Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I - 22

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e l'isola di Pianosa; passò poi, sopra alcune navi mandate dal Papa,
nell'isola d'Elba.[469] Ma di là fu subito richiamato, per accompagnare
i Francesi, che tornavano alla guerra nel Napoletano; e così, lasciate
ben difese le poche terre conquistate, se ne andò in fretta a Roma,
dove entrò come un trionfatore, sebbene le sue imprese fossero state
più di predatore che di capitano.
Ma se la guerra nel Reame liberava la Repubblica dalla presenza del
Valentino, essa le recava pure altri danni e pensieri. L'esercito
francese forte di 1000 lance e 10,000 fanti, di cui 4000 erano
Svizzeri, senza tener conto di più che 6000 uomini, i quali venivano
per mare, s'avanzava diviso in due parti, l'una delle quali passava,
col maggior numero delle artiglierie, per Pontremoli e Pisa; l'altra,
discendendo da Castrocaro, doveva traversare quasi tutta la Toscana. Al
che s'aggiungeva, che soldati spicciolati del Valentino con Oliverotto
da Fermo, Vitellozzo Vitelli ed altri capitani, venendo alla coda,
sarebbero andati al solito predando, o entrati in Pisa, avrebbero
aiutato i ribelli. Bisognò dunque scrivere ai Commissarî e Podestà,
perchè apparecchiassero vettovaglie agli uni, si difendessero dagli
altri; bisognò con 12,000 ducati soddisfare alle continue domande dei
Francesi, fatte sempre col pretesto delle paghe dovute agli Svizzeri,
che tanto male avevano servito la Repubblica.[470] Il Machiavelli
s'adoperò a tutt'uomo in queste faccende, e finalmente, come Dio volle,
l'esercito abbandonò la Toscana ed entrò nello Stato del Papa. A questo
allora solamente fu reso noto il trattato segreto concluso in Granata
fra i re di Spagna e di Francia, ed egli col suo solito cinismo promise
l'investitura ai due sovrani.
Arrivati i Francesi al confine napoletano, l'infelice Federico
raccoglieva le sue poche genti, avendo già messo ogni speranza d'aiuto
nella Spagna, il cui esercito era comandato dal valoroso Consalvo
di Cordova. Ma questi allora appunto dichiarò che doveva ricusare i
feudi nel Napoletano, perchè i suoi doveri di capitano di Spagna non
si conciliavano più con quelli di vassallo di Federico. Così il misero
Re si trovò senza aiuti, ed il Reame fu in breve tempo tutto occupato
da stranieri. Solo Capua resistette ai Francesi, e fu presa d'assalto
nel mese di luglio, messa crudelmente a sacco, perdendovi la vita da
settemila persone. Il Guicciardini afferma, che neppure le vergini
nei chiostri poterono sfuggire alla libidine dei soldati, che molte
donne si gettarono disperate nel Volturno, altre si ricoverarono in
una torre. Colà il Valentino, che aveva seguìto l'esercito colla sua
guardia, ma senza comando effettivo, e s'era nel saccheggio abbandonato
ad ogni eccesso, avrebbe, secondo lo stesso scrittore, voluto vederle
per sceglierne quaranta delle più belle. Il 19 agosto i Francesi
entrarono in Napoli, e poco dopo Federico cedette interamente al
loro Re, che gli diè in Francia il Ducato d'Angiò con 30,000 scudi di
rendita. Ivi egli morì il 9 settembre 1504; i suoi figli lo seguirono
ben presto nella tomba l'un dopo l'altro, e con essi s'estinse la casa
aragonese di Napoli. Consalvo aveva intanto, senza trovare resistenza,
preso la parte del Reame che spettava alla Spagna. Se non che, il
trattato di Granata era stato, forse non a caso, scritto in maniera
da dar luogo, nella divisione, a diverse interpretazioni. Ben presto
fu chiaro infatti che l'uno o l'altro dei due sovrani doveva restare
padrone di tutto, e che la decisione finale spettava alle armi.
Nondimeno fra gli eserciti si venne allora ad un temporaneo accordo,
amministrando in comune le province soggette a disputa.
Ed ora le genti del Valentino entravano il 3 di settembre in Piombino,
donde l'Appiano fuggiva, e dove nel febbraio veniva il Papa stesso col
figlio a vedere i disegni delle fortezze, che questi voleva costruire
colà.[471] Così i Fiorentini si trovavano da capo col temuto nemico
alle porte, mentre che i Lucchesi ed i Pisani si mostravano sempre più
audaci, e la Francia tornava a dimostrarsi poco benevola, sebbene,
dopo averle pagato 30,000 ducati per gli Svizzeri, si trattasse ora
di pagargliene ancora da 120 a 150 mila, in tre o quattro anni, sempre
con la solita vana promessa di restituire Pisa.[472] Mentre tutto ciò
teneva la Repubblica in sempre maggiori strettezze, e rendeva sempre
più impopolari i Dieci, da Pistoia si chiedevano nell'ottobre pronti
aiuti, perchè la città era di nuovo lacerata dal furore delle parti,
e nessun ordine di governo vi era possibile. Il Machiavelli, che già
era stato ripetutamente inviato colà, vi fu ora, nel mese d'ottobre,
mandato altre due volte, per portare ordini, e suggerire, tornando, i
necessari provvedimenti così ai Dieci come alla Signoria.[473] E questa
faceva poi da lui stesso scrivere, che unico rimedio era pensare adesso
a riordinare il governo e l'amministrazione della città, facendovi
subito tornare i Panciatichi, per pensare più tardi al contado, ove i
guai erano anche maggiori.[474] In questi mesi, tra le molte lettere,
ordini ed istruzioni, egli scrisse ancora, nella sua qualità di
segretario, una breve relazione dei fatti seguìti in Pistoia, per dare
ai magistrati una più chiara idea di tutto.[475] Di siffatte relazioni
o narrazioni di quello che avveniva nel territorio della Repubblica,
se ne compilavano allora molte nella cancelleria dei Dieci e della
Signoria, e questa del Machiavelli, scrittura d'ufficio come le altre,
non ha neppur essa maggiore importanza.
Calmati appena i torbidi di Pistoia, si sentiva nel maggio 1502 che
Vitellozzo e gli Orsini s'avanzavano nella Val di Chiana, seguìti a
poca distanza dal Valentino. E Massimiliano, volendo venire in Italia
a prendere la corona, chiedeva ai Fiorentini, col solito pretesto di
far guerra al Turco, 100,000 ducati, di cui 60,000 subito. Questi
danari non furono dati; ma colla Francia bisognò bene obbligarsi a
pagarle in tre anni 120,000 ducati, secondo un trattato d'alleanza,
concluso il 12 aprile 1502, col quale il Re prometteva di difendere la
Repubblica e mandarle 400 lance ad ogni richiesta.[476] Tutto questo
però non bastava punto a fermare il Valentino, che invece lentamente
s'avanzava, e intanto s'era talmente esausta di danari la Repubblica,
che non si poteva più ricorrere a nuove gravezze, essendosi già messa
perfino la _Decima scalata_, che differisce poco da quella che noi
oggi chiamiamo imposta progressiva.[477] Così la guerra di Pisa dovè
restare come sospesa, e restringersi solo a dare il guasto nel contado.
I cittadini perciò furono da capo tanto scontenti dei Dieci, che di
nuovo tornarono a non eleggerli, affidando le cose della guerra ad
una commissione scelta dalla Signoria, il che le fece subito andare
di male in peggio.[478] I Pisani infatti s'avanzarono impadronendosi
di Vico Pisano, e continuarono le trattative iniziate nello scorso
dicembre col Papa e col Valentino, per formare uno Stato indipendente,
che arrivasse fino al mare, e ripigliasse dall'altro lato le terre
occupate dai Fiorentini, coi quali non volevano in nessun modo far
mai pace o tregua. Il Valentino avrebbe avuto il titolo di duca
di Pisa, e il Ducato sarebbe stato ereditario; verrebbe conservato
l'antico magistrato degli Anziani, e uno dei Borgia sarebbe nominato
arcivescovo della città.[479] Questi disegni restarono senza effetto,
ma bastavano a mettere in pensiero i Fiorentini, a danno dei quali
i Borgia cercavano sollevare nemici in tutta Italia, dicendo ora di
volerla unire in lega contro gli stranieri in genere ed i Francesi in
particolare.
Intanto Vitellozzo era già presso Arezzo, con manifesta intenzione
di sollevarla, ed il Valentino se ne stava a poca distanza, con la
simulata apparenza di non pigliar nessuna parte a ciò che uno dei
suoi proprî capitani faceva.[480] Firenze, non potendo ora disporre
di nessuna forza, spedì in gran fretta, come commissario di guerra,
Guglielmo dei Pazzi, che era padre del vescovo d'Arezzo. Ma il
commissario non era appena giunto colà, che il popolo si levò a tumulto
(4 giugno), e dovettero, padre e figlio, chiudersi nella fortezza
insieme col capitano fiorentino. Vitellozzo allora entrò con centoventi
uomini d'arme e buon numero di fanti, seguìti subito da Giovan Paolo
Baglioni, altro capitano del Valentino, con cinquanta uomini d'arme e
cinquecento fanti. Per riparare a questi pericoli, Firenze richiese
dalla Francia le 400 lance promesse, anzi mandò Piero Soderini a
Milano, per farle addirittura partire. Le genti del campo di Pisa
ebbero intanto ordine d'avanzarsi per la Val di Chiana, dove fu mandato
commissario, con ufficio di capitano, Antonio Giacomini Tebalducci,
il quale, datosi da qualche tempo al mestiere dell'armi, aveva già
cominciato a provare alla Repubblica quanto i capitani proprî valessero
più dei mercenarî.[481] Ed il Machiavelli, che a lui continuamente
doveva scrivere, ne seguiva i passi, e continuava le sue osservazioni,
maturando le proprie idee sulla milizia nazionale. Ma le cose
precipitavano, perchè la cittadella d'Arezzo, dopo una resistenza di 14
giorni, dovette arrendersi prima di poter ricevere aiuto dagli uomini
partiti dal campo di Pisa, i quali perciò ebbero dai Dieci, nuovamente
eletti, ordine di ritirarsi a Montevarchi, ora che i nemici, ingrossati
in Arezzo, occupavano tutta la Val di Chiana, e Piero dei Medici col
fratello s'era già unito ad essi.[482]
I Fiorentini, com'è facile immaginarlo, aspettavano ansiosissimi
gli aiuti di Francia, per uscire dall'imminente pericolo, quando
il Valentino (19 giugno) chiese che gl'inviassero persona con cui
conferire; ed essi mandarono subito Francesco Soderini vescovo di
Volterra, accompagnato dal Machiavelli. Il Duca trovavasi in Urbino,
di cui s'era a tradimento impadronito; e l'infelice Guidobaldo di
Montefeltro aveva potuto appena, con una fuga precipitosa su pei
monti, salvare la propria vita, dopo che s'era creduto amico dei
Borgia, e li aveva aiutati colle sue genti, il che era valso invece
a fargli torre improvvisamente lo Stato. Il Machiavelli restò in
compagnia del Soderini qualche giorno solamente, per tornare subito
in Firenze, a ragguagliare a voce i Signori. E però solo i due primi
dispacci di questa legazione sono scritti da lui, sebbene anch'essi
firmati dal vescovo Soderini. Nel secondo, che ha la data di Urbino 26
giugno, _ante lucem_, si trova descritto un ritratto del Valentino,
che dimostra chiaro come questi avesse già lasciato una profonda
impressione sull'animo del Segretario fiorentino. Furono ricevuti la
sera del 24, a due ore di notte, nel palazzo in cui il Duca si trovava
con pochi de' suoi, tenendo la porta sempre serrata e ben guardata.
Egli disse di volere ormai uscire da ogni incertezza coi Fiorentini,
ed essere loro amico o nemico vero. Quando non accettassero la sua
amicizia, sarebbe scusato con Dio e cogli uomini, se avesse cercato
d'assicurare in qualunque modo il proprio Stato, che confinava col
loro per sì lungo tratto. «Io voglio avere esplicita sicurtà, chè
troppo bene conosco come la città vostra non ha buono animo verso
di me, anzi mi lascerà come un assassino, ed ha cerco già di darmi
grandissimi carichi con il Papa e col re di Francia. Questo governo
non mi piace, e dovete mutarlo, altrimenti se non mi volete amico, mi
proverete nemico.» Gl'inviati risposero che Firenze aveva il governo
che desiderava, e nessuno poteva in Italia vantarsi di serbar meglio
la fede. Che se il Duca voleva davvero esserle amico, poteva provarlo
subito, facendo ritirare Vitellozzo, che in fine era suo uomo. A questo
egli disse, che Vitellozzo e gli altri operavano per proprio conto,
sebbene a lui non dispiacesse punto che i Fiorentini ricevessero, senza
sua colpa, una buona e meritata lezione. Nè altro fu possibile cavarne,
onde gli ambasciatori scrissero subito, parendo loro che importasse
assai far conoscere con quale intenzione erano stati dal Duca invitati,
tanto più che «il modo del procedere di costoro è di essere altrui
prima in casa che se ne sia alcuno avveduto, come è intervenuto a
questo Signore passato,[483] del quale si è prima sentito la morte che
la malattia.»
Il Duca aveva detto ancora che della Francia era sicuro, e lo stesso
fece ripetere loro dagli Orsini, i quali non solo lasciarono capire che
l'impresa di Vitellozzo era fatta di comune accordo, ma aggiunsero che
tutto era in ordine per invadere subito la Toscana con 20 o 25 mila
uomini, che gli oratori però valutavano a 16 mila solamente. «Questo
Signore,» concludeva la lettera, «è tanto animoso, che non è sì gran
cosa che non li paia piccola, e per gloria e per acquistare Stato mai
si riposa, nè conosce fatica o pericolo; giugne prima in un luogo, che
se ne possa intendere la partita donde si lieva; fassi ben volere a'
suoi soldati; ha cappati i migliori uomini d'Italia, le quali cose lo
fanno vittorioso e formidabile, aggiunto con una perpetua fortuna.»
Ma il fatto era, che egli sapeva che i Francesi venivano in aiuto de'
Fiorentini, che voleva perciò stringere subito in ogni modo. Infatti
a tre ore della notte dal 25 al 26, quando gli oratori avevano già
parlato cogli Orsini, li fece chiamare di nuovo, per dire loro che
voleva una pronta risposta dalla Signoria, nè fu possibile ottenere
un indugio maggiore di quattro giorni. E però la lettera,[484] finita
all'alba, partì subito con un corriere espresso, cui teneva dietro il
Machiavelli stesso, che altro non aveva ora da fare colà. Egli se ne
tornava con l'animo pieno d'una strana ammirazione per questo nemico
della sua patria, ammirazione che era stata in lui alimentata da quella
che già aveva pei Borgia anche il vescovo Soderini.[485] Questi restò
presso il Duca, che faceva ogni giorno maggiori premure e minacce, a
cui però i Fiorentini davano assai poca retta, perchè sapevano che già
erano in via gli aiuti francesi.
E per la medesima ragione, al Giacomini, che aveva dato prova d'un
coraggio, d'un'attività maravigliosa, e scriveva che, se gli mandavano
3000 fanti e mille comandati, sentivasi in grado d'assalire i nemici,
rispondevano, ai primi di luglio, che si contentasse di stare sulla
difensiva; giacchè erano in via le artiglierie e 4000 Svizzeri mandati
dalla Francia; che bisognava subito dar loro le paghe, e non era
perciò prudente impegnare la Repubblica in nuove spese, tanto più
che il Valentino già abbassava le ali.[486] E lo stesso ripetevano
nei giorni successivi.[487] Il 24 luglio il Re scriveva da Asti,
che sarebbero arrivati uomini a piè ed a cavallo, con sufficienti
artiglierie, capitano La Trémoille: si tenessero pronte le paghe e le
vettovaglie.[488] E ben presto il capitano Imbault presentavasi con
pochi soldati ad Arezzo, dove Vitellozzo venne subito a patti, che
furono di rendere tutte le terre, eccetto la città stessa, nella quale
egli si trovava, e dove gli fu concesso di restare con Piero dei Medici
fino al ritorno del cardinale Orsini, andato a trattar direttamente col
Re. Ma anche questa concessione, che ai Fiorentini parve giustamente
indecorosa,[489] venne poi ritirata, perchè il Papa stesso e il
Duca, gettando la colpa d'ogni cosa su Vitellozzo e sugli Orsini,
che odiavano a morte, li abbandonarono; nè dei Medici in sostanza si
curavano molto, appunto perchè amici e parenti degli Orsini.[490]
S'impegnarono inoltre ad aiutare la Francia nella impresa di
Napoli.[491] E i Fiorentini, ottenuto che al capitano Imbault, il quale
li aveva scontentati, succedesse il De Langres,[492] riebbero subito
dopo tutte le loro terre, come annunziavano ai sudditi con lettera del
28 agosto, ordinando ancora pubbliche feste.[493]
Il Machiavelli fu mandato, verso la metà d'agosto, al campo francese,
per accompagnare il De Langres e raccogliere notizie a carico
dell'Imbault; ma tornò subito al suo ufficio, essendo stati mandati
in Arezzo Piero Soderini e Luca degli Albizzi, uomini autorevolissimi,
con incarico di riordinare la terra appena sedata la ribellione, e fare
che il De Langres non partisse troppo presto, non potendo i Fiorentini
disporre delle loro forze, occupate contro i Pisani che s'avanzavano
dall'altro lato.[494] Dalla cancelleria intanto egli scriveva al
Soderini, che si affrettasse a mandare in Firenze, prima che i Francesi
partissero, tutti quegli Aretini, «che tu giudicherai, o per cervello o
per animo o per bestialità o per ricchezza, potere trarsi dreto alcuno,
e penderai più presto in mandarne più venti che manco uno, senza avere
rispetto nè al numero nè a rimanere vota la terra.»[495] L'11 ed il 17
settembre lasciò di nuovo l'ufficio per far due corse ad Arezzo, a fin
di vedere da sè lo stato delle cose, e provvedere alla partenza dei
Francesi, che erano ormai decisi ad andarsene.[496]
Per fortuna tutto riuscì discretamente bene, ed egli che già da
un pezzo meditava sulle faccende politiche, non solo come semplice
segretario, ma più ancora come uomo di studio e di scienza, cercando
sempre indagar le cagioni dei fatti, che raccoglieva e coordinava
poi nella sua mente, sotto norme e principî generali, compose, dopo
l'esperienza avuta delle cose d'Arezzo, il suo breve scritto: _Del
modo di trattare i popoli della Val di Chiana ribellati_.[497] È un
discorso che l'autore suppone di fare ai magistrati della Repubblica,
ma non fu compilato per obbligo d'ufficio nella segreteria; è anzi
addirittura il primo tentativo per sollevarsi dalla pratica burocratica
di tutti i giorni, alle sommità della scienza. E noi possiamo fin
d'ora cominciare a vedere in germe i grandi pregi e i difetti che più
tardi ritroveremo nelle opere maggiori del Machiavelli. Ciò che prima
di tutto qui ferma la nostra attenzione, è il modo singolare con cui
nella mente dello scrittore si trovano fra loro innestati l'esperienza
dei fatti veduti, i giudizî che si era andato formando sulle azioni
degli uomini da lui conosciuti, tra cui non ultimo il Valentino, con
una straordinaria ammirazione dell'antichità romana, la quale sembra
essere per lui quasi l'unico anello che congiunga le osservazioni
raccolte di giorno in giorno con le generalità della sua scienza ancora
incerta. — Paragonando, egli dice, quello che oggi succede con quello
che in simili casi è seguito e s'è fatto a Roma, possiamo arrivare a
capire quello che dovremmo fare noi, giacchè gli uomini in sostanza
sono sempre gli stessi, hanno le medesime passioni, e però quando
le condizioni sono identiche, le medesime cagioni portano i medesimi
effetti, e quindi gli stessi fatti debbono suggerire le stesse regole
di condotta.
Certo il ricorrere all'antichità ed alla storia per cercare,
paragonandole coll'esperienza del presente, i principii che regolano
l'andamento delle azioni umane, e debbono guidare i governi, era a
quei tempi un pensiero ardito ed originale. Ma se la storia ci espone
la successione delle umane vicende, essa anche ci dimostra che l'uomo
e la società mutano di continuo, e però norme assolute ed immutabili
difficilmente si possono trovare. Ed in verità, se bene si osserva,
quantunque essa sia l'esemplare, il modello a cui di continuo ricorre
il Machiavelli, pure assai spesso gli serve solo a dare maggiore
autorità, o a fornirgli la dimostrazione di quelle massime che a
lui, in sostanza, erano state già suggerite dalla esperienza. Ed in
ciò si può trovare la prima sorgente di molti suoi pregi e difetti.
Non essendo ancora riuscito a veder chiaro il processo, secondo
cui dal passato risulta un presente sempre diverso, e pure ad esso
intrinsecamente unito; non essendo ancora abbastanza sicuro del suo
metodo, per cavare con rigore scientifico principii generali dai fatti
particolari, tra gli uni e gli altri poneva l'antichità, la quale
doveva riuscire un legame artificiale, ogni volta che era chiamata solo
a dimostrare ciò, di cui egli s'era già innanzi persuaso. Tuttavia in
questo suo primo tentativo noi vediamo assai chiaro, come solo salendo,
direi quasi, sulle spalle di essa, a lui riuscisse, stanco com'era
delle minute faccende di tutti i giorni e d'una politica di piccoli
ripieghi, sollevarsi in un mondo superiore. Ivi portato e sospinto
dalla potenza della sua analisi, dal suo genio, da una fantasia
irrequieta, tentava creare una scienza nuova, non senza cadere qualche
volta in eccessi, che nei suoi scritti non scomparvero mai del tutto, e
che più tardi gli furono rimproverati anche dal Guicciardini, il quale
lo accusò di amare troppo «le cose e modi estraordinarî.»
Ecco adunque come egli incomincia il suo discorso. «Lucio Furio
Camillo, dopo aver vinto i popoli ribelli del Lazio, entrò in Senato
e disse: Io ho fatto quello che si poteva colla guerra; ora tocca a
voi, Padri Coscritti, sapervi stabilmente assicurare per l'avvenire
dei ribelli. Ed il Senato perdonò generosamente ai vinti, facendo solo
eccezione per le città di Veliterno e di Anzio. La prima fu demolita,
e gli abitatori mandati a Roma; nella seconda si mandarono invece
abitatori nuovi e fedeli, dopo aver distrutto le sue navi, proibito
di costruirne altre. E ciò perchè i Romani sapevano che bisogna
sempre fuggire le vie di mezzo, e guadagnarsi i popoli coi benefizî, o
metterli nella impossibilità di offendere.» «Io ho sentito dire che la
istoria è la maestra delle azioni nostre, e massime de' principi,[498]
e il mondo fu sempre ad un modo abitato da uomini che hanno avuto le
medesime passioni, e sempre fu chi serve e chi comanda, e chi serve mal
volentieri e chi serve volentieri, e che si ribella ed è ripreso.» «Si
può dunque approvare la condotta da voi tenuta coi popoli della Val di
Chiana in generale; ma non quella tenuta in particolare cogli Aretini,
che si sono sempre ribellati, e che voi non avete saputo nè beneficare
nè spegnere, secondo l'esempio romano. Non avete infatti beneficato
gli Aretini, ma li avete tormentati col chiamarli a Firenze, toglier
loro gli onori, vendere i loro possessi; nè ve ne siete assicurati,
perchè avete lasciato in piedi le loro mura, lasciato in città i cinque
sesti degli abitatori, non mandato altri che li tengano sotto. E così
Arezzo sarà sempre pronta a ribellarsi di nuovo, il che non è cosa di
poco momento, perchè Cesare Borgia è vicino, e cerca formarsi uno Stato
forte col pigliare anche la Toscana. E i Borgia non vanno coi rispetti
e colle vie di mezzo. Il cardinal Soderini, che li conobbe assai, più
volte mi ha detto che fra le altre lodi di grande uomo, che si posson
dare al Papa ed al figlio, vi è questa, che sono conoscitori della
occasione e la sanno usare benissimo, il che viene confermato dalla
esperienza di ciò che han fatto.»[499] E qui si ferma in tronco questo
discorso, di cui non abbiamo la fine.
Il Machiavelli che aveva messo tanto ardore nel condurre a fine
l'affare della presa e condanna del Vitelli, ed il dì 8 settembre
aveva scritto ai commissari fiorentini che, nel mandar via gli uomini
pericolosi da Arezzo, preferissero inviarne piuttosto «venti di più
che uno di meno, non temendo neppure di lasciar vuota la terra,» non
aveva bisogno di dimostrare che a lui non piacevano in politica i mezzi
termini, che credeva solo in una condotta risoluta e pronta, e non
era punto contento del misero e continuo tergiversare dei Fiorentini.
Ma non bisogna neppur credere, che in questi suoi discorsi teoretici
egli volesse addirittura biasimare, senza riserve, la condotta dei
magistrati. Sapeva bene che questi dovevano tener conto delle passioni
e dell'indole degli uomini fra cui e su cui governavano; scriveva
per indagare quale avrebbe dovuto essere la vera politica di un gran
popolo, formato come lo immaginava, dopo aver letto e meditato la
storia di Roma.
Certo è però che le cose della Repubblica procedevano allora così
fiacche ed incerte, che tutti vedevano la necessità di qualche
riforma. Una nuova legge s'era fatta nell'aprile di quell'anno,
con la quale s'erano aboliti il Podestà ed il Capitano del popolo,
antichi magistrati che avevano avuto in origine un ufficio politico
e giudiziario; ma perduta da un pezzo la prima delle due loro
attribuzioni, male adempivano ora anche la seconda, che pure era
importantissima. Fu quindi istituita, secondo un antico suggerimento
del Savonarola, la _Ruota_, composta di cinque dottori in legge, di cui
ognuno presiedeva a turno per sei mesi, durante i quali teneva il luogo
del Podestà. Essa, che doveva giudicar le cause civili e criminali,
fu iniziata, con una provvisione del 15 aprile 1502, per soli tre
anni, termine che venne poi prorogato.[500] Con altra del 21 aprile
fu riformata la Corte della Mercanzia, destinata a trattare i soli
affari commerciali.[501] Ma tutto ciò, come è ben facile immaginare,
non rimediava punto all'andamento generale delle cose d'un governo,
la cui debolezza nasceva principalmente dal mutare ogni due mesi il
Gonfaloniere e la Signoria.[502] In esso non si formavano tradizioni,
nè vi potevano essere segreti di Stato; tutto si trattava in pubblico,
e solamente il primo cancelliere, Marcello Virgilio, per la sua molta
fede ed autorità, poteva mantenere una qualche coerenza ed uniformità
nella condotta degli affari.[503] I provvedimenti erano sempre lenti
ed incerti, i danari si profondevano, i cittadini, gravati d'imposte,
erano scontentissimi, e non potevano rivolgersi contro alcuno, perchè
i magistrati scomparivano dalla scena quando appena s'erano seduti in
ufficio. Così si finiva col non votare il danaro che era richiesto,
e i soldati non si pagavano, e i cittadini autorevoli ricusavano di
accettare le ambascerìe o gli uffici più onorevoli, che erano invece
occupati da uomini leggieri e di poco conto, gente che, secondo la
espressione del Guicciardini, avevano «più lingua che persona,» si
facevano avanti, ed erano eletti perchè sempre pronti.[504]
Per tutte queste ragioni si pensò di portare addirittura qualche
mutamento nella forma stessa del governo. Fu dapprima proposto un
Senato a vita, a similitudine dei Pregadi di Venezia, che era sempre il
modello cui si guardava; ma temendo poi di restringere con ciò lo Stato
in mano di pochi, si pensò invece di creare un Gonfaloniere a vita come
il Doge,[505] ed il 26 agosto 1502 fu votata la Provvisione.[506] Il
carattere e l'ufficio del nuovo Gonfaloniere non furono molto diversi
da ciò che era stato in passato: egli era capo della Signoria e non
altro. Se non che poteva sempre prendere in essa l'iniziativa delle
proposte di legge; poteva ancora intervenire e votare coi giudici nelle
sentenze criminali, il che già gli dava un aumento di potere. L'essere
poi eletto non più per due mesi, ma a vita, fra magistrati politici
che mutavano tutti così spesso (i Signori ogni due mesi, i Dieci
ogni sei), era quello che gli dava ora un'autorità ed una forza assai
maggiori. Doveva avere cinquant'anni almeno, e non poteva esercitare
altri ufficî: i figli, fratelli e nipoti avevano divieto dall'ufficio
dei Signori; a lui ed ai figli era vietato d'esercitare il commercio;
lo stipendio era di 1200 fiorini l'anno. Il numero degli eleggibili
era grande, essendovi ammessi anche i cittadini che appartenevano
alle Arti Minori; la elezione doveva farsi dal Consiglio Maggiore,
potendovi allora intervenire e votare tutti coloro che erano abilitati
a sedervi. Ogni consigliere era chiamato a dare il nome del cittadino
che voleva eleggere, e quelli che ottenevano la metà più uno dei voti,
venivano sottomessi a nuovo scrutinio per tre volte, intendendosi la
terza volta eletto colui che aveva raccolto più voti, tra coloro che
ne avevano ottenuti più della metà. I Signori, i Collegi, i Dieci, i
Capitani di Parte Guelfa e gli Otto, riuniti insieme, potevano con tre
quarti di voti privarlo dell'ufficio, quando avesse violato le leggi.
Questa Provvisione portata due volte negli Ottanta e due nel Consiglio
Maggiore, dopo che molti l'ebbero difesa,[507] fu finalmente vinta
con 68 voti contro 31 negli Ottanta, e 818 contro 372 nel Consiglio
Maggiore. Il 22 settembre venne poi con grandissimo favore eletto Piero
Soderini, che, fratello del vescovo, era stato poco prima Gonfaloniere,
aveva tenuto molti altri uffici politici, e sebbene fosse di antica e
ricca famiglia, era tenuto amatore del popolo e del governo libero.
Egli era inoltre facile parlatore, buon cittadino; non aveva figli,
non aveva nè grande energia nè grandi doti da potere suscitare troppi
odî o troppi amori, il che non fu tra le ultime cause della sua
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