
ricadde nell'oscurità della vita privata. La sua biografia allora
muta aspetto, dovendosi ridurre quasi esclusivamente all'esame delle
opere che scrisse, ed al racconto degli avvenimenti in mezzo ai quali
le compose. Ma tutto ciò formerà il soggetto del secondo volume, il
quale, mi duole di doverlo dire, si farà aspettare più lungamente che
non vorrei, essendo ancora lontano dal suo compimento.[5] Avrei certo
preferito di ritardare la stampa fino a quando avessi potuto dare alla
luce tutta l'opera. Ma nei lunghi anni nei quali andavo continuando
i miei studî, vidi pubblicar di continuo non solamente nuove
dissertazioni e biografie del Machiavelli, ma anche documenti spesso da
me già trovati e copiati, ed altri lavori già s'annunziano ora; sicchè,
arrivato alla fine di questo primo volume, deliberai di darlo alla
luce, senza più aspettare. È questa del resto un'usanza divenuta ormai
così generale, che spero di non dover esser biasimato, se anch'io me ne
giovo.
Debbo qui avvertire che per gli scritti del Machiavelli, mi sono valso
dell'edizione che porta la data d'Italia 1813, una delle migliori fra
quelle finora compiute. Ho però tenuto sempre a riscontro l'altra più
recente, incominciata in Firenze l'anno 1873, ma ancora lontana dal
suo compimento, e che ora ha perduto nel conte Passerini il principale
suo collaboratore. In questa si cercò di riprodurre più fedelmente
l'antica ortografia del Machiavelli, il che fu certo lodevole pensiero.
Ma nel riportare, come spesso dovetti fare, brani de' suoi scritti,
io ho creduto che certe forme puramente convenzionali e notissime
si potessero, senza danno, purchè con molta cautela e parsimonia,
tralasciare in un libro moderno, anche per non mutare troppo spesso e
troppo rapidamente la forma materiale dello scrivere. Nell'_Appendice_
mi sono invece attenuto sempre scrupolosamente all'antica ortografia.
Il lettore vedrà che ho dovuto più volte dissentire dai due eruditi,
i quali curarono la nuova edizione, massime per la importanza e pel
significato che vollero attribuire ad alcuni dei documenti da essi
pubblicati. Ma di ciò altrove; qui non intendo menomamente porre in
dubbio il merito che ebbero per la molta diligenza usata nel darli
alla luce, tanto più che, in ogni modo, sono documenti utilissimi al
biografo, ed io stesso me ne giovai di frequente.
V'è però una notizia errata, che essi dettero, e della quale debbo qui
necessariamente parlare. Nella _Prefazione_ al terzo volume, venuto
alla luce nel 1875, dopo aver deplorato la perdita di molte lettere del
Machiavelli, i nuovi editori aggiungevano: «È noto infatti che andarono
fuori d'Italia e per sempre i molti volumi delle sue lettere familiari,
che erano nelle case dei Vettori, venduti per fraudolento inganno d'un
prete a lord Guildford, e poi passati nelle mani di un signor Phillipps
inglese, il quale tenne, finchè visse, con grandissima gelosia
quelle ed altre rare cose che possedeva, tantochè si rifiutò di farle
esaminare, non che copiare, anche per la nuova edizione delle _Opere_
del Machiavelli, decretata nel 1859 dal Governo Toscano, il quale per
il marchese di Laiatico suo ambasciatore straordinario a Londra, ne lo
aveva fatto richiedere. Nè ora che egli, morendo, ha per testamento
lasciato quelle ed altre sue cose al Museo Britannico, possiamo
profittarne, perchè sono saltati fuori i suoi creditori, ed impediscono
che quel lascito abbia il suo effetto.» — Scrivere una biografia del
Machiavelli, senza prima cercare in ogni modo di vedere i molti volumi
di lettere familiari, delle quali con tanta certezza s'affermava
l'esistenza, non era possibile. Fatte dunque alcune indagini, trovai
che realmente erano da Firenze venuti nelle mani di lord Guildford
tre volumi di lettere manoscritte, date nel suo Catalogo a stampa
per lettere inedite del Machiavelli, e dichiarate anche un _tesoro
letterario_ d'inestimabile valore. Le aveva comprate poi il gran
collettore inglese di manoscritti d'ogni genere, sir Thomas Phillipps,
che le lasciò, con tutta la sua ricchissima biblioteca,[6] alla propria
figlia, la quale, maritata al reverendo signor E. Fenwick, trovasi ora
in Cheltenham, dove io andai, e così finalmente ebbi nelle mani i tre
_preziosi_ volumi. Il lettore capirà certo la mia maraviglia, quando
gli dirò che nell'aprirli dovetti quasi istantaneamente accorgermi,
che una sola di quelle lettere, sebbene neppur essa autografa, poteva
ritenersi del Machiavelli; tutte le altre certamente non eran di lui.
Questi tre volumi di antica scrittura, segnati nel Catalogo Phillipps
col numero 8238, hanno per titolo: _Carteggio originale di Niccolò
Machiavelli, al tempo che fu segretario della Repubblica fiorentina.
Inedito._ La prima lettera, senza nessuna importanza, è del 20 ottobre
1508, scritta in nome dei Dieci, ed a piè di pagina vi si trova il
nome _Nic.^s Maclavello_, messovi, secondo il solito, dal coadiutore
che copiava nei registri della Cancelleria. È la sola di cui si possa
credere che la minuta sia stata scritta dal Machiavelli, senza però
neppure averne l'assoluta certezza. Tutte le altre, a cominciare dalla
seconda del primo volume, vanno dal 1513, quando già il Machiavelli era
uscito d'ufficio, e i Medici erano tornati a Firenze, sino al 1526,
quando di certo egli non era stato ancora richiamato agli affari.
Esse sono tutte indirizzate a Francesco Vettori, che in quegli anni
fu ambasciatore a Roma ed altrove; sono scritte sempre in nome degli
Otto di Pratica, che successero ai Dieci di Libertà nel 1512, quando
il Machiavelli venne destituito. A piedi di molte pagine del registro
si leggono le iniziali _N. M._ Qualche volta invece vi si legge, più
o meno abbreviato, in modo però da non lasciare nessun dubbio, il nome
di Niccolò Michelozzi, che allora appunto era il Cancelliere degli Otto
di Pratica. La prima lettera adunque, cavata da un più antico registro
della Repubblica, fu messa in fronte a questi volumi, per ingannare il
troppo credulo compratore, il quale perciò le credette tutte di Niccolò
Machiavelli, sebbene, anche senza conoscerne la scrittura, avrebbe
assai facilmente, guardando solo alle date, potuto capire che non erano
di lui. E così, dopo aver fatto invano il lungo viaggio, esaminato che
ebbi il Catalogo della ricca biblioteca, preso qualche appunto da altri
manoscritti italiani, dovetti tornarmene a Firenze con la certezza che
il supposto epistolario del Machiavelli era un sogno.
Ed ora non mi resta che un'ultima parola. Assai spesso chi scrive
un libro ha, nello scegliere il soggetto, un segreto pensiero che
lo muove. Io sono stato mosso principalmente dal pensiero, che il
Rinascimento italiano, di cui il Machiavelli fu certo uno dei più
illustri rappresentanti, è il tempo in cui il nostro spirito nazionale
ebbe la sua ultima manifestazione, la sua ultima forma veramente
originali. Seguì poi un lungo sonno, da cui appena ci siamo svegliati.
Lo studio d'un tale periodo storico può quindi, se non m'inganno,
riuscire a noi doppiamente utile, facendoci non solo conoscere una
parte assai splendida della nostra antica cultura, ma dandoci ancora
più d'una spiegazione così dei vizî, contro i quali combattiamo
oggi, come delle virtù che ci aiutarono a risorgere. E la lezione
potrà essere ancora più utile, se lo storico non dimenticherà, che
il suo ufficio non è di bandire precetti di politica o di morale, ma
solo di sforzarsi a far rivivere il passato, dal quale è venuto il
presente, che da esso riceve lume ed ammaestramento continuo anche
per l'avvenire. Un tale pensiero in ogni modo è quello che più volte
m'infuse lena e mi diè coraggio, mantenendo in me sempre viva la fede
che, pure restando lontano dal mondo e chiuso fra i libri, io non
dimenticavo il debito che tutti noi, ciascuno secondo le sue forze,
oggi più che mai, abbiamo verso la patria.
Firenze, 1877.


INTRODUZIONE

I.
IL RINASCIMENTO
È difficile trovare nella storia dell'Europa moderna un periodo che
abbia l'importanza di quello cui suol darsi, nella storia italiana,
il nome di Rinascimento. Posto fra il cadere del Medio Evo ed il
costituirsi delle società moderne, può dirsi che già cominci con Dante
Alighieri, il quale nelle sue opere immortali ci lasciò la sintesi
d'una età che muore, e ci annunziò il sorgere d'un'èra novella.
Questa, che è appunto il Rinascimento, s'iniziò davvero con Francesco
Petrarca e con gli eruditi, finì con Martino Lutero e la Riforma, la
quale alterò profondamente la storia anche dei popoli che restarono
cattolici, e portò di là dalle Alpi il centro di gravità della cultura
europea. Durante il periodo di cui ragioniamo, vedesi in Italia una
rapida trasformazione sociale, una grandissima operosità intellettuale.
Da per tutto tradizioni, forme, istituzioni antiche, che crollano
dinanzi alle nuove che sorgono. La scolastica cede il luogo alla
filosofia, il principio d'autorità cade innanzi alla libera ragione
ed al libero esame, che s'avanzano. Comincia lo studio delle scienze
naturali: con Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci si danno i
primi passi alla ricerca del metodo sperimentale; progrediscono il
commercio e l'industria; si moltiplicano i viaggi, e Cristoforo Colombo
scopre l'America. La stampa, trovata in Germania, diviene subito
un'industria italiana. L'erudizione classica si diffonde per tutto, e
l'uso della lingua latina, che sembra, per qualche tempo, tornata la
lingua universale dei popoli civili, pone l'Italia in stretta relazione
con l'Europa, che l'accetta a guida e maestra del sapere. Si creano
la scienza politica e l'arte della guerra; la cronaca cede il luogo
alla storia civile del Guicciardini e del Machiavelli; la cultura
antica rinasce, ed il poema cavalleresco sorge in mezzo ad altre ed
altre nuove forme di componimenti letterarî. Il Brunelleschi crea
un'architettura nuova, Donatello fa risorgere la scultura, Masaccio ed
una miriade di pittori toscani ed umbri apparecchiano, collo studio
della natura, la via a Raffaello ed a Michelangelo. Il mondo sembra
rinnovarsi e ringiovanirsi, illuminato dal sole della cultura italiana.
Ma in mezzo a così grande splendore si osservano strane ed
inesplicabili contradizioni. Questo popolo tanto ricco, industrioso,
intelligente, innanzi a cui l'Europa resta come estatica d'ammirazione,
va corrompendosi rapidamente. La libertà scomparisce e sorgono
tiranni per tutto; i vincoli della famiglia sembrano indebolirsi,
e il focolare domestico profanarsi: nessuno si fida più della fede
italiana. La nazione diviene politicamente e moralmente così debole,
che non può resistere ad alcun urto di potenza straniera; il primo
esercito che passa le Alpi, percorre la Penisola senza quasi colpo
ferire, e seguono altri, che vengono con uguale facilità a lacerarla
e calpestarla. Usi a sentire ogni giorno ripetere, che l'istruzione e
la cultura costituiscono la grandezza e misurano la forza dei popoli,
siamo naturalmente indotti a domandarci: come dunque l'Italia, in mezzo
a tanto splendore di lettere e di arti, s'indebolisce, si corrompe e
decade? È facile il dire: colpa degl'italiani, che, invece d'unirsi a
difesa comune, si lacerano fra loro. Ma perchè sono essi a un tratto
divenuti così colpevoli? L'Italia del Medio Evo non era stata più
divisa e più forte ad un tempo, le vendette e le guerre civili non
erano state più cieche e più sanguinose? Nè vale il dire che essa
s'era esaurita nelle lotte e nella grandezza raggiunta nel Medio Evo.
Può dirsi veramente esaurita una nazione nel momento in cui, con la
sua intelligenza ed operosità, trasforma la faccia del mondo? Invece
d'affaticarsi a formulare giudizî e sentenze generali, val meglio
fermarsi ad osservare e descrivere i fatti. Ed il fatto principale nel
secolo XV è questo: che le istituzioni medievali avevano in Italia
prodotto una società nuova ed un progresso civile tale, che esse si
trovarono a un tratto divenute insufficienti o anche dannose. Una
radicale trasformazione e rivoluzione era quindi inevitabile. Or fu nel
momento appunto, in cui questo generale sconvolgimento sociale seguiva
nella Penisola, che gli stranieri le piombarono addosso, e le resero
impossibile l'andare innanzi.
Il Medio Evo non conosceva quell'organismo politico che noi chiamiamo
Stato, che riunisce e coordina con norme precise le forze sociali. La
società era invece divisa in feudi e sotto-feudi, in Comuni grossi
e piccoli, ed il Comune non era altro che un fascio di associazioni
minori, malamente legate insieme. Al di sopra di sì vasta ed incomposta
mole stavano il Papato e l'Impero, che sebbene, essendo spesso in
guerra fra loro, crescessero il generale scompiglio, pur costituivano
allora la informe unità del mondo civile. Tutto ciò era mutato affatto
nel secolo XV. Da un lato le grandi nazioni cominciavano a formarsi,
da un altro l'autorità dell'Impero, circoscritta in Germania, era
in Italia poco più che una memoria del passato; ed i papi, occupati
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