Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I - 21

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Fiorentini, come avrebbero dovuto. Le grida, i tumulti e le minacce che
facevano per avere le vettovaglie, di cui parevano sempre scontenti,
erano poi qualche cosa d'incredibile.
La Repubblica aveva già mandato Giovan Battista Bartolini commissario
al campo, perchè apparecchiasse tutto; ma conoscendo che cosa era la
petulante insolenza dei soldati stranieri, aveva mandato anche presso
di loro due commissarî speciali, Luca degli Albizzi e Giovan Battista
Ridolfi, con Niccolò Machiavelli in qualità di loro segretario.
Questi avevano assai difficile faccenda alle mani, perchè dovevano
accompagnare l'esercito e provvedere alle insaziabili voglie di quelle
orde affamate, che dopo il pasto avevano più fame che prima. Presero
la via di Pistoia e Pescia, ragguagliando i Signori con brevi lettere
del loro cammino. Il 18 giugno, arrivati a Camaiore, incontrarono
l'esercito che accompagnarono a Cascina, dove giunsero il 23. Qui si
cominciarono subito a sentire più forti i minacciosi lamenti, per la
pretesa mancanza di vettovaglie, specialmente del vino.[425] Giovan
Battista Ridolfi, che sin dal principio era stato contrario al chiedere
o accettare gli aiuti di Francia, dai quali non si aspettava nulla di
bene, appena seguirono i primi disordini, se ne partì col pretesto di
far conoscere ai Signori lo stato delle cose, e sollecitare pronti
rimedî. Ma Luca degli Albizzi, uomo d'un coraggio quasi temerario,
restò invece col Machiavelli in mezzo alle orde minacciose, senza mai
perdersi d'animo. A qualcuno che lo consigliava di starsene alquanto
lontano dal campo, rispose: chi ha paura, torni a Firenze,[426] e andò
oltre con l'esercito. Vennero ambasciatori pisani, offerendo di cedere
la città in mano dei Francesi, con la condizione però che la tenessero
un 25 o 30 giorni prima di darla ai Fiorentini. Il Beaumont voleva
accettare; ma l'Albizzi, in nome dei Signori, ricusò, dicendo che in
un mese potevano seguire mutamenti impreveduti, e che ormai, essendo
armati era necessario usare la forza.[427]
Il 29 giugno l'esercito era finalmente sotto le mura di Pisa, in numero
di 8000 uomini, sempre lamentando la mancanza di vettovaglie; pure
la notte si piantarono le tende, e poi si puntarono le artiglierie.
L'Albizzi, sempre in mezzo a loro, faceva quanto era in lui perchè
nulla mancasse, e non si sgomentava, sebbene vedesse molto chiaro che
da un momento all'altro poteva trovarsi a gravissimo pericolo. «S'egli
è possibile mandarci del pane, voi ci rimetterete l'anima in corpo,»
scriveva il 30 di giugno al commissario Bartolini, che si trovava in
Cascina.[428] Quello stesso giorno si cominciò a far fuoco, e si durò
fino alle ore 21, quando furono gettate a terra da quaranta braccia di
mura. Era il momento di dare l'assalto e farla finita; ma s'avvidero,
invece, che i Pisani avevano cavato un fosso dietro al muro, e
dietro al fosso fatto ripari, dai quali si difendevano; sicchè non fu
possibile andar oltre. E così anche questa volta, nel momento in cui la
città pareva presa, tutto andò in fumo. L'esercito invilito cominciò
a ritirarsi ed a tumultuare di nuovo, per la mancanza o la cattiva
qualità delle vettovaglie, e subito fu in un così gran disordine,
che il Beaumont disse all'Albizzi di non poter più rispondere
della impresa, dando la colpa di tutto ai cattivi provvedimenti de'
Fiorentini. Nè valsero proteste o assicurazioni in contrario.[429]
Il 7 luglio i soldati guasconi se ne erano senz'altro partiti, tanto
che l'Albizzi scriveva al Bartolini, che li trattasse addirittura da
nemici. Ma il giorno seguente scriveva ai Signori, che gli Svizzeri
erano entrati nella sua camera, chiedendo danari e minacciando pagarsi
del suo sangue. «I Francesi sembrano spaventati, scusansi e confortansi
con l'acqua fresca; lo stesso capitano Beaumont è smarrito, ma insiste
sempre per aver le paghe. Io non volli prima annoiare invano le
Signorie Vostre; ma ora bisogna in ogni modo risolvere che partito si
vuol prendere con questa gente, e provvedere. Sarebbe bene pensare
anche se si vuole salvare la mia vita.» «Non reputino le Signorie
Vostre che viltà muova a questo, che io intendo a ogni modo non fuggire
il pericolo, quando sia giudicato a proposito della Città.»[430]
Le previsioni dell'Albizzi s'erano il giorno dopo già avverate. Il
Machiavelli, della cui mano sono la più parte di queste lettere,
scriveva dal campo, in suo proprio nome, che verso le tre ore
s'erano presentati un centinaio di Svizzeri, chiedendo danari, e non
ottenendoli, avevano menato prigioniero l'Albizzi.[431] Questi venne
trascinato a piedi fino all'alloggiamento del baglì di Dijon, e di
là scriveva lo stesso giorno, che trovavasi d'ora in ora a disputare
la vita, in mezzo ai soldati che lo minacciavano con le alabarde
in sul viso. Volevano che désse le paghe anche ad una compagnia di
circa 500 Svizzeri arrivati da Roma, alla qual cosa, non avendo essa
alcun fondamento di ragione, s'era opposto energicamente. Neppure
in quei difficili momenti egli perdette la calma, anzi nella stessa
lettera dava utili consigli; si doleva però amaramente d'essere
stato abbandonato «come persona rifiutata e perduta.... Che Dio mi
conforti almeno, se non con altro, con la morte.»[432] Non ci fu però
verso d'essere liberato fino a che non sottoscrisse, obbligandosi
personalmente a pagare 1300 ducati per gli Svizzeri venuti da
Roma.[433] L'esercito allora si sciolse, ultimi a partire essendo stati
gli uomini d'arme. Dopo tante spese e tanti sacrifizi, i Fiorentini si
trovavano ora col campo sfornito di gente, e coi Pisani divenuti più
audaci di prima.[434] Mandarono subito Piero Vespucci e Francesco Della
Casa, nuovi commissari, a provvedere, per quanto si poteva, così alle
paghe, come a raccogliere dai luoghi vicini nuove genti. Il Re scrisse
lettere, dolendosi dell'accaduto, rimproverando i capitani, minacciando
i soldati, promettendo di sottomettere Pisa in ogni modo.[435] Ma erano
parole, cui non tenevano dietro i fatti. Mandò il Duplessis, signore di
Courçon, che a Firenze chiamavano _Corcu_ o _Corco_, perchè esaminasse
sul luogo quanto era accaduto, e riferisse.
Intanto però i Pisani uscivano dalle mura, e pigliavano prima
Librafatta, poi il bastione detto della Ventura, che con molta
spesa era stato costruito dal Vitelli. In questo modo aprivano le
loro comunicazioni con Lucca, di dove ricevevano aiuti continui. Il
Courçon, è vero, offeriva ai Fiorentini nuove genti del Re, con le
quali potevano, egli diceva, fare continue scorrerìe, e stancare nel
verno i Pisani, per sottometterli poi, al sopravvenire della buona
stagione. Ma essi non vollero ormai più sapere nè di Francesi nè
di Svizzeri, cosa che irritò moltissimo il Re, il quale, scontento
dell'esito dell'impresa, perchè vergognoso alle sue armi, ne dava
colpa ai Fiorentini, che avevano voluto a loro capitano il Beaumont
e non Ives d'Alègre, da lui offerto; non avevano provveduto alle
vettovaglie, nè dato in tempo le paghe richieste. Ma la principale
ragione del suo scontento, era il vedere svanita la speranza di potere
più a lungo addossare a Firenze la spesa d'una parte del suo esercito.
Questi lamenti, non senza minacce, erano assai gravi, ed i nemici
della Repubblica soffiavano tanto nel fuoco, che si credette necessario
mandare in Francia messer Francesco Della Casa e Niccolò Machiavelli,
come quelli che essendosi trovati ambedue al campo, potevano
ragguagliare _de visu_ il Re, e smentire le ingiuste e calunniose
accuse, annunziando anche l'arrivo sollecito di nuovi ambasciatori, per
trattare accordi.[436]
Fino all'anno 1498 Niccolò Machiavelli aveva assai poco conosciuto
gli uomini ed il mondo; il suo spirito s'era formato principalmente
coi libri, massime cogli scrittori latini e la storia di Roma. Ma nei
due anni trascorsi dipoi aveva con molta rapidità cominciato a fare
esperienza della vita reale e delle faccende di Stato. La legazione a
Forlì gli aveva dato una prima idea degl'intrighi diplomatici; l'affare
del Vitelli e la condotta degli Svizzeri gli avevano ispirato un
profondo disprezzo, quasi un odio contro i soldati mercenarî. La morte
di suo padre, seguìta il 19 maggio 1500, quattro anni dopo quella della
madre, e pochi mesi prima che morisse la sorella sposata al Vernacci,
lo costrinse a far da capo della famiglia, sebbene non ne fosse il
primogenito, e gli aumentò quindi cure e pensieri. La gita in Francia
apriva adesso un nuovo campo di osservazione ed un largo orizzonte
dinanzi al suo spirito, tanto più che, dopo i primi mesi, essendosi
ammalato il suo collega, egli restò solo incaricato della modesta, ma
pure importante legazione.[437]
Il 18 luglio 1500 fu fatta la deliberazione, che mandava il Della Casa
ed il Machiavelli al Re, e vennero scritte le istruzioni con cui erano
incaricati di persuadergli, che tutti i disordini del campo erano
seguiti per colpa solamente de' suoi soldati, e cercare d'indurlo a
diminuire le ingiuste ed esorbitanti pretese di denari, che egli voleva
prima d'aver sottomesso Pisa. Dovevano far capo dal cardinale di Rouen,
e guardarsi bene dallo sparlargli del capitano Beaumont, suo protetto.
«Se però,» dicevano i Signori, «voi trovaste disposizione a sentirne
dir male, allora fatelo vivamente e dategli imputazione di viltà e
di corruzione.»[438] Lorenzo Lenzi, che era stato già da più tempo
con Francesco Gualterotti ambasciatore fiorentino in Francia, sebbene
fosse per andar via,[439] ripeteva loro presso a poco le stesse cose.
Potevano essi sparlare quanto volevano degl'Italiani al campo; ma,
«solo come in un trascorso di lingua,» lasciarsi andare ad accusare i
veri colpevoli.[440]
Bisognava dunque navigare tra Scilla e Cariddi, per non offendere
l'insolenza francese. Ed a queste difficoltà s'aggiungeva ancora
l'essere i due inviati uomini di assai modesta condizione sociale,[441]
non ricchi e male retribuiti. A Francesco Della Casa era assegnato lo
stipendio di lire otto di fiorini piccoli al giorno, ed al Machiavelli,
che aveva grado inferiore, solo dopo molti lamenti da lui fatti per le
spese incomportabili che sosteneva,[442] non punto minori di quelle del
suo collega, fu dato uguale stipendio:[443] ma l'uscita restò sempre
superiore all'entrata. Ben presto egli aveva già speso di suo quaranta
ducati, ed ordinato al fratello Totto di far nuovo debito per altri
settanta. Dovendo seguire il Re di città in città, era stato necessario
fornirsi di servi e di cavalli, e sebbene in sul partire avessero
avuto 80 fiorini ciascuno, avevano subito speso 100 ducati; il vivere
e mantenersi decentemente costava loro uno scudo e mezzo al giorno,
cioè più di quello che ricevevano. Così ambedue se ne lamentavano,[444]
massime il Machiavelli, che non era ricco, ma di sua natura facile allo
spendere.
Comunque sia di ciò, il 28 di luglio essi erano a Lione, dove
trovarono il Re partito. Lo raggiunsero a Nevers, e dopo aver parlato
col cardinale di Rouen, furono ricevuti il 7 agosto, presente esso
cardinale, il Rubertet, il Trivulzio ed altri. Gl'Italiani formavano
un terzo della Corte, erano tutti scontentissimi e desiderosi che
l'esercito francese tornasse presto a rivalicare le Alpi.[445] Esposti
i fatti, appena che si accennava ad accusare i soldati di Francia,
il Re ed i suoi «tagliavano i discorsi.» Tutto doveva essere colpa
dei Fiorentini. Luigi XII voleva pel suo decoro condurre a termine
l'impresa di Pisa, e però bisognava dar subito i danari necessarî. Gli
oratori risposero che alla Repubblica, esausta come era, col popolo
scontento per gli ultimi fatti, sarebbe stato impossibile trovarli.
Si poteva bene sperare di averli ad impresa finita, quando la città
di Pisa fosse stata consegnata. Ma qui subito esclamarono tutti ad una
voce, che questa era una sconvenientissima proposta, perchè il Re non
poteva fare le spese ai Fiorentini.[446] E così si continuò per molti
giorni sempre allo stesso modo. Luigi XII vuol mandare i soldati,
che i Fiorentini non vogliono; lamenta che gli Svizzeri non abbiano
avuto il danaro fissato, e non dà ascolto quando gli si osserva che
neppure avevano prestato il servizio promesso. Il cardinale insiste
vivamente,[447] ed il Courçon,[448] tornato di Toscana, aggrava lo
stato delle cose, che finisce col divenire minaccioso davvero. «I
Francesi,» scrivevano i due oratori, «sono accecati dalla loro potenza,
e stimano solo chi è armato o è pronto a dar danari. Vedono in voi
mancare queste due qualità, e però reputanvi ser Nichilo, battezzando
l'impossibilità vostra, disunione, e la disonestà dell'esercito loro,
cattivo governo vostro. Gli ambasciatori qui residenti sono partiti,
nè si sente che arrivino i nuovi. Il grado e la qualità nostra, senza
commissione grata, non sono per ripescare una cosa che sommerga.[449]
Il Re è quindi scontentissimo, lamenta sempre d'aver dovuto pagare agli
Svizzeri 38,000 franchi, i quali, secondo la convenzione di Milano,
dovevate pagar voi, e minaccia fare di Pisa e d'altre terre vicine uno
Stato indipendente.»[450] Per dar poi un utile consiglio, i due oratori
suggerivano alla Repubblica «di farsi, mediante danaro, alcuni amici
in Francia, mossi da altro che da affezione naturale; giacchè così fa
chiunque ha da trattare qualche faccenda in questa Corte. E chi non fa
così, crede di vincere il piato senza pagare il procuratore»[451].
Fino al 14 settembre le lettere erano state firmate sempre dai due
inviati, ma erano quasi tutte scritte di mano del Machiavelli. Quel
giorno poi il Re partiva da Melun, e il Della Casa, ammalato, andava
per curarsi a Parigi; sicchè il Machiavelli restava solo a continuare
il viaggio e la legazione, che dal 26 settembre in poi prende subito
maggiore importanza, e s'estende in un più vasto campo. Egli non si
ferma più al solo affare, pel quale era stato inviato; ma interroga,
discorre sulle varie questioni attinenti alla politica italiana; di
tutto ragguaglia i Signori, e poco dopo, invece, ragguaglia i Dieci,
che furono allora rieletti, e tutto ciò fa con tale e tanta premura,
con tanto ardore, che qualche volta sembra quasi perdere di vista lo
scopo particolare, molto limitato, della sua commissione. Valendosi
ora del latino ed ora del francese, giacchè nella stessa Corte ben
pochi parlavano l'italiano, egli ragionava con tutti, interrogava
ognuno. E per la prima volta vediamo incominciare a manifestarsi
tutta la penetrazione e l'originalità del suo ingegno, la potenza e la
forza maravigliosa del suo stile. Viaggiando col cardinale di Rouen,
e trovandolo sempre duro sull'altare del danaro, volse il discorso
sull'esercito che il Papa raccoglieva cogli aiuti di Francia, per
secondare i disegni del Valentino. E potè capire, «che se il Re aveva
concesso tutto per l'impresa di Romagna, era stato mosso più dal non
saper resistere alle sfrenate voglie del Papa, che dal desiderare
veramente un esito favorevole.[452] Pure,» continuava il Machiavelli,
«quanto più teme di Germania tanto più favorisce Roma, perchè ivi è
il capo della religione, che è bene armato, ed ancora ve lo spinge il
Cardinale, il quale, sentendosi qui invidiato da molti per avere in
mano la somma delle cose, spera ricevere di là protezione efficace.»
E appena si tornò a parlar di danari, subito il Cardinale s'infuriò di
nuovo, e minacciò dicendo «che i Fiorentini sapevano far molto buone le
loro ragioni, ma finirebbero col pentirsi della loro ostinazione.»[453]
Fortunatamente allora appunto l'aspetto delle cose cominciò a
migliorare assai, essendo stato in Firenze eletto il nuovo ambasciatore
Pier Francesco Tosinghi con più ampi poteri, ed avendo i Signori
ottenuto dai Consigli facoltà di dare nuova somma di danari. Così
al Machiavelli riuscì meno arduo calmare i furori dei Francesi,
e continuare con essi ragionamenti di politica più generale: egli
ottenne anche la esplicita assicurazione, che il Valentino non avrebbe
danneggiato la Toscana.[454] Ma il 21 novembre gli veniva da un amico
affermato, che il Papa faceva ogni opera per metter male, assicurando
che a lui sarebbe bastato l'animo, con l'aiuto che sperava dai
Veneziani, di rimettere in Firenze Piero de' Medici, il quale avrebbe
subito pagato al Re tutti i danari che voleva. Prometteva inoltre di
tòrre lo Stato al Bentivoglio, e quanto a Ferrara ed a Mantova, che si
mostravano pur sempre amiche di Firenze, farle «venire con la correggia
al collo.» Il Machiavelli cercò allora di veder subito il Cardinale, e
trovatolo ozioso, potè parlargli a lungo. Per combattere le calunnie
del Papa contro i Fiorentini, addusse «non la loro fede, ma il loro
interesse a stare uniti con la Francia. Il Papa cerca con ogni arte la
distruzione degli amici del Re, per cavargli più facilmente l'Italia
dalle mani.» «Ma Sua Maestà dovrebbe seguire l'ordine di coloro che
hanno per lo addietro voluto possedere una provincia esterna, che è:
diminuire i potenti, vezzeggiare i sudditi, mantenere gli amici, e
guardarsi da' compagni, cioè da coloro che vogliono in tale luogo avere
uguale autorità.» «E certo non sono i Fiorentini, nè Bologna o Ferrara
che vogliono essere compagni del Re; ma piuttosto coloro che sempre
pretesero dominare l'Italia, cioè i Veneziani e sopra tutti il Papa.»
Il Cardinale prestò benigno ascolto a queste teorìe, che il modesto
Segretario, esaltandosi sempre più nel parlare, esponeva in tòno quasi
di maestro, e rispose che il Re «aveva gli orecchi lunghi ed il creder
corto; ascoltava cioè tutti ma credeva solo a ciò che toccava con
mano.»[455] E forse fu questa l'occasione in cui, avendo il Cardinale
detto che gl'Italiani non s'intendevano della guerra, il Machiavelli
gli rispose che i Francesi non s'intendevano dello Stato, «perchè
intendendosene, non avrebbero lasciato venire la Chiesa in tanta
grandezza.»[456]
Il 24 novembre scrisse le due ultime lettere di questa legazione. Il
Valentino aveva fatto allora minacciosi progressi, e i Fiorentini,
impensieriti di ciò, avevano non solo sollecitata la partenza del
nuovo ambasciatore, ma promesso ai rappresentanti della Francia,
che in breve tempo avrebbero mandato danari al Re. Questi aspettava
quindi più tranquillo, e mandò ordini precisi al Valentino, che
non osasse assalire Bologna nè Firenze. Ed il Machiavelli, data
con una prima lettera questa notizia, scriveva lo stesso giorno la
seconda ed ultima, con cui raccomandava la lite di un tal Giulio De
Scruciatis[457] napoletano, contro gli eredi Bandini in Firenze. «Aveva
il De Scruciatis reso, e poteva rendere ancora utili servigi alla
Repubblica. Io non so nulla,» egli continuava, «di questa sua causa;
ma so bene che, mentre lo essere vostro con questa Maestà è tenero e
in aria, pochi vi possono giovare, e ciascuno vi può nuocere. Perciò è
necessario intrattenerlo almeno con buone parole, altrimenti alla prima
vostra lettera che arriva qui, egli sarà come una folgore in questa
Corte;» «e fiegli creduto il male più facilmente che non gli è stato
creduto il bene; e lui è uomo di qualche credito, loquace, audacissimo,
importuno, terribile e senza mezzo nelle sue passioni, e per questo da
fare qualche effetto in ogni sua impresa.» Dopo di ciò s'apparecchiava
a partire.
Il lettore si sarà accorto come in alcuni punti di questa legazione,
paia già quasi veder balenare da lontano, sebbene ancora in nube,
lo scrittore dei _Discorsi_ e del _Principe_. Quelle massime che più
tardi il Machiavelli esporrà in una forma scientifica, vengono ora con
mano ancora incerta abbozzate alla sfuggita, e come per caso: nelle
successive legazioni vedremo che egli andrà sempre più chiaramente
determinando e formulando gli stessi concetti. Anche il suo stile già
comincia a prendere quel vigore, col quale ben presto egli riescirà
a scolpire, con pochi tocchi di penna, uomini veri e vivi, a dare
una straordinaria lucidità al proprio pensiero, e quindi a meritare
d'essere universalmente giudicato il primo prosatore italiano. Non
recherà quindi maraviglia il sentire come questa legazione facesse in
Firenze un grandissimo onore al Machiavelli, e come il Buonaccorsi, fin
dal 23 agosto, gli scrivesse con vero compiacimento, che le lettere da
lui inviate venivano molto lodate dai più autorevoli cittadini[458].
E nell'agosto egli era ancora col Della Casa, che poneva la firma
prima di lui, come principale incaricato. Possiamo dunque supporre
facilmente che la Repubblica restasse poi sempre più soddisfatta del
suo Segretario.
Tornato in patria, il Machiavelli si rimise con l'usato ardore al
proprio ufficio, e i registri della Cancelleria son di nuovo ogni
giorno pieni delle sue lettere. Gli affari procedettero subito
con ordine maggiore, sia perchè egli esercitava molta autorità sui
suoi sottoposti, sia perchè erano stati rieletti i Dieci, i quali
venivano scelti fra le persone più pratiche di cose militari, erano
meno distratti da altre cure, duravano in ufficio sei mesi e non due
solamente come i Signori. Le loro attribuzioni inoltre erano state,
con la Provvisione del 18 settembre 1500, che li ristabiliva, meglio
definite e limitate, non potendo più di loro autorità far paci o
leghe, nè condotte per più di otto giorni, e dovendo in tutte le cose
d'importanza avere l'approvazione degli Ottanta, prima che fossero
definitivamente deliberate.[459]


CAPITOLO IV.
Tumulti in Pistoia, dove è inviato il Machiavelli. — Il
Valentino in Toscana; Condotta da lui stipulata coi Fiorentini.
— Nuovo esercito francese in Italia. — Nuovi tumulti in
Pistoia, e nuova gita del Machiavelli colà. — Continua la
guerra di Pisa. — Ribellione di Arezzo e della Val di Chiana.
— Il Machiavelli ed il vescovo Soderini inviati presso il
Valentino in Urbino. — I Francesi vengono in aiuto per sedare i
disordini d'Arezzo. — _Del modo di trattare i popoli della Val
di Chiana ribellati_. — Creazione del Gonfaloniere a vita.
(1501-1502)

E le faccende non mancavano davvero, sebbene la guerra di Pisa fosse
alquanto sedata. A Pistoia s'erano gravemente rincrudeliti i sanguinosi
tumulti tra i Cancellieri ed i Panciatichi, i quali ultimi erano stati
cacciati dalla città, che restava sempre sottomessa a Firenze, ma
con pericolo continuo di ribellione. Fu quindi necessario inviare a
rimetter l'ordine, commissari speciali, uomini ed armi. Il Machiavelli
non solo teneva la corrispondenza, dava ordini, veniva dai Signori e
dai Dieci richiesto del suo avviso; ma fu più volte mandato colà. Ivi
infatti lo troviamo nel febbraio, nel luglio e nell'ottobre, andato a
vedere coi proprî occhi per poi riferire.
Molti dell'una e dell'altra parte furono confinati in Firenze; tutti i
rimanenti invitati a rientrare in Pistoia, con obbligo a quel Comune di
difenderli e di risarcirli largamente d'ogni nuovo danno che potessero
patire, dandogli facoltà di rivalersene sugli offensori; e tutto ciò
con una deliberazione dei Signori e dei Dieci fiorentini, in data
del 28 aprile 1501.[460] Volevano i Pistoiesi lasciar fuori della
loro città i Panciatichi, perchè avversi a Firenze; ma il Machiavelli
scriveva ai Commissari, in nome dei Signori, il 4 maggio, che il
tenere i Cancellieri dentro e i Panciatichi fuori era assai pericoloso,
potendosi così a un tratto «perdere tutta la città o tutto il contado,
e forse questo e quella insieme, trovandosi l'uno malcontento, l'altra
piena di sospetto.» Concludeva che si eseguissero senz'altro gli
ordini dati, valendosi delle forze che erano colà, perchè i Panciatichi
rientrassero disarmati e fossero tenuti sotto buona guardia.[461]
Ben presto cominciavano più gravi pensieri da un altro lato. Il
Valentino, impedito dagli ordini di Francia d'assalire Bologna, si
rivolgeva verso la Toscana, ed insignoritosi di Brisighella, chiave
della Val di Lamone, s'era, con l'aiuto di Dionigi Naldi,[462] uomo
d'armi e di gran parentado colà, messo in grado di disporre di tutto
quel paese. Egli chiedeva, minaccioso, libero passaggio attraverso il
territorio della Repubblica, dicendo di volersene coi suoi tornare a
Roma. Ed i Fiorentini, che sapevano con chi avevano da fare, mandarono
a lui Piero Del Bene suo amico privato, mandarono un commissario di
guerra sul confine a Castrocaro, ed uno speciale inviato a Roma, per
informare di tutto l'ambasciatore francese: apparecchiarono nello
stesso tempo 20,000 ducati[463] da spedirsi a Luigi XII, per averlo,
come l'ebbero difatti, più decisamente favorevole. Intanto mille voci
diverse correvano per tutto. I Senesi ed i Lucchesi mandavano continui
aiuti a Pisa, dove Oliverotto da Fermo, soldato del Valentino, era
entrato con alcuni cavalieri; i Vitelli aiutavano i Panciatichi a
vendicarsi dei loro nemici. Da ogni parte erano noie e pericoli.
Bisognava subito provvedere, ed il Machiavelli sembrava moltiplicarsi,
scrivendo lettere, dando ordini ai capitani, ai commissari, ai
magistrati.[464] Fortunatamente però arrivarono avvisi di Francia, che
promettevano sicuro aiuto, e così la Repubblica fu nel maggio assai più
tranquilla.
Ma il Valentino non si fermava. A Firenze infatti venne la nuova
che gli Orsini ed i Vitelli minacciavano già al confine; che un tal
Ramazzotto, vecchio amico dei Medici, s'era presentato a Firenzuola,
chiedendo la terra in nome del Duca e di Piero de' Medici.[465] E per
questi fatti gli animi si sollevarono in modo, che si parlava perfino
di creare una Balìa con pieni poteri,[466] cosa che poi non si fece;
pure si pigliarono i necessarî provvedimenti a difendere la Città
da un improvviso assalto. Si posero nei dintorni alcuni comandati,
fatti venire dal Mugello e dal Casentino, sotto l'abate don Basilio;
ne vennero anche dalla Romagna; altre genti furono messe dentro le
mura. Il Machiavelli era l'anima di questi movimenti d'armati, e se ne
occupava con un ardore singolarissimo in un uomo di lettere. Ma egli
aveva, contro l'opinione prevalente allora, perduto ogni fede nelle
armi mercenarie; questi comandati gli parevano il germe d'una milizia
nazionale, chiamata a difendere la patria nel modo stesso che facevano
gli antichi Romani, e ciò bastava a tener viva la sua fede, il suo
entusiasmo.
Dopo di ciò si mandarono ambasciatori al Duca, invitandolo a passar
pure se voleva; ma alla spicciolata, senza gli Orsini ed i Vitelli.
Egli s'avanzò sdegnato pel Mugello, dove i suoi soldati venivano
insultando e saccheggiando le terre; onde l'irritazione popolare andò
sempre più crescendo nella Città e nella campagna, gridandosi per
tutto contro la «pazienza asinina» dei magistrati, i quali dovettero
durare grandissima fatica ad impedire una sollevazione generale contro
quell'esercito di predoni.[467] Il Duca finalmente, vedendo la mala
parata, e sapendo che i Fiorentini adesso erano davvero protetti dalla
Francia, dichiarò di volere stringere con essi sincera amicizia,
mediante una condotta in qualità di loro capitano. Aggiungeva però
che dovevano lasciargli libero il passo per andare alla sua impresa
contro Piombino, e dovevano anche mutare la forma del governo,
richiamando Piero dei Medici, affinchè si potesse esser sicuri delle
loro promesse. Di fronte a queste pretese, i Fiorentini prima di tutto
armarono altri mille uomini in Città, ordinando maggiore diligenza e
buona guardia per ogni dove; risposero poi che, quanto all'impresa di
Piombino, continuasse pure il suo viaggio; ma quanto al dovere essi
mutare governo, non ne ragionasse neppure, che non era affar suo, e
dei Medici nessuno voleva più sapere in Firenze. Il Valentino allora,
non aggiungendo altro, arrivato che fu a Campi, fece sentire che si
contentava d'una condotta di 36,000 ducati l'anno per un triennio,
senza obbligo d'effettivo servizio, pronto però ad ogni richiesta,
con 300 uomini d'arme, in caso di bisogno. In sostanza, non potendo
ormai sperare altro, voleva almeno, secondo il solito, danari. Ed
i Fiorentini, per farlo una volta partire, firmarono il 15 maggio
1501 la convenzione con cui gli concedevano la condotta, e fermavano
alleanza perpetua fra le due parti.[468] Essi in verità speravano
di non dargli neppure un soldo, ed il Duca, che se n'era avvisto,
accettava nonostante i patti, perchè, non avendo il danaro, avrebbe,
in tempo più opportuno, trovato facile pretesto a nuove aggressioni.
Intanto continuava il suo cammino saccheggiando, e giungeva a Piombino
il 4 giugno. Ivi non potè far altro che pigliare qualche terra vicina
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