Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I - 10

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che combatteva come sotto una fortezza, raddoppiò i colpi con altri
scritti. In questi sostenne non esser vera la lettera di Abgaro a Gesù
Cristo, pubblicata da Eusebio; che il Simbolo non era stato composto
dagli Apostoli, ma dal Concilio di Nicea. E prima aveva già notati
molti errori della Volgata, raccogliendoli in un libro d'annotazioni,
che Erasmo di Rotterdam ripubblicò più tardi con una lettera di elogio
e difesa.[117] Questi scritti e queste dispute lo fecero chiamare
dinanzi all'Inquisizione in Napoli; ma egli, sicuro dell'appoggio
del Re, si difese in parte col sarcasmo, in parte dichiarando che
rispettava i domini della Chiesa, i quali non avevano da far nulla
colla storia, colla filosofia e la filologia. Quanto alla donazione di
Costantino, non ne fu parlato, per non risollevare una questione troppo
spinosa.
Liberato da tale pericolo, continuò le sue lezioni all'Università, e
attaccò dispute letterarie con Bartolommeo Fazio e Antonio Panormita,
contro i quali scrisse quattro libri d'invettive.[118] Ma insieme con
questi lavori pubblicò altre opere storiche, filosofiche e filologiche,
dettate sempre col medesimo spirito critico ed indipendente, e fra di
esse vanno principalmente notate le _Elegantiae_ e la _Dialectica_. Le
prime[119] ebbero subito una grande popolarità, perchè il Valla in esse
fece prova di tutta la sua maestria nel latino classico, che scriveva
con eleganza e vigore. Dimostrò anche una conoscenza assai profonda,
per quel tempo, delle teorie grammaticali; ma, quel che è più, passava
insensibilmente dalle questioni filologiche alle filosofiche. Il
linguaggio, egli diceva, è formato secondo le leggi del pensiero,
per il che la grammatica e la retorica si basano sulla dialettica,
di cui sono il complemento e l'applicazione. Anche di quest'opera si
occupò Erasmo di Rotterdam, facendone un sunto che pubblicò.[120] In
essa ed in quella _De Voluptate et vero bono_, si vede tutta quanta
l'originalità dell'autore, ed il passaggio dalla erudizione alla
critica ed alla filosofia. La _Dialectica_, lavoro esclusivamente
filosofico, ha un merito assai inferiore alle _Elegantiae_, ma sostiene
anch'essa il medesimo concetto, che il vero studio del pensiero si
debba, cioè, fare collo studio del linguaggio.[121]
In mezzo a queste battaglie ed a questa attività letteraria, protetto
da un re splendido come Alfonso, in una città che per gli studî
filosofici ebbe sempre singolare attitudine, il Valla poteva esser
contento. Pure egli mirava a Roma, perchè colà era il gran centro dei
letterati, e perchè il suo stato presente non era punto sicuro. Il Re
poteva conciliarsi col Papa, poteva succedergli il figlio, e le cose
sarebbero subito mutate. Infatti, non andò guari che gli Aragonesi
tornarono d'accordo coi Papi, ed il Valla dovè pensare ai casi suoi.
Colla disinvoltura propria degli eruditi, si decise allora a mutare
strada. Cominciò collo scrivere lettere ad alcuni cardinali, dicendo
che non era stato mosso da odio ai Papi; ma da amore alla verità,
alla religione, alla gloria. Se la sua opera veniva dagli uomini,
sarebbe caduta da sè stessa; se veniva da Dio, nessuno avrebbe potuto
abbatterla. Del resto, e qui era per lui il punto importante, se con
qualche opuscolo aveva potuto far molto male alla Chiesa, dovevano
riconoscere che egli era in grado di fare ad essa altrettanto bene. Ma
tutto ciò non bastava ancora a calmare Eugenio IV, ed il Valla scrisse
addirittura la sua Apologia, indirizzandola al Papa, cui prometteva di
ritrattarsi.[122] In essa respingeva le accuse d'eresia, che «l'invidia
dei nemici gli aveva scagliate contro,» e conchiudeva: «Se non peccai,
restituisci la mia fama nel pristino suo stato; se peccai, perdonami.»
Ma neppure con ciò ottenne il resultato voluto. Solamente dopo la
elezione di Niccolò V, egli venne chiamato a Borna (1448), dove
fu adoperato a far traduzioni dal greco. Più tardi insegnò nella
Università romana, e così fra le lezioni, le traduzioni e le dispute
letterarie col Trapezunzio e con Poggio, passò la sua vita, senza
occuparsi punto di questioni religiose. Sotto Calisto III arrivò
ad essere segretario nella Curia ed anche canonico di San Giovanni
Laterano, dove venne finalmente sepolto quest'uomo, che era stato
di poco carattere e di costumi corrotti, ma di grandissimo ingegno
letterario, critico e filosofico, il novatore e pensatore più originale
fra tutti gli eruditi. Cessò di vivere il dì 1º agosto 1457.[123]
Trovavasi allora in Roma un altro erudito di molto ingegno, e questi
era Flavio Biondo o Biondo Flavio, secondo altri. Nato a Forlì nel
1388, segretario di Eugenio IV, di Niccolò V, di Calisto III e di
Pio II, fu da tutti adoperato e da tutti trascurato, a segno tale
che qualche volta indagò se poteva altrove provveder meglio alla sua
miseria. Eppure aveva servito Eugenio IV, nella prospera e nell'avversa
fortuna, con una fedeltà a tutta prova, e gli dedicò qualcuno de' suoi
importanti lavori. Lo stesso fece con Niccolò V, che era il Mecenate di
tutti gli eruditi; con Pio II, che si valse delle opere di lui, anzi ne
compendiò una, per aggiungervi il bello stile che vi mancava. Questa
era la gran colpa del Biondo, e questa lo fece restar quasi oscuro in
mezzo agli umanisti, molti dei quali non erano degni neppure di stargli
accanto. Egli non conosceva il greco, non era elegante latinista,
non era adulatore, non scriveva invettive: una sola disputa ebbe col
Bruni, che fu tutta letteraria e scientifica, sull'origine della lingua
italiana, senza alcuna personalità. Le sue Epistole non contengono
motti nè frasi eleganti, non furono quindi mai raccolte, e nessuno
scrisse la biografia di lui. Pure fu uno dei più intemerati caratteri,
dei più nobili ingegni in quel secolo, e le sue opere hanno un acume
di critica storica, che non si trova in alcuno de' contemporanei,
eccettuato forse Leonardo Aretino. Il primo lavoro del Biondo, dedicato
ad Eugenio IV, ed intitolato _Roma instaurata_, è una descrizione
di Roma pagana e cristiana, e de' suoi monumenti. In essa abbiamo il
primo tentativo serio d'una topografia compiuta della Città Eterna:
l'autore apre la via ad una scientifica restaurazione dei monumenti,
valendosi degli scrittori con critica singolarissima. Ma, quel che
è anche più notevole in un umanista, l'antichità classica non gli fa
punto dimenticare i tempi cristiani: io non sono, egli dice, di coloro
che, per la Roma dei Consoli, dimenticano la Roma di S. Pietro. E così
la sua erudizione fu più universale e profonda, s'estese al Medio Evo
ed al suo tempo. La seconda sua opera fu l'_Italia illustrata_, scritta
ad istanza d'Alfonso d'Aragona, e dedicata a Niccolò V. In essa egli
descrive l'Italia antica, determinandone le varie regioni, dando una
enumerazione delle principali città, con ricerche sui loro monumenti,
sulla loro storia antica e moderna, sugli uomini più famosi. La terza
opera, dedicata a Pio II, fu la _Roma triumphans_, in cui propose di
esporre la costituzione, i costumi, la religione dei Romani antichi,
e fece così il primo Manuale di antichità. Finalmente, oltre ad un
libro _De Origine et gestis Venetorum_, egli scrisse una storia della
decadenza dell'Impero romano, _Historiarum ab inclinatione Romanorum_,
etc., lavoro di vasta mole, del quale però abbiamo solamente le tre
prime Decadi, ed il principio della quarta. Essa doveva arrivare fino
ai tempi dell'autore; ma nello stato in cui si trova, è pure la prima
storia universale del Medio Evo, che sia degna d'un tal nome. Ed è
singolare il vedere come il Biondo ricorra alle sorgenti, e distingua
i narratori contemporanei dai posteriori, paragonandoli fra di loro.
Con quest'opera la storia comincia a divenire una scienza, e la critica
storica è già nata. Noi avremo occasione di riparlarne, quando dovremo
osservare che il Machiavelli se ne valse molto nel primo libro delle
sue _Istorie_, qualche volta traducendo addirittura. Ed anche Pio II ne
riconobbe tutta l'importanza, facendo di essa un compendio, per cercare
di darle la forma classica. E si valse molto anche d'altre opere del
Biondo, che pur lasciò morire povero e quasi oscuro (1463).[124]
Il terzo erudito di cui dobbiamo parlare, è appunto Enea Silvio de'
Piccolomini, che successe a Niccolò V col nome di Pio II (1458-64).
Noi lo vedemmo già al Concilio di Basilea, dove sostenne l'elezione
dell'antipapa Felice V, di cui fu segretario; più tardi lo vedemmo
nella cancelleria imperiale, dove restò lunghi anni, e mutò le sue
opinioni, divenendo sostenitore dell'autorità papale contro le idee del
Concilio, già prima difese da lui. Nella giovinezza s'era abbandonato
al suo carattere leggiero, al suo ingegno vario, e aveva scritto
poesie, commedie, novelle oscene, lettere in cui parlava con cinico
sarcasmo della vita dissoluta che faceva. Come erudito, anche a lui
mancava la conoscenza del greco e degli autori greci, dei quali aveva
letto solo qualcuno nelle traduzioni fatte in Italia; dei latini però,
massime di Cicerone, fece assai lungo studio: mirava alla facilità e
semplicità, seguiva l'esempio di Poggio Bracciolini, che era in ciò
quasi il suo ideale. Gli scritti del Piccolomini avevano una spontanea
disinvoltura che risultava principalmente dalle qualità pratiche del
suo ingegno, dalla conoscenza degli uomini e del mondo. Diverso in ciò
da tutti gli eruditi, scrivendo, cercava sempre di andare al pratico
ed al reale, senza farsi dominare troppo dalle classiche reminiscenze
dell'antichità. Perfino nelle sue opere oscene, invece di fermarsi a
far prova di stile, ed a citare esempî cavati dagli antichi, raccontava
fatti veri seguiti nella sua vita ed in quella degli amici. Le sue
Orazioni al Concilio non erano certo saggi di grande eloquenza, ma
avevano uno scopo chiaro, volevano ottenere un fine determinato.
Nelle Epistole, o si occupava d'affari o descriveva i paesi in cui
era; e così vediamo spesso il segretario della cancelleria imperiale,
disperato di trovarsi in mezzo a Tedeschi che bevevano birra da mattina
a sera. Gli studenti, egli dice, ne tracannano quantità enorme; un
padre svegliava i suoi bimbi la notte, per far loro a forza bere del
vino. Intanto egli diffondeva l'umanesimo italiano in Germania, e le
sue lettere formarono per molti anni l'anello di congiunzione fra i due
paesi, ricevendo da ciò la loro principale importanza storica.
Al Piccolomini mancavano il valore d'un pensatore indipendente,
l'erudizione del vero umanista e la pazienza del raccoglitore; ma
la vivacità, prontezza e spontaneità dell'uomo di lettere e di mondo
arrivavano in lui ad un tal grado da fargli giustamente, per questo
lato, attribuire una propria originalità. Egli non era un filosofo che
avesse un proprio sistema, era anzi talmente pieno dell'antichità,
che voleva confondere la filosofia greca e romana con la cristiana.
In ciò per altro non sta la vera indole del suo ingegno, la quale si
manifesta invece quando egli parla di materie affini alla filosofia, ma
più pratiche, come, per esempio, di educazione. Allora cita assai poco
Aristotele e Platone; nota invece osservazioni suggerite dalla propria
esperienza. Non riuscì mai a scrivere veri trattati scientifici, ma
ciò che in tutte le sue opere più ferma la nostra attenzione, è sempre
la descrizione dei paesi e dei costumi. Così, se scrive _De curialium
miseriis_,[125] la parte più notevole del libro è quella che narra
la vita infelice che faceva egli stesso, insieme coi minori curiali
della cancelleria imperiale, i loro viaggi, i loro alloggi in comune, i
cattivi alberghi, il pessimo desinare, la nessuna quiete.[126] In altre
delle sue opere troviamo descritti i paesi nei quali aveva viaggiato,
scene della natura, costumi, istituzioni. Questo è ciò che si presenta
a lui con maggiore evidenza, e che con maggiore evidenza egli presenta
a noi. Non è un viaggiatore che cerca regioni ignote; ma la natura è
sempre nuova per lui, sempre ammirabile, sempre gli parla. Anche quando
fu Papa, vecchio e malato, si faceva trasportare per monti e per valli,
a Tivoli, ad Albano, a Tuscolo, per contemplare la bellezza di quella
campagna, che tanto ammirava, e così bene descriveva. La forma e la
varietà della vegetazione, il sistema dei monti e dei fiumi, l'origine
filologica dei nomi, la diversità dei costumi, nulla gli sfugge, tutto
vede coordinato in unità. Genova, Basilea, Londra, la Scozia sono da
lui descritte, notando la estensione del paese, il clima, i costumi,
i cibi, il vivere, la costruzione delle case, le opinioni politiche
degli abitanti. La descrizione di Vienna è tanto vera, che qualche
volta se ne trovano anche oggi dei brani ristampati nelle _Guide_
più recenti di quella città.[127] La sua grandezza, il numero degli
abitanti, la vita dei professori e degli studenti, la costituzione
politica e amministrativa, il modo di vivere, gli scandali nelle vie,
la condizione dei nobili e dei borghesi, la giustizia, la polizia,
tutto sembra che avesse quello stesso carattere generale che Vienna
serba ancora oggi.[128] Qui non è un dotto che scrive, è un semplice
viaggiatore costretto dalla propria curiosità ad osservare e fare
osservar tutto. Il Piccolomini è l'uomo del suo tempo; le sue qualità
sono nell'atmosfera stessa che egli respira, e le manifesta tanto più
facilmente, quanto minore è la sua individuale originalità. Egli visse,
è ben vero, nel secolo degli eruditi; ma questo fu anche il secolo in
cui nascevano Leonardo da Vinci, Paolo Toscanelli, Cristoforo Colombo,
e si educava, si formava il loro genio collo spirito d'osservazione,
col metodo sperimentale.
È facile comprendere che le opere storiche e geografiche del
Piccolomini sono le più importanti; che in esse il merito principale si
trova là dove descrive cose ed uomini da lui veduti, e quando storia,
geografia, etnografia si presentano come una sola scienza. La storia
greca e romana egli conosceva solamente a brani; quella del Medio Evo
trattava leggermente, cavando molto dal Biondo e da altri, esaminando
però con acume gli scrittori di cui si serviva, il tempo, il valore,
la credibilità delle opere loro, perchè la critica era penetrata nel
sangue stesso degli uomini di quel tempo. Tuttavia non giunse mai ad
una forma, ad un rigore veramente scientifico; raccoglieva alla rinfusa
dalla memoria e da appunti in cui registrava ciò che vedeva, leggeva o
sentiva. Questo modo di comporre, unito alla sua mobilità e mutabilità
di carattere, gli fece in tempi diversi esprimere giudizî diversissimi
sopra lo stesso soggetto, perchè scriveva sempre sotto l'impressione
del momento. Ma ciò appunto cresce la spontaneità de' suoi scritti, e
ci permette di leggere nella mutabilità delle opinioni, la storia del
suo spirito.
Meditò lungamente una specie di _Cosmos_, in cui voleva scrivere la
geografia delle varie regioni allora conosciute, e la loro storia
dal principio del secolo fino ai suoi giorni. La sua _Europa_ è un
frammento di quest'opera colossale, non mai compiuta, ed in essa la
geografia è come il sostrato della storia. Egli ragionò con disordine
e senza proporzione dei popoli diversi, scrivendo assai spesso
di memoria, come era suo costume. Più tardi scrisse la geografia
dell'Asia, valendosi delle tradizioni dei geografi greci, e dei viaggi
del veneziano Conti, stato 25 anni in Persia, dei quali Poggio aveva
lasciata un'assai minuta narrazione nelle sue opere, raccolta dalla
bocca dello stesso viaggiatore.[129] L'ultima e più importante opera
del Piccolomini è la sua autobiografia, che egli scrisse quando era già
Papa, chiamandola _Commentarii_, ad imitazione di Giulio Cesare. Usava
dettarli quando gli affari lasciavano a lui tempo: sono è ben vero dei
brani mal cuciti fra loro; ma forse appunto perciò dànno una più giusta
idea delle qualità intellettuali dell'autore, e manifestano, insieme
riuniti, i varî e diversi pregi, che si trovano sparsi nelle altre sue
opere. Qui infatti egli si mostra qual era veramente come erudito,
poeta, descrittore di paesi, ammiratore della natura, pittore di
genere, con uno spirito tutto pieno del realismo moderno.[130] Qui sono
quelle descrizioni, cui accennammo più sopra, della Campagna romana,
di Tivoli, della Valle dell'Anio, di Ostia, di Monte Amiata, dei
Monti Albano, che possono anche oggi servire di guida al forestiero, e
fanno sentir quasi il soffio della fresca aura dei monti; e qui ancora
l'immagine di tutto un secolo si specchia, senza ordine prestabilito,
ma fedelmente, nell'animo dello scrittore, il quale appunto perchè non
ha un carattere ed una personalità propria, non impone mai un colore
subiettivo alle cose ed agli uomini di cui parla. Questi _Commentarii_
vanno dall'anno 1405 fino al luglio del 1464.[131]
Ciò che abbiam detto del Valla, del Biondo e del Piccolomini dimostra
chiaro che, sebbene gli eruditi di Roma non avessero l'importanza ed il
carattere proprio di quelli di Firenze, pure la Città Eterna fu sempre
un gran centro, a cui i dotti accorrevano da ogni parte d'Italia, e
fra poco potrà dirsi anche d'Europa. Quando i tre dotti di cui abbiamo
parlato, non vivevano più, noi troviamo che vi fiorivano Pomponio
Leto, il Platina e l'Accademia Romana. Il primo di essi era noto
assai meno pel suo ingegno che per la singolarità del suo carattere,
ed era generalmente tenuto figlio naturale dei principi Sanseverino
di Salerno. Discepolo del Valla, cui successe nell'insegnamento, era
venuto a Roma, lasciando i suoi, ai quali dicesi che rispondesse,
quando lo chiamarono, con questa laconica lettera: _Pomponius Laetus
cognatis et propinquis suis salutem. Quod petitis fieri non potest.
Valete._ Preso d'un amore entusiasta per l'antichità romana, menava
una vita da eremita, coltivando una sua vigna secondo i precetti
di Varrone e Columella; andava innanzi giorno alla Università, dove
l'aspettava un uditorio immenso; leggendo i classici, e abbandonandosi
intere ore a contemplare i monumenti romani, era qualche volta in
presenza di essi così esaltato che piangeva. Faceva rappresentare le
Commedie di Plauto e di Terenzio, e divenne il capo di molti eruditi
che raccolse nell'Accademia Romana da lui fondata. In essa ognuno dei
membri si ribattezzava pigliando un nome pagano; e nelle ricorrenze
dei fasti di Roma, specialmente l'anniversario dei natali di essa, si
radunavano ad un desinare, nel quale venivano letti componimenti in
verso ed in prosa.[132] Qui si parlava di repubblica e di paganesimo;
qui vennero il Platina e molti altri degli eruditi che Paolo II aveva
cacciati dalla Segreteria, e davano nei loro discorsi sfogo all'ira
contro il Papa. Questi, che era un uomo energico ed impaziente, sciolse
l'Accademia: molti degli accademici furono imprigionati, alcuni anche
torturati, altri fuggirono (1468). Pomponio Leto era a Venezia, e fu
rimandato a Roma, dove si salvò, sottomettendosi e chiedendo perdono,
cosa sempre facile agli eruditi, nei quali tutto ciò che pensavano e
sentivano prendeva forma e carattere semplicemente letterario.[133]
E così potè sotto Sisto IV, in forma alquanto diversa, riaprire
l'Accademia, che durò fino al sacco di Roma nel 1527.[134] Morì nel
1498, in età di 70 anni, e i suoi funerali furono solenni. Pubblicò
varie edizioni dei classici, qualche lavoro sulle antichità di Roma;
ma la sua vera importanza veniva dal suo insegnamento, dall'entusiasmo
pagano che seppe infondere negli altri, dalla vita semplice e tutta
data allo studio.
Un altro membro dell'Accademia, e di maggiore ingegno, era Bartolommeo
Sacchi di Piadena nel Cremonese, soprannominato il Platina.
Imprigionato la prima volta, quando protestava contro la perdita
del suo ufficio, fu di nuovo chiuso in Castel Sant'Angelo, quando
l'Accademia venne sciolta. Posto alla tortura, egli non solo piegò, ma
si sottomise al Papa con parole basse, promettendo di obbedirgli, di
celebrarlo con altissime lodi, di denunziargli[135] chiunque sparlasse
di lui, e tutto ciò avendo l'animo sempre pieno d'un gran desiderio di
vendetta. Uscito di carcere, e nominato bibliotecario della Vaticana
da Sisto IV, con l'incarico di raccogliere documenti sulla storia
del potere temporale, egli si vendicò nelle sue _Vite dei Papi_,
descrivendo Paolo II, come il più crudele dei tiranni, che si dilettava
a torturare e straziare gli eruditi in Castel Sant'Angelo, divenuto
perciò un vero «toro di Falaride». Avendo le biografie del Platina
avuto una grande popolarità, Paolo II passò ai posteri come un mostro,
e l'erudito ottenne per qualche tempo il suo scopo. Ma il merito
principale del libro e la ragione della sua fortuna stavano sopra tutto
nello stile: la critica storica dell'autore era assai debole. Bisogna
però convenire che egli tentò un'impresa difficilissima, alla quale
neppure oggi basterebbero le forze d'un uomo solo, per quanto dotto e
d'ingegno, e riuscì la prima volta a cavare dalle favolose cronache
del Medio Evo un compendio storico assai chiaro, nel quale sono
molti modelli della biografia erudita del secolo XV, che si leggono
volentieri, perchè l'autore cercava sinceramente la verità storica,
quantunque non sempre la ritrovasse. Avvicinandosi ai suoi tempi,
l'importanza ed il valore delle biografie crescono, quando però non lo
acceca la passione. Gli altri suoi lavori storici hanno minor pregio.
Egli morì nel 1481, in età di 61 anno.[136]
A Roma, accorrevano anche allora, come già notammo, non solo Italiani,
ma stranieri, specialmente Tedeschi, e fra questi meritano una
particolar menzione tre giovani, Conrad Schweinheim, Arnold Pannartz,
Ulrich Hahn, i quali avevano nel loro paese lasciato le officine di
Faust e Schöffer, e verso il 1464 portarono l'arte della stampa in
mezzo a noi. Essi dovettero combattere con la fame, e vincere immense
difficoltà, perchè in Italia la passione degli antichi codici era tale,
che molti, fra cui, come vedemmo, lo stesso duca d'Urbino, preferivano
i volumi manoscritti agli stampati. Pure la nuova industria si diffuse
rapidamente, e prima del 1490 si stampava già in più di trenta delle
nostre città.
Nel 1469 moriva ed era poi sepolto in San Piero in Vincoli il celebre
cardinale Niccola di Cusa, chiamato il Cusano, che, nato da un
pescatore della Mosella, aveva studiato a Padova, ed era divenuto uno
dei pensatori più illustri del secolo. Egli precedette il Piccolomini
ed il Valla nel porre in dubbio l'autenticità della donazione di
Costantino, ma non combattè il potere temporale dei Papi. Più tardi
mutò alquanto le sue opinioni, e venne poi fatto cardinale; ma
il suo carattere si mantenne sempre integro. Avverso all'autorità
d'Aristotele, ingegno filosofico di grandissima originalità, panteista,
ed in ciò vero precursore di Giordano Bruno, più che erudito fu un
vero pensatore.[137] Nel 1461 venne la prima volta a Roma un altro
straniero, Giovanni Müller o sia il celebre Regiomontanus, dotto nel
greco, sommo per quei tempi nelle matematiche e nell'astronomia; egli
fu da Sisto IV incaricato della riforma del Calendario, e morì a Roma
nel 1475. Nell'82 venne Giovanni Reuchlin, il quale fece più tardi
esclamare all'Argiropulo, professore nell'Università di Roma, che le
Muse della Grecia passavano le Alpi per emigrare in Germania.[138]
Colà infatti l'erudizione s'era allora propagata, e portava già i
suoi frutti. Il sole della nuova cultura italiana, levatosi in alto,
illuminava tutta l'Europa; ma sorgeva sempre dall'Italia, che era più
che mai l'antica madre del sapere.
Dalla morte di Paolo II a quella d'Alessandro VI, le cose in Roma
peggiorarono assai, e i Papi pensarono a ben'altro che agli eruditi,
all'erudizione o alle arti belle. Pure Sisto IV aprì la Vaticana al
pubblico, e compiè molte costruzioni importanti nella Città. Nè,
per lungo tempo ancora, l'ammirazione a tutto ciò che era antico,
si spense nel popolo, come prova un fatto seguìto appunto in quegli
anni. Nell'aprile del 1485 si sparse la voce che alcuni muratori,
scavando nella via Appia, presso il sepolcro di Cecilia Metella,
avevano in un sarcofago romano trovato il cadavere d'una «formosa e
pulita giovane,» JULIA FILIA CLAUDI, secondo l'iscrizione, che alcuni
pretendevano avervi letta: «era adornata sua trezza bionda da molte
e ricchissime pietre preziose.... e erano suoi chiome d'oro ligate
_cum_ una bendella di seta verde.»[139] Altri scrivevano invece che
i capelli erano neri, che iscrizione nel sarcofago non v'era; ma che
Pomponio Leto credeva fosse il cadavere d'una figlia di Cicerone. Certo
lettere e cronache del tempo sono piene del fatto, e vanno d'accordo
nel ripetere, che il cadavere era maravigliosamente conservato; che
gli occhi, la bocca si potevano aprire e chiudere, le membra muovere;
la bellezza del volto superava ogni immaginazione. Tutto ciò provava
«quanto li antiqui nostri studiavano li animi gentili farli inmortali,
ma ancora li corpi, neli quali la natura per farli belli havea posto
ogni suo inzegno.»[140] Si disse che i muratori erano fuggiti con
le gioie ritrovate; certo è che, quando il cadavere venne portato
in Campidoglio, una moltitudine, che qualcuno fece ascendere fino a
ventimila persone, andò in pellegrinaggio a vederlo. Vi fu chi suppose
ai nostri giorni, che il cadavere avesse una maschera in cera, come
se ne trovarono a Cuma ed altrove. Ma dagli scrittori contemporanei
apparisce invece, che esso era stato artificialmente conservato,
con qualche processo simile a quelli adoperati dagli Egizi. In ogni
modo, ciò che destava così grande entusiasmo era la convinzione
allora universale, che una bellezza antica dovesse essere immortale e
superiore ad ogni bellezza vivente. Tale sembrava davvero il pensiero o
meglio l'illusione del secolo. Ma tutto questo mondo erudito era adesso
assai vicino a crollare, e ben presto doveva sembrare come l'eco d'una
società che s'andava allontanando. Una dura realtà apparecchiava nuove
e ben più tristi esperienze: sotto Innocenzo VIII ed Alessandro VI ogni
cosa doveva andare a rovina in Italia.

4. — MILANO E FRANCESCO FILELFO.
Dopo di Firenze e Roma, le altre città italiane hanno assai minore
importanza per la storia delle lettere. Anche nelle repubbliche come
Genova e Venezia, esse fiorirono più tardi assai che in Toscana. Napoli
era stata troppo lungamente in una quasi anarchia, ed a Milano poco
si poteva sperare sotto un mostro come Filippo Maria Visconti, un
capitano di ventura come Francesco Sforza, o un giovane dissoluto e
crudele come il figlio di lui, Galeazzo Maria. Eppure tali erano allora
le condizioni dello spirito italiano, che nessuno poteva o sapeva
allontanarsi affatto dagli studi, e dal proteggere gli studiosi. Lo
stesso Visconti sentiva il bisogno di leggere Dante ed il Petrarca, e
cercava d'avere intorno a sè alcuni dotti. Era però difficile trovare
chi a lungo volesse rimanere presso di lui. Il Panormita, uomo assai
poco scrupoloso, non fu trattenuto neppure da un soldo di 800 zecchini,
ed andò via a cercare fortuna altrove. L'uomo fatto proprio per quella
Corte era solo Francesco Filelfo da Tolentino, che vi trovò un sicuro
asilo donde insultare da lontano i suoi nemici, e vivere adulando
o vendendo la propria penna. Costui si credeva ed era generalmente
creduto uno dei più grandi ingegni del secolo; ma, privo invece d'ogni
vera originalità, aveva una dottrina assai confusa ed incerta. Mandato
dalla repubblica veneziana ambasciatore a Costantinopoli, dove sposò
la figlia del suo maestro di greco, Emanuele Crisolora, tornò in
Italia nel 1427, in età di 29 anni. Portò molti manoscritti, parlava
e scriveva greco, aveva una grande facilità nel compor versi latini,
e ciò bastava allora a farlo subito giudicare uomo straordinario.
La sua immensa vanità, il suo carattere irrequieto fecero il resto.
Chiamato ad insegnare nello Studio fiorentino, scrisse subito a tutti
che aveva avuto felicissimo successo: «perfino le nobili matrone, egli
diceva, mi cedono il passo nella via!» Ben presto però fu in guerra con
tutti; divenne aspro nemico dei Medici, e si unì a coloro che volevano
uccidere Cosimo, quando era ancora prigioniero in Palazzo Vecchio;[141]
finalmente dovette fuggirsene a Siena, dove corse pericolo d'essere
ammazzato da uno che egli credè sicario dei Medici. Intanto a Firenze
era processato e condannato come cospiratore contro la vita di Cosimo,
di Carlo Marsuppini e d'altri.
A Siena scrisse le sue _Satire_ oscene contro Poggio; più tardi lo
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