Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I - 20

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Valentino faceva sempre grandi disegni sulla Romagna, si dimostrava
disposta invece a confermare il _beneplacito_, aggiungendo che aveva
richiesta d'uomini d'arme da suo zio il Moro, e voleva quindi pronta
risposta, per sapere come regolarsi. Da ciò la commissione data al
Machiavelli.
La Contessa era una donna singolarissima, e ben capace di tenergli
testa. Nata nel 1462 da illegittimi amori di Galeazzo Maria Sforza[390]
con Lucrezia, moglie d'un Landriani milanese, di forme regolari e
belle, forte di corpo, d'animo più che virile, ebbe molte e strane
avventure, nelle quali aveva sempre fatto prova di un'accortezza e
prontezza ammirabili davvero, di una energia e d'un coraggio, che
l'avevano resa celebre in tutta Italia. Giovanissima fu sposata
al dissoluto figlio di Sisto IV, Girolamo Riario, il quale, per la
violenza del suo carattere e del suo governo, si trovò sempre sotto il
pugnale de' congiurati. Nel 1487, già vicina a partorire, lo assisteva
malato in Imola, quando arrivò la nuova, che la fortezza di Forlì era
stata presa dal maestro di palazzo Innocenzo Codronchi, il quale aveva
ucciso il castellano. E Caterina partì la notte stessa, entrò nel
castello, vi lasciò a guardia Tommaso Feo, e ne uscì menando seco il
Codronchi ad Imola, dove il giorno di poi partorì. Il 14 aprile 1488
scoppiò in Forlì una congiura contro Girolamo Riario, che fu pugnalato;
ed ella, restata a 26 anni vedova con sei figli, si trovò prigioniera
degli Orsi capi della rivolta. Ma neppure allora si perdette d'animo.
Entrò nel castello, che si teneva per lei, facendo credere che ne
avrebbe ordinato la resa al popolo, nelle cui mani lasciava perciò
in ostaggio i suoi figli. Invece aveva già mandato a chiedere aiuti a
Milano, e quando fu al sicuro nel castello, s'apparecchiò a difendersi
sino all'arrivo dei soccorsi. A chi voleva spaventarla, minacciando
d'uccidere i figli, rispose che avrebbe avuto modo di farne degli
altri. La città fu ripresa, e la ribellione venne da lei punita col
sangue. Più tardi la Contessa fece a un tratto disarmare il fido
castellano che l'aveva salvata, sostituendogli il fratello, Giacomo
Feo, bellissimo giovane che poi sposò. Anche questo secondo marito fu
assassinato nel 1495, un giorno che seguiva a cavallo la Contessa, la
quale era in carrozza, e tornavano insieme dalla caccia. Ella montò
subito a cavallo, ed entrò in Forlì, dove fece aspra, sanguinosa,
quasi furibonda vendetta. Quaranta persone andarono a morte fra strazi
atroci, e cinquanta vennero imprigionate o perseguitate. Pure fu
detto e ripetuto, che ella aveva prezzolato gli uccisori del marito,
e che ora ne pigliava pretesto a disfarsi dei propri nemici. Ma a ciò
rispose, che, grazie a Dio, nè essa nè altri di casa Sforza avevano
mai avuto bisogno di ricorrere a così volgari assassini, quando si
erano voluti disfare di qualcuno. Nel 1497 sposò la terza volta, e fu
moglie di Giovanni di Pier Francesco, del ramo cadetto de' Medici, che
era stato mandato colà ambasciatore della Repubblica fiorentina.[391]
E allora fu fatta cittadina di Firenze, in parte perchè si cercava
occasione di lusingarla e tenersela amica; in parte perchè le antiche
leggi, che vietavano i matrimoni di cittadini, massime cittadini
potenti, con stranieri, erano state rimesse in vigore dopo che il
parentado dei Medici cogli Orsini di Roma aveva fatto salire i primi
in grande superbia. Nell'aprile del 1498 ella ebbe un altro figlio,
assai noto più tardi col nome di Giovanni delle Bande Nere, soldato
valorosissimo e padre di Cosimo, primo granduca di Toscana. Verso la
fine di quel medesimo anno, anche il suo terzo marito cessò di vivere.
La Contessa dunque aveva 36 anni, era vedova di tre mariti, madre di
molti figli, padrona assoluta del suo piccolo Stato, e nota come donna
piena d'accortezza, d'ingegno e di grandissima energia, quando le si
presentò Niccolò Machiavelli.[392]
I Fiorentini erano disposti a riconfermare il beneplacito al signor
Ottaviano, ma con una condotta che non superasse i 10,000 ducati, il
loro scopo essendo solo d'avere la Contessa amica. Incaricavano il
Machiavelli di ciò, e anche di comperare da lei, se ne aveva, polvere,
salnitro e palle, perchè le richieste non cessavano mai dal campo di
Pisa.[393] Ed egli, dopo essersi fermato a Castrocaro, donde ragguagliò
i Signori intorno ai partiti che dividevano quel paese, arrivato a
Forlì, il giorno 16 luglio, si presentò subito alla Contessa, che trovò
con l'agente del Moro, in presenza del quale espose lo scopo della sua
legazione, l'animo della Repubblica e il desiderio che essa aveva di
buona amicizia con lei. E questa, dopo avere ascoltato con attenzione,
disse che le parole dei Fiorentini «l'avevano sempre soddisfatta, ma
che le erano bene dispiaciuti sempre i fatti;»[394] e pigliò tempo
a pensare. Più tardi gli fece sapere che da Milano le erano offerti
migliori patti, e poi cominciarono le trattative. Di polvere o altro
non potè dar nulla, perchè ne mancava ella stessa. Invece abbondava di
fanti, che raccoglieva, passava ogni giorno in rivista, e mandava poi
a Milano. Il Machiavelli, invitato da Marcello Virgilio, trattò per
averne subito e spedirli a Pisa; ma non furono d'accordo nè sulla somma
da pagare, nè sul tempo in cui si potevano avere.[395] Il 22 luglio
egli credeva d'aver concluso la condotta, avendo offerto fino a 12,000
ducati; pure aggiungeva di non essere certo, perchè la Contessa «era
stata sempre sull'onorevole,» ed a lui non era riuscito di capire se
inclinava verso Firenze o verso Milano. «Io vedo bene,» egli scriveva,
«la Corte piena di Fiorentini, i quali sembrano avere in mano lo
Stato; inoltre, ed è quello che più importa, la Contessa vede pure
il duca di Milano assalito, senza sapere che sicurezza vi sia in lui;
ma da un altro lato l'agente del Moro par che comandi, e di continuo
partono fanti per Milano.» Infatti, sebbene il 23 luglio tutto paresse
che fosse concluso, e che si dovesse il giorno di poi sottoscrivere
l'accordo, pure quando il Machiavelli si ripresentò per la firma,
la Contessa, ricevutolo in presenza del solito agente milanese, gli
disse: «Avere ripensato la notte, che a lei conveniva meglio aderire ai
patti, solo quando i Fiorentini si dichiarassero obbligati a difenderle
lo Stato. Che se essa gli mandò a dire altrimenti il giorno innanzi,
non doveva maravigliarsene, perchè le cose quanto più si discutono,
meglio s'intendono.»[396] Ma i Signori avevano già fatto sapere al
Machiavelli, che erano decisi a non assumere un tale obbligo; a lui
dunque non restava altro che tornarsene a Firenze, come fece.[397]
Tutta l'apparenza di questa legazione farebbe credere, che la Contessa
fosse stata più furba del Machiavelli, il quale sembrerebbe essersi
lasciato aggirare da una donna. Nè, se ciò fosse, vi sarebbe da
maravigliarsene punto, pensando che Caterina Sforza era una donna
d'animo virile, che da più tempo governava sola il suo Stato, ed aveva
molta pratica degli affari, quando il Segretario fiorentino, invece,
con tutto il suo grande ingegno, era un semplice letterato, che faceva
ora le sue prime armi nella diplomazia. In sostanza però i Fiorentini
non avevano nessuna ragione d'essere scontenti. Il loro scopo non era
stato di concludere la condotta, bensì d'avere amica la Contessa, senza
spendere danari; e ciò era riuscito a maraviglia, perchè le trattative
non furono rotte, ma venne da Forlì un uomo fidato di lei a continuarle
in Firenze.[398] Al Machiavelli poi la legazione fu utilissima, perchè
le sue lettere erano state da tutti molto lodate in Palazzo. Il suo
sempre fido amico e collega Biagio Buonaccorsi, che era un repubblicano
ammiratore del Savonarola, del Benivieni, di Pico della Mirandola;
amante degli studi, sebbene mediocre letterato; autore di poesie e
d'un _Diario_ che narra assai fedelmente i fatti di Firenze dal 1498
al 1512, gli scriveva continuamente e lo ragguagliava di tutto. «A mio
giudizio,» diceva una sua lettera del 19 luglio, «voi avete eseguito
insino a ora con grande onore la commissione ingiuntavi, di che io ho
preso piacere grandissimo, e di continuo piglio...: sì che seguitate,
che infino ad ora ci avete fatto grande onore.» Lo stesso ripeteva
in altre lettere, in una delle quali gli chiedeva un ritratto della
Contessa, pregandolo che ne facesse «uno ruotolo, acciò le pieghe non
la guastino.» E gli faceva anche vivissima istanza che tornasse subito,
perchè senza di lui la cancelleria era caduta in un gran disordine,
e l'invidia e la gelosia lavoravano assai; onde «lo star costì non fa
per voi, e qui è un trabocco di faccende quanto fussi mai.»[399] Questi
furono pel Machiavelli anni di dolori domestici. Nell'ottobre del 1496
gli era morta la madre, nel maggio del 1500 gli moriva il padre.
Prima di partire per la sua legazione a Forlì, il Machiavelli era
stato, come dicemmo, occupato a scrivere lettere per calmare le
gelosie dei capitani, e spingerli concordi alla guerra, cercando con
ogni argomento di far nascere in essi quell'amore alla Repubblica,
che non sentivano. Il Vitelli aveva proposto d'assaltare Cascina, ed
essendogli stato consentito, la prese il 26 giugno, cosa che riempì
di gioia e di speranza i Fiorentini, i quali cominciarono subito ad
aver grande opinione del suo valore. Ma invece da questo momento
ogni cosa restò ferma, mentre le spese crescevano smisuratamente;
sicchè, quando il Machiavelli fece ritorno da Forlì trovò i Signori
sgomenti, il popolo irritato, e i capitani che chiedevano danari che
non v'erano. Nei primi d'agosto egli faceva loro scrivere, in nome dei
Signori, che le difficoltà, per indurre i Consigli a votar nuove spese
erano grandissime; che se si andava ancora in lungo così, «sarebbe
impossibile a mezza Italia sopperire a queste artiglierie.»[400] E poco
di poi aggiungeva, «come, avendo infino a oggi per cotesta espedizione
speso fra costì e qui circa sessantaquattro mila ducati, si è munto
ogni uno; e per fare questi vi mandiamo al presente (2000 ducati), si
sono vôte tutte le casse....» Se non fate presto, «senza dubbio noi
resteremo a piè, perchè sei mila ducati che bisognassino ancora, ci
farebbero desperare al tutto di codesta vittoria.»[401]
Allora però vi fu un momento di grandissima speranza, perchè giunse
la nuova che era stata presa la torre di Stampace, e che da 25 a 30
braccia delle mura di Pisa erano già a terra; sicchè d'ora in ora
s'aspettava il corriere con la desiderata notizia che gli assalitori
erano entrati per la breccia. Invece si seppe che il giorno 10, data
la battaglia, e giunti fino alla chiesa di San Paolo, quando tutto
l'esercito, e specialmente i giovani fiorentini andati come volontarî
al campo, si mostravano pieni d'indomabile ardore, sopravvenne a
un tratto, non desiderato nè aspettato da nessuno, l'ordine della
ritirata. Anzi Paolo Vitelli, vedendo che i soldati volevano andar
oltre in ogni modo, corse con suo fratello Vitellozzo a ributtarli
indietro a colpi di stocco.[402]
Queste notizie portarono al colmo lo sdegno dei Fiorentini, e fecero
nascere gravi sospetti di tradimento a carico del Vitelli. Si ricordava
da tutti il salvocondotto da lui dato in Casentino al duca d'Urbino,
quando s'era lasciato anche vedere dai suoi soldati parlare con Piero
e Giuliano dei Medici. Poco prima della presa di Cascina, aveva fatto
prigioniero un tal Ranieri della Sassetta, che, dopo essere stato a
soldo dei Fiorentini, aveva disertato ai Pisani, pigliando parte in
mille intrighi contro la Repubblica. I Signori lo volevano subito a
Firenze, per condannarlo, ed egli invece lo lasciò fuggire, dicendo
«non volersi render bargello d'un soldato valente e da bene.»[403]
Ed ora fermava l'esercito, quando appunto la vittoria era certa, e
la città stessa di Pisa sembrava già presa, adducendo esser sicuro
d'averla a patti! Tutto ciò era più che sufficiente a distruggere ogni
fede in lui, ed a far perdere la pazienza. I Signori infatti dissero
chiaro, che non volevano essere più «menati al buio;»[404] ed il 20
agosto fecero dal Machiavelli scrivere ai commissarî nel campo: Noi
abbiamo dato al capitano tutto quello che ha voluto, eppure vediamo,
«con varie cavillazioni ed aggiramenti, tornare in vano ogni nostra
fatica.»[405] Due di noi sarebbero perciò venuti costà in persona, se
le leggi lo consentissero, per cercar di scoprire le origini di codesti
aggiramenti, «poi che voi o non ce li volete scrivere o in fatto non ve
li pare conoscere.»[406] Ma tutto era vano. Intanto le febbri facevano
stragi nel campo, che s'andava così assottigliando, mentre i Pisani
ricevevano aiuti. I due commissarî s'ammalarono di febbre anch'essi,
ed uno ne morì. Ai nuovi che furono subito mandati, il Machiavelli
scriveva in nome dei Signori: Noi avremmo preferito una disfatta al
non tentare nulla in un momento così decisivo. «Non sappiamo nè che ci
dire, nè con qual ragione escusarci in cospetto di tutto questo popolo,
il quale ci parrà aver pasciuto di favole, tenendolo di dì in dì con
vana promessa di certa vittoria.»[407]
Un partito in ogni modo bisognava prendere, e siccome non v'era altro
rimedio, nella totale mancanza di danaro, dopo la condotta del Vitelli
ed i gravi sospetti che di lui s'erano concepiti, così fu dato ordine
di levare addirittura il campo, lasciando fortificati e guardati solo
alcuni luoghi di maggiore importanza. Ma anche allora tutto andò male,
giacchè, fra le altre cose, affondarono in Arno dieci barche, che
portavano munizioni ed artiglierie, parte delle quali vennero in mano
dei Pisani, che le ripescarono.[408] Ma questa faccenda non poteva
passar liscia pel Vitelli. Dopo quel che era seguìto, e quando già
tutti in Firenze lo credevano traditore, s'era anche sparsa la voce,
che nella fuga del Moro da Milano, erano in mano dei Francesi venute
delle carte dalle quali s'aveva la certezza, che egli trovavasi in
segreti accordi per tirare in lungo la guerra.[409] Braccio Martelli
e Antonio Canigiani erano già partiti come commissarî di guerra,
incaricati in apparenza di fornire il danaro necessario a levare il
campo, ma in realtà mandati ad impadronirsi della persona di Paolo e di
Vitellozzo Vitelli, il secondo dei quali, per fuggirsene, aveva allora
chiesto un congedo, che gli era stato negato.
Le lettere scritte dal Machiavelli in questa occasione dimostrano
che il segreto dell'affare era nelle sue mani, e che egli, persuaso
della perfidia e tradimento del Vitelli, lavorava con zelo ed ardore
grandissimi ad ottenere lo scopo desiderato. Il 27 settembre era
assai vicino lo scioglimento del dramma, ed egli raccomandava ai
commissarî che procedessero con energia contro i «nemici e ribelli»
della Repubblica, trattandosi di salvarne l'onore, e di mostrare
anche alla Francia, che si aveva il coraggio di provvedere alla
propria sicurezza, e che si voleva essere rispettati non meno d'ogni
altro potentato d'Italia. Poi conchiudeva, raccomandando che alla
sollecitudine s'unisse tale circospezione e prudenza, «che nè il troppo
animo, nè i troppi rispetti vi faccino errare, accelerando per l'una
cagione più che non bisognerebbe, e per l'altra più che non patissi la
occasione.»[410]
I due commissarî eseguirono gli ordini con prudenza. Il Vitelli
alloggiava un miglio lontano da Cascina, dove arrivavano le artiglierie
del campo. Lo invitarono colà il giorno 28, sotto colore di volerlo
consultare sulle cose della guerra; ma dopo avere desinato insieme,
si ritirarono con lui in una stanza segreta, ed ivi lo ritennero
prigione. Avevano nel medesimo tempo mandato a pigliar Vitellozzo,
che era ammalato in letto; questi però, avvedutosene, chiese tempo a
vestirsi, ed invece fuggì verso Pisa.[411] Portato a Firenze, Paolo
fu esaminato l'ultimo di settembre, e sebbene non avesse confessato
nulla, pure il giorno appresso venne decapitato. Di questo fatto si
parlò molto nella Città e fuori, essendo il Vitelli un soldato di
reputazione, che aveva anche l'amicizia di Francia. Il Guicciardini lo
giudica innocente, spiegandone la inesplicabile condotta con la natura
e le consuetudini dei capitani di ventura; il Nardi invece lo dichiara
colpevole e giustamente condannato; il Buonaccorsi, che si trovava
nella cancelleria, racconta la cosa senza comenti, conchiudendo: «e
questo fu il fine di Pagolo Vitegli, uomo eccellentissimo.» Quanto al
Machiavelli, sebbene non avesse occasione di parlare del fatto nelle
_Storie_ o nei _Frammenti_, i quali non vanno oltre la metà del 99,
pure la opinione di lui è manifesta dai suoi _Decennali_,[412] dalle
lettere che scrisse, e dall'ardore che mise nel condurre l'affare.
Non sappiamo se il tradimento vero e proprio venisse allora provato;
ma dalle deliberazioni e lettere del Consiglio dei Dieci in Venezia
si vede chiaro che il Vitelli era disposto a tradire. Si tratta in
esse di rimettere Piero de' Medici in Firenze con l'aiuto del Vitelli,
cui si sarebbe data una condotta di quarantamila ducati, quale aveva
già dai Fiorentini, o anche di più se egli insisteva.[413] Sia che
di ciò i Fiorentini fossero avvertiti o no, certo ad essi parve
dimostrato abbastanza, che il Vitelli non aveva nessuna voglia di
pigliar Pisa fino a che non si vedesse chiaro il resultato della
guerra che i Francesi facevano contro Lodovico il Moro, col quale i
Fiorentini temporeggiavano ancora.[414] Seguìta che fu la vittoria dei
Francesi, pare che il Vitelli si fosse deciso, secondo afferma anche
il Nardi,[415] ad operare per davvero; ma ormai era troppo tardi, aveva
perduto ogni riputazione.[416]
Un'altra prova, se pur ve ne fosse bisogno, della parte grandissima che
il Machiavelli prendeva in tutte le faccende della guerra, e del conto
in cui l'opera sua era tenuta, la troviamo nel suo breve _Discorso
fatto al Magistrato de' Dieci sopra le cose di Pisa_, che non ha data,
ma che dalla lettura apparisce scritto in quest'anno o poco dopo.[417]
È uno dei molti lavori, cui era dal suo ufficio obbligato, ed in esso,
dopo avere con diversi e giusti ragionamenti dimostrata vana ogni
speranza di sottomettere Pisa altrimenti che con la forza, ragguagliava
intorno alle varie opinioni espresse dai capitani, circa il modo di
distribuire in due o tre campi le genti fiorentine, ed alle operazioni
di guerra che essi proponevano. Il Machiavelli esponeva questi pareri
e proposte con tanta esattezza, con tanta minuzia, da mostrare come
sin d'allora la sua mente ed il suo studio si fossero rivolti non solo
alle cose politiche, ma anche alle militari. O per meglio dire, si vede
assai chiaro che la cognizione dell'arte della guerra già era divenuta
per lui una parte essenziale della scienza di Stato.


CAPITOLO III.
Luigi XII in Italia. — Disfatta e prigionia del Moro. — Niccolò
Machiavelli al campo di Pisa. — Prima legazione in Francia.
(1499-1500)

I Fiorentini s'erano affrettati a condannare il Vitelli, anche perchè
non volevano che i nuovi e prosperi successi della Francia in Lombardia
ponessero ostacolo alla esecuzione della sentenza. Questi eventi,
infatti, portarono non piccola alterazione nelle cose di Toscana, e
però dobbiamo ora parlarne.
Dopo la battaglia di Fornuovo, il Moro pareva divenuto davvero, secondo
il suo antico desiderio, arbitro delle cose d'Italia. E per Firenze si
ripeteva:
Cristo in cielo e il Moro in terra
Solo sa il fine di questa guerra.[418]
Egli stesso aveva fatto coniare una medaglia d'argento, con un vaso
d'acqua da un lato, e il fuoco dall'altro, a simboleggiare che si
teneva padrone della pace e della guerra. Aveva anche sopra una
parete del suo palazzo fatto disegnare la carta d'Italia con molti
galli, galletti e pulcini, ed un moro che li spazzava tutti con la
granata in mano. Quando però chiese all'ambasciatore fiorentino,
Francesco Gualterotti, che cosa pensasse del quadro, questi rispose che
l'invenzione era bella, ma gli sembrava che quel moro, volendo spazzare
i galli fuori d'Italia, si tirasse addosso tutta la spazzatura.[419] E
così fu veramente.
Luigi XII pretese sempre d'aver diritti sul Ducato di Milano.
Salito che fu sul trono di Francia, cominciò subito col provvedere
alla sicurezza interna dello Stato, diminuì le imposte, ordinò
l'amministrazione, nominò ministro dirigente Giorgio d'Amboise
arcivescovo di Rouen, rispettò le autorità costituite, e non deliberò
mai senza consultarle, mantenne l'indipendenza delle Corti di
giustizia, incoraggiò le libertà gallicane, fu economo. Quando con
questo nuovo indirizzo egli ebbe assicurato l'ordine allo Stato, e
molto favore a sè stesso, rivolse l'animo alla guerra d'Italia, che
ormai non era più impopolare in Francia, per la maggiore fiducia che
s'aveva nel nuovo Re, e pel desiderio di vendicare le umiliazioni
sofferte. Il 9 febbraio del 1499 egli concluse coi Veneziani una lega
offensiva e difensiva, per la conquista del Ducato di Milano, di cui
s'obbligava a ceder loro una parte. Così il Moro si trovò tra due
fuochi, senza speranza di soccorso, giacchè i Fiorentini erano stati
sempre amici della Francia, ed il Papa, dopo le promesse di aiuti
al Valentino, la secondava anch'egli. L'esercito francese, comandato
da G. G. Trivulzio milanese, che dopo la battaglia di Fornuovo aveva
acquistato un gran nome, e da altri capitani di grido, forte di molti
Svizzeri, si avanzò con una grande rapidità senza trovare ostacoli.
I capitani del Moro parte lo tradirono, parte furono incapaci, ed il
popolo si sollevò contro di lui; sicchè egli dovè pensare alla fuga,
prima ancora che si fosse riavuto da questi inaspettati rovesci.[420]
Si fece precedere dai due figli, accompagnati da suo fratello,
il cardinale Ascanio, cui affidò la somma di 240,000 ducati. Il 2
settembre li seguì egli stesso in Germania.
Il dì 11 di quel mese l'esercito francese entrò in Milano, e poco dipoi
fece il suo solenne ingresso Luigi XII, cui subito si presentarono gli
ambasciatori dei vari Stati italiani, tra i quali ricevettero migliore
accoglienza quelli di Firenze, per essersi la Repubblica, nonostante
qualche oscillazione, serbata sempre fedele alla Francia così nella
prospera, come nell'avversa fortuna.
I Fiorentini avevano però molte ragioni d'essere scontenti dei capitani
francesi restati in Toscana, ai quali attribuivano la resistenza
dei Pisani, e in parte l'esito sfortunato dell'assedio, il che li
aveva appunto allora costretti a levare il campo ed a decapitare
Paolo Vitelli. Ma invece di perdersi in vani lamenti, conchiusero in
Milano un nuovo trattato col Re (19 ottobre 1499). Questi si obbligò
ad aiutarli a sottomettere Pisa in ogni modo; essi dovevano tener
pronti, per mandarli a Milano, 400 uomini d'arme e 3000 fanti, aiutare
l'impresa di Napoli con 500 uomini d'arme e 50,000 scudi. La resa di
Pisa doveva seguire prima che i Francesi tornassero nel Napoletano, e i
Fiorentini dovevano intanto restituire al Re le somme imprestate loro
dal Moro, secondo che verrebbero determinate da G. G. Trivulzio, dopo
avere esaminato le carte trovate a Milano.[421] E promettevano inoltre
pigliare a loro soldo il prefetto Giovanni della Rovere, fratello
del cardinale di San Piero in Vincoli, cui la Francia voleva far cosa
grata.[422]
Ma tutto ciò rimase sospeso a cagione di nuovi eventi. I Francesi,
specialmente il loro generale Trivulzio, che era stato nominato
governatore di Milano, scontentarono per modo le popolazioni, che
il Moro, presentatosi alla testa di 8000 Svizzeri da lui nuovamente
assoldati, e 500 uomini d'arme, venne acclamato da coloro stessi che
poco prima lo avevano cacciato, ed entrò in Milano il giorno 5 di
febbraio. Il Trivulzio ne era già prima uscito, lasciando però ben
guardato il castello; a Novara lasciò altri 400 uomini, e s'avanzò
verso Mortara, dove stette ad aspettare rinforzi, mentre parecchi de'
suoi Svizzeri lo abbandonavano per servire anch'essi il Moro, che dava
paghe migliori. Se non che, nell'aprile, scesero in Italia, sotto
il comando del La Trémoille, 10,000 Svizzeri, i quali combattevano
agli stipendi della Francia. Ben presto i due eserciti si trovarono
di fronte, già in ordine di battaglia, quando gli Svizzeri del Moro
dichiararono che essi erano stati assoldati individualmente, e però
non potevano combattere contro la bandiera elvetica, portata dai loro
connazionali, che Luigi XII aveva avuti mediante trattato concluso
direttamente con la Confederazione. E così lo tradirono in faccia al
nemico, chiedendo ancora, con mille pretesti e senza indugio, le paghe
scadute, non volendo neppure aspettare fino a che arrivassero a lui
aiuti italiani. Tutto quello che il misero Duca potè ottenere, fu di
nascondersi nelle loro file, travestito da frate per salvarsi. Ma,
fosse la sua paura o il nuovo tradimento d'alcuni soldati, egli fu
riconosciuto e preso prigioniero il 10 di aprile 1500. La stessa sorte
toccò a parecchi de' suoi capitani ed al fratello Ascanio, che, fuggito
da Milano, fu da un falso amico tradito ai Veneziani, e da essi ceduto
ai Francesi. Così, secondo la profezia del Gualterotti, il Moro s'era
veramente «tirata addosso tutta la spazzatura,» e la sua fortuna cadde
per sempre. Quando entrò prigioniero a Lione, accorse a vederlo una tal
moltitudine, che bisognò difenderlo colle armi. Chiuso nel castello di
Loches in Turena, vi morì dopo 10 anni di dura prigionìa. Il cardinale
Ascanio fu condotto invece nella torre di Bourges, ma venne dopo
qualche tempo rimesso in libertà.
Il Re, fatto accorto dalla passata esperienza, mandò a governare
la Lombardia Giorgio d'Amboise, il quale era adesso cardinale, e lo
chiamavano in Italia il cardinale di Roano (Rouen). Egli, pensando
che valeva meglio «taglieggiare che saccheggiare,» condannò Milano a
pagare per le spese di guerra 300,000 ducati, e così, in proporzione,
le altre città, promovendo assai minore scontento di quel che aveva
fatto il Trivulzio. Dopo di ciò fece il suo ingresso nella capitale
lombarda, precedendo di poco il Re, che subito fu colà raggiunto
dall'ambasciatore fiorentino, Tommaso Soderini, venuto a congratularsi
ed a trattare circa il numero dei soldati da mandare a Pisa, secondo
i patti già prima fermati. Fu giudicato che bastassero 500 lance,
4000 Svizzeri e 2000 Guasconi, le prime a spese della Francia, gli
altri invece, con le artiglierie e carriaggi, pagati dai Fiorentini, a
ragione di 24,000 ducati il mese.[423] Questi patti erano onerosissimi
per la Repubblica, che già aveva assunto tanti altri obblighi verso la
Francia; pure si piegò a tutto, per la speranza di potere con un valido
esercito venir subito a termine dell'impresa, sborsando solo due o tre
paghe.
Invece dovette fare adesso una nuova e più dura esperienza dei
Francesi. Il cardinale di Rouen, nelle cui mani era la somma delle
cose, cercava di far mantenere da altri l'esercito del Re, e quindi
volle non solo che le paghe cominciassero a decorrere dal maggio,
assai prima cioè che le genti fossero in Toscana, ma ancora che se ne
promettesse una pel ritorno. E bisognò consentire. Ai 22 di giugno
finalmente gli Svizzeri ed i Guasconi partirono da Piacenza con 22
falconetti e 6 cannoni, sotto il comando del Beaumont, chiesto dai
Fiorentini stessi, invece d'Ives d'Alègre, che il Re voleva mandar
loro. Il Beaumont o Belmonte, come lo chiamavano tra noi, era il
solo dei capitani francesi rimasti in Toscana, che avesse serbato la
fede. Messo al comando di Livorno, l'aveva, secondo i patti, ceduta
ai Fiorentini, i quali per ciò appunto di lui solamente si fidavano.
I nuovi mercenarî svizzeri e guasconi s'avanzarono con lentezza,
taglieggiando e saccheggiando le terre per cui passavano, a benefizio
proprio o del Re, sebbene avessero già riscosso le paghe. Anzi, quando
a Piacenza furono numerati, se ne trovarono 1200 più del fissato, e
bisognò, per una volta almeno, pagare anch'essi.[424] La condotta di
tutta questa gente sarebbe davvero inesplicabile, se non si sapesse
che cosa erano allora i soldati mercenarî, e se non si sapesse che
il cardinale di Rouen mirava sopratutto a cavar danari da amici e da
nemici. Si fermarono quindi a Bologna per averne dal Bentivoglio; ed
in Lunigiana, contro ogni volontà dei Fiorentini, spogliarono Alberigo
Malaspina di parte del suo proprio Stato, istigati a ciò dal fratello
Gabriello, cui lo cedettero. Pigliarono Pietrasanta, e non la resero ai
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