Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I - 03

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col custodire e condurre i cavalli. Il suo bastardo Francesco fu duca
di Milano. Il Carmagnola, che comandò i più formidabili eserciti di
Venezia, e fu signore di molte terre, era stato in origine guardiano
di vacche. Niccolò Piccinini, prima di diventare capitano famoso,
era stato ascritto all'arte dei macellai in Perugia. Nè ciò recava
la più piccola maraviglia ad alcuno. La compagnia era il campo aperto
all'attività individuale; in essa comandavano solo la forza, la fortuna
e l'ingegno; non v'erano vincoli tradizionali nè morali di sorta. La
guerra si faceva senza servire ad alcun principio, ad alcuna patria,
passando, per danari o promesse, dall'amico al nemico. L'onor militare,
la fede ai patti giurati, la fedeltà alla propria bandiera, tutto
ciò era ignoto al capitano di ventura, che avrebbe trovato puerile e
ridicolo il lasciarsi da questi ostacoli fermare nel cammino intrapreso
a costituire la propria fortuna e potenza, unico scopo alla vita.
Sotto molti aspetti la sua sorte ed il suo carattere somigliavano
a quelli del tiranno italiano. Alla testa di un'amministrazione
complicata e difficile, doveva ogni giorno pensare a raccogliere
nuovi soldati, per riempire i vuoti che facevano nelle sue file, non
tanto il ferro nemico, quanto la continua diserzione, e trovare ogni
giorno i danari, coi quali pagare, nella pace e nella guerra, i suoi
uomini. Egli era in continua relazione cogli Stati italiani, per
cercare condotte, avere danari colle minacce o colle promesse, dare
ascolto a coloro che, con maggiori offerte, volevano levarlo al nemico.
Pareva in sostanza quasi principe d'una città che si moveva di paese
in paese, il che non la rendeva di certo più facile ad amministrare o
governare; ed al pari del tiranno, viveva in continui pericoli, nella
pace non meno che nella guerra. Egli era minacciato dalle gelosie degli
altri capi di bande o compagnie; dalle ambizioni dei sottoposti, che
spesso tramavano congiure contro di lui; dalla mancanza di condotte,
che, lasciandolo senza danari, poteva sciogliere il suo esercito. La
nessuna sicurezza della sua fede teneva gli Stati che serviva sempre
in sospetto, e dal sospetto facilmente si passava alle vie di fatto,
testimonî il Carmagnola e Paolo Vitelli, improvvisamente presi e
decapitati, l'uno dai Veneziani, l'altro dai Fiorentini, alla testa dei
cui eserciti combattevano. Singolare era poi vedere questi uomini, il
più delle volte di bassa origine e senza cultura, circondati in campo
da ambasciatori, e da poeti, da eruditi, che leggevano loro Livio e
Cicerone, e nei propri versi li paragonavano sempre a Scipione, ad
Annibale, a Cesare o Alessandro. Quando conquistavano per proprio conto
una terra, o la ricevevano in cambio di servigi prestati, il che pur
seguiva qualche volta, erano addirittura capitani e principi ad un
tempo.
La guerra divenne allora per gli Stati italiani una specie di
operazione diplomatica e finanziaria: vinceva chi sapeva trovare più
danari, procurarsi più amici, meglio lusingare e pagare i capitani più
reputati, la cui fedeltà si alimentava solo con nuovi danari o nuove
speranze. Ma il vero spirito militare andò presto decadendo in questi
soldati, che avevano oggi di fronte i compagni di ieri, coi quali
potevano essere domani nuovamente uniti. Il loro scopo non era più la
vittoria, ma la preda. Più tardi le compagnie di ventura scomparvero
affatto cedendo il luogo agli eserciti stanziali, cui avevano
apparecchiato la via; ma esse lasciarono dietro di loro la memoria
di grandi calamità, durante le quali gl'Italiani dettero prova di
molto ingegno e molto coraggio; fondarono la nuova arte della guerra;
manifestarono una varietà infinita di attitudini e di qualità militari;
produssero una gran moltitudine di capitani, e pure sbandarono
indebolendo e corrompendo sempre di più.
Nelle lettere, meglio che altrove, si vede chiara la generale
trasformazione che seguiva in quel tempo. Gli storici deplorano
generalmente, e sembrano non comprendere per qual ragione gl'Italiani,
dopo avere creata una così splendida letteratura nazionale con la
_Divina Commedia_, il _Decamerone_ ed il _Canzoniere_, deviassero
dal cammino gloriosamente percorso, volgendosi alla imitazione degli
antichi, disprezzando quasi la propria lingua, e rimettendo in onore
l'uso del latino. Ma leggendo le opere di Dante, del Boccaccio, del
Petrarca, si vede subito che aprirono essi la via per cui il secolo
XV entrò. Nella _Divina Commedia_ l'antichità riceve continuamente
un posto d'onore, ed è quasi santificata da un'ammirazione senza
limiti; nel _Decamerone_ il periodo latino già trasforma e sconvolge
il periodo italiano; il Petrarca è addirittura il primo degli eruditi.
Chi poi paragona gli scrittori italiani del Trecento con quelli
che compariscono sul finire del secolo XV e sul cominciare del XVI,
s'accorge subito, che il tempo speso in questo mezzo sui classici,
non è andato perduto. Leggendo infatti, non dirò i _Fioretti di
San Francesco_ e le _Vite_ del Cavalca, ma il _De Monarchia_ ed il
_Convivio_ di Dante, anche alcuni canti della _Divina Commedia_,
noi dobbiamo come trasportarci in un altro mondo: l'autore assai di
frequente ragiona ancora al modo scolastico, non osserva e non vede il
mondo come lo vediamo noi. Se invece apriamo le opere del Guicciardini,
del Machiavelli e dei loro contemporanei, troviamo degli uomini che,
anche avendo opinioni diverse dalle nostre, pensano o ragionano come
noi. La scolastica, il misticismo, l'allegoria del Medio Evo sono
scomparsi per modo che sembra quasi se ne sia perduta la memoria. Siamo
sulla terra, in mezzo alla realtà, con uomini che non guardano il mondo
attraverso alcun velo fantastico di mistiche illusioni, ma con i propri
occhi, con la propria ragione, senza essere schiavi d'alcuna autorità.
E così vien fatto di chiedere: in che modo gli eruditi del secolo
XV, tornando verso gli antichi, poterono scoprire un mondo nuovo,
simili quasi, come fu detto, al Colombo che trovò l'America, cercando
d'arrivare alle Indie per un'altra strada?
Il Medio Evo, per ridestare nell'uomo una nuova vita dello spirito,
aveva disprezzato la vita terrena e la società civile; sottomesso
la filosofia alla teologia, lo Stato alla Chiesa. Il reale gli
sembrava utile solo come simbolo o allegorìa per esprimere l'ideale,
la Città terrena solo come un apparecchio alla Città di Dio: si
reagiva contro tutto ciò che era stata l'essenza del Paganesimo,
l'ispirazione dell'arte antica. E così lo spirito umano restò chiuso
nei sillogismi della scolastica, nelle nebbie del misticismo, nelle
fantastiche e intricate creazioni della poesia cavalleresca e delle
canzoni provenzali. Ma quando, come per uno slancio improvviso di
nuova ispirazione, in mezzo alle libertà comunali, sorsero la poesia e
la prosa italiana a descrivere gli affetti, le passioni reali e vere
dell'uomo, il mondo del Medio Evo fu condannato a perire. Le vecchie
forme, incerte e fantastiche, non resistettero più di fronte a quelle
nuove analisi così precise, a quelle immagini così splendide e chiare,
a quello stile, a quel linguaggio, in cui il pensiero trasparisce
come attraverso purissimo cristallo. Ma questa letteratura, dando un
nuovo indirizzo allo spirito umano, fece ben presto nascere anche
bisogni nuovi, che essa non poteva tutti soddisfare. Il linguaggio
poetico s'era già trovato, e s'erano avuti, in una forma ammirabile,
la novella, il sonetto, la canzone ed il poema; ma il nuovo stile
filosofico, epistolare, oratorio, storico mancavano affatto: il bisogno
di trovarli diveniva irresistibile.
Lo scrittore del Trecento somigliava perciò assai spesso ad un uomo
che, pure avendo buone gambe, si trovi in una via così piena di
ostacoli e di pericoli, che non può camminar senza aiuto: di tanto in
tanto egli s'appoggia novamente alle grucce della scolastica. Quando
lo stesso Alighieri, nella sua _Monarchia_, discute se il Papa debba
essere paragonato al sole, e l'Imperatore alla luna; se il fatto di
Samuele che depose Saul, e l'offerta dei re Magi a Cristo bambino
possano provare la dipendenza dell'Impero dalla Chiesa, chi non vede
che egli ha ancora un piede nel Medio Evo? Leggendo la _Cronica_ di
Giovanni Villani, troviamo non solo uno scrittore molto chiaro, ma un
osservatore acutissimo, cui nulla sfugge; un uomo pratico del mondo
e degli affari. Tutto egli vede e registra: battaglie, rivoluzioni
politiche e sociali, forme di governo, nuovi edifizî, quadri, opere
letterarie, industria, commercio, tasse, entrate ed uscite della
Repubblica, perchè egli comprende che di tutto ciò si compone la
società umana, e che da ciò risulta la potenza e la prosperità degli
Stati. Ma egli ci dà ancora come storie le più favolose e fantastiche
leggende sull'origine di Firenze. E neppure una volta sola gli riesce
di trovare la logica unità della narrazione storica, che connette i
vari avvenimenti, e ne rende visibile il legame; il suo lavoro non
esce perciò mai dai modesti confini della cronica. Ogni volta che lo
scrittore del Trecento scrive di filosofia o di politica, ogni volta
che compone una orazione o una lettera, egli è condannato a tornare fra
quelle pastoie, che poco prima sembrava avere spezzate per sempre.
Bisognava dunque allargare lo stile; diffondere la lingua; renderla
più universale, più duttile; trovare le nuove forme letterarie, che
ancora mancavano ed erano divenute necessarie. Ma questo bisogno
cominciava a sentirsi nel momento stesso in cui ogni giovanile e
vigoroso incremento delle forze nazionali veniva contrastato dalle
complicazioni politiche e sociali, che abbiamo più sopra accennate.
Cominciava perciò a mancare quella forza creatrice che già aveva dato
origine alla nostra letteratura, e sola poteva portarla al suo naturale
compimento, facendole trovare le altre forme che essa cercava. Se non
che, queste forme non sono mutabili a capriccio, sono determinate dalle
leggi stesse del pensiero e della natura, ed erano state trovate la
prima volta dai Greci e dai Romani, negli scritti dei quali serbano
in eterno tutto il vigore, lo splendore e la originalità, che le
opere dell'arte raggiungono solo nel momento della prima creazione.
Il ritorno al passato si presentava quindi come un progresso naturale,
necessario, e la grande relazione della cultura latina con la italiana
lo faceva sembrare come un ritemprarsi alle prime sorgenti, un ritorno
all'antica grandezza nazionale. I Greci ed i Latini presentavano
inoltre agl'Italiani una letteratura ispirata alla natura ed alla
realtà, guidata dalla ragione, non sottoposta ad alcuna autorità, non
circondata da nessun velo allegorico, da nessun misticismo: imitarla
era quindi un liberarsi affatto dal Medio Evo. E così tutto spingeva
ora verso il mondo antico. La pittura e la scultura vi trovavano
lo studio perfezionato delle forme umane, un disegno insuperabile;
l'architettura vi trovava una costruzione più solida e meglio
pieghevole ai varî bisogni della vita sociale; l'uomo di lettere, quel
magistero di stile, di cui andava in cerca; il filosofo, l'indipendenza
della ragione e l'osservazione della natura; il politico trovava
nel concetto di Roma antica quella unità dello Stato, che non solo
la scienza, ma la società stessa cercavano allora come un loro fine
necessario. La imitazione dei Greci e dei Romani divenne perciò come
una manìa, che s'impadronì rapidamente di tutti gli animi: i tiranni
vollero imitare Cesare ed Augusto; i repubblicani, Bruto; i capitani
di ventura, Scipione ed Annibale; i filosofi, Aristotele e Platone; i
letterati, Virgilio e Cicerone; perfino i nomi stessi delle persone e
dei paesi si mutarono in greci e romani.
Il Medio Evo conosceva certo molti degli antichi scrittori; per alcuni
di essi ebbe anzi come un ossequio religioso. Ma la sua erudizione,
salvo alcune eccezioni, era ben diversa da quel rinascimento che
cominciava ora. Essa restringevasi ad un piccolo numero di scrittori
latini, dei più recenti, i quali, meno lontani dalle idee cristiane,
e vissuti sotto l'Impero, che sembrava dominare ancora la società
umana, essere anzi immutabile ed immortale, erano quasi letti come
scrittori contemporanei, e le loro opere venivano forzate, piegate a
sostenere i concetti stessi del Cristianesimo. Virgilio profetizzava la
venuta di Cristo; l'etica di Cicerone doveva essere identica a quella
del Vangelo; ed Aristotele, conosciuto solo nelle traduzioni latine,
alterato dai comentatori, era costretto a sostenere l'immortalità e
spiritualità dell'anima, cui non aveva creduto. Ben diversi erano
i desideri e i gusti del secolo XV. Esso non voleva trasformare
in cristiano il mondo pagano; voleva anzi tornare a questo, che lo
riconduceva dalla Città di Dio a quella degli uomini, dal cielo alla
terra. Non gli bastava perciò la conoscenza di pochi scrittori più
recenti; li voleva leggere tutti, ed i più lontani con più ardore,
perchè obbligavano ad uno sforzo maggiore della mente, e facevano
fare un più lungo viaggio intellettuale. Si cercarono, quindi, si
disseppellirono ed illustrarono gli antichi codici, gli antichi
monumenti con una febbrile attività, di cui non v'è altro esempio
nella storia. Sembrava che gl'Italiani volessero non solo imitare il
mondo antico, ma evocarlo dalla tomba, farlo rivivere, perchè in esso
sentivano di ritrovare sè stessi, entrando come in una seconda vita:
era un vero e proprio rinascimento. E non s'accorgevano punto che le
loro imitazioni e riproduzioni venivano animate da uno spirito nuovo,
che si andava svolgendo, dapprima invisibile e nascosto, per liberarsi
poi a un tratto dalla sua crisalide, uscendo alla luce in una forma
nazionale e moderna.
Così l'erudizione fu il mezzo con cui gl'Italiani seppero liberare sè
stessi e l'Europa dalle pastoie del Medio Evo, non interrompendo, ma
continuando e compiendo, sotto diversa forma, l'opera iniziata dagli
scrittori del Trecento. Ma le nuove opere letterarie ed artistiche
non furono il risultato d'una giovane e vigorosa ispirazione, sorta in
una società come quella in cui visse Dante, piena d'ardore e di fede,
tra forti caratteri e fiere passioni. Formate in un tempo, nel quale
continuava una febbrile attività della mente, ma si spegnevano le più
nobili aspirazioni del cuore umano, risentirono le conseguenze di un
tale stato di cose. Si riescì mirabilmente in tutti quei generi nei
quali la natura visibile, lo studio esteriore dell'uomo e delle sue
azioni hanno parte principale. Le arti belle, plastiche sempre di loro
natura, perderono l'epica grandezza di Giotto e dell'Orcagna, quella
ispirazione religiosa che tanto si ammira nelle antiche cattedrali
cristiane; ma, assimilando le forme classiche, che modificarono
inconsapevolmente, s'ispirarono al genio greco, imitarono la natura,
e la riprodussero nelle loro nuove e spontanee creazioni, circondate
d'un velo etereo, con colori che hanno uno smalto, una freschezza, una
fragranza inarrivabili. È un'arte che, innestando le forme cristiane
e pagane, acquista una spontaneità e verginità nuova; resta una gloria
immortale del secolo e dell'Italia, la manifestazione più compiuta del
Rinascimento, da cui riceve ed a cui comunica il proprio carattere.
La poesia fu del pari inarrivabile nelle descrizioni e riproduzioni
del vero, che apparisce chiaro e preciso anche in mezzo alle più
fantastiche creazioni del poema cavalleresco ed eroicomico. La scienza
politica, che esamina le azioni umane nel loro valore obbiettivo
ed esteriore, nelle loro pratiche conseguenze, quasi astraendo dal
carattere morale che acquistano nella coscienza dell'uomo, e dalle
intenzioni con cui vengono compiute, non solo fiorì del pari, ma fu la
creazione più originale nella letteratura dei secoli XV e XVI.
Si lavorò con energia irrefrenabile; si cercarono e si trovarono tutte
le forme letterarie; si ottenne una grande verità e facilità nella
prosa e nella poesia; si crearono il linguaggio e lo stile oratorio,
diplomatico, storico, filosofico; ma svaniva il sentimento religioso;
s'infiacchiva il senso morale, ed il culto della forma cresceva
spesso a scapito della sostanza, difetto che rimase per molti secoli
nella letteratura italiana. Nel vedere questa prodigiosa attività
intellettuale, che sotto mille forme diverse si riproduce sempre più
ricca e più splendida, eppur sempre accompagnata da una sociale e
morale decadenza, lo storico che studia quei tempi, resta sgomento,
sentendosi come in presenza di una misteriosa contradizione, che
fa presagire futuri guai. Quando il male che travaglia internamente
questo popolo, verrà alla superficie, una catastrofe sarà inevitabile.
Il lento e continuo avanzarsi di essa, in mezzo a tanto progresso
intellettuale, è appunto la storia del Rinascimento. Per meglio
comprenderla bisogna esaminare le cose anche più da vicino.

II.
I PRINCIPALI STATI ITALIANI

1. — MILANO.
La prima trasformazione del Comune italiano che, per mezzo della
tirannide, aprì la via alla costituzione dello Stato moderno, noi
la troviamo a Milano. Divenuta centro d'una vasta agglomerazione di
repubbliche e signorie, che interessi e gelosie diverse ora riunivano
ed ora separavano, vide sorgere nel suo seno il dominio della famiglia
Visconti, lacerata anch'essa da interni e sanguinosi dissidî. Nel 1378
si trovano di fronte Bernabò ed il nipote Giovan Galeazzo, più noto
col nome di conte di Virtù. Ambedue ambiziosi e malvagi del pari, il
primo era ciecamente dominato dalle sue passioni, e fu quindi preda del
nipote, che sapeva dirigerle ad un fine premeditato. Questi riuscì nel
1385 a farlo con i figli mettere in prigione, donde non uscirono più
vivi; e restato così solo, si pose con ardore all'opera di riordinare
lo Stato, per liberarlo dall'anarchia.
In mezzo a mille nemici, egli non aveva un esercito, ed era anche
privo di valor militare; ma accoppiava ad una grandissima astuzia una
profonda conoscenza degli uomini ed un vero ingegno politico. Chiuso
nel suo castello di Pavia, prese a stipendio i primi capitani d'Italia,
ed i più accorti diplomatici, distendendo con questi le fila della sua
tenebrosa politica in tutta la Penisola, che subito riempì d'intrighi
e di guerre, dirigendo le operazioni militari dal suo gabinetto. Con
un occhio sicuro ed una volontà pronta, egli riuscì a fare una vera
ecatombe di piccoli tiranni nella Lombardia, unendosi con gli uni ad
abbattere gli altri, per poi rivolgersi contro quelli che lo avevano
aiutato, e impadronirsi dei loro Stati. Così formò il Ducato di Milano,
di cui ebbe l'investitura dall'Imperatore. Estese poi il suo dominio
sino a Genova, a Bologna, alla Toscana, e vagheggiava mettersi sul capo
la corona d'Italia, dopo aver vinto Firenze, che già aveva esaurita
con le continue guerre. Ma il 3 dicembre 1402 la morte venne a troncare
tutti gli ambiziosi disegni.
Mirabile fu vederlo chiuso nelle mura del suo castello, gettarsi in
tante guerre, che di là seppe dirigere e vincere fortunatamente. Nello
stesso tempo egli creò ed ordinò un nuovo Stato. Occupazione principale
del suo governo fu veramente imporre tasse, per alimentare le guerre
incessanti; ma la giustizia veniva nei casi ordinarî bene amministrata,
le finanze procedevano con ordine, e la prosperità cresceva. Le libere
assemblee furono mutate in Consigli amministrativi e di polizia; ogni
città ebbe un Podestà, eletto dal Duca, non più dal popolo; il Comune
non fu più uno Stato, ma un organo amministrativo, come nelle società
moderne; ed un collegio d'uomini autorevoli nella capitale rendeva
già immagine dei nostri ministeri. Circondato da letterati ed artisti,
iniziatore di molte opere pubbliche, fra cui i due più grandi monumenti
della Lombardia, il duomo di Milano e la certosa di Pavia, ove dètte
anche nuova vita e splendore alla università, egli fu uno dei primi
principi moderni. Con lui le istituzioni del Medio Evo scompariscono
affatto, e sorge l'unità del nuovo Stato. Questo fu però una creazione
tutta personale del principe, che ebbe di mira solamente il suo
interesse personale; e quindi con la sua morte la società ricadde ben
presto nell'anarchia, lacerata dalle ambizioni dei capitani di ventura.
Più tardi Filippo Maria, figlio di Giovan Galeazzo, ripigliò in mano
le redini del governo, per camminare sulle orme del padre. Egli aveva
dovuto dividere il Ducato col fratello Giovanni Maria, uomo feroce,
che faceva sbranare le sue vittime dai cani, di cui teneva perciò gran
moltitudine; ma il pugnale dei congiurati venne a far vendetta, ed il
12 maggio 1412 Giovanni fu pugnalato in chiesa. Filippo era una copia
peggiorata del padre, di cui non aveva l'ingegno politico; astuto,
falso, traditore e crudele univa ad una grande conoscenza degli uomini
un perfetto dominio delle sue passioni. Timido fino alla viltà, aveva
la strana passione di gettarsi in guerre continue e pericolose, le
quali conduceva scegliendo, con mirabile accortezza, i primi capitani
d'Italia, che poneva gli uni in sospetto degli altri, per essere sicuro
dalle loro ambizioni. Circondato di spie, chiuso nel suo castello
di Milano, da cui non usciva mai, ingannò sempre e trovò sempre da
ingannare; visse in continua guerra con tutti, e si salvò sempre dalle
disfatte con l'astuzia. I Fiorentini furono da lui rotti a Zagonara nel
1424; dai Veneziani, che sempre combattè, fu più e più volte vinto;
ma dopo paci non sempre accorte ed onorevoli, raccoglieva danari
e ripigliava la guerra. Si gettò perfino nella contesa napoletana
fra gli Angioini e gli Aragonesi, e riuscì a prendere prigioniero
Alfonso d'Aragona, che poi liberò per non lasciar piena vittoria agli
Angioini. In mezzo a questo grande turbinìo d'eventi e di nemici da
lui provocati, riconquistò e riordinò lo Stato paterno, che tenne
sicuro fino alla morte (1447), unicamente per mezzo della sua infernale
astuzia.
Egli non aveva eredi legittimi, ma solo una figlia naturale, Bianca,
il che aveva reso assai più pericolosa la sua condizione, essendo
molti coloro che aspiravano a succedergli. Fra di essi v'era Francesco
Sforza, tenuto in Italia il primo capitano del secolo, al cui
aiuto il Visconti dovette di continuo ricorrere, trovandosi perciò
inevitabilmente in balìa di lui. Questi era un leone che sapeva far la
volpe, e Filippo Maria era una volpe che amava mettersi la pelle del
leone. Così vissero ambedue lunghi anni, tendendosi a vicenda agguati,
e conoscendo ognuno assai bene le intenzioni segrete dell'altro. Lo
Sforza fu più e più volte sull'orlo d'una totale rovina, circondato
dalle trame del Visconti, che poi invece lo aiutava. Nel 1441 davagli
in isposa la propria figlia, e ne alimentava così le ambiziose
speranze, per meglio valersene nelle guerre, salvo poi a ordir nuove
trame contro di lui, che pur sapeva scamparne senza mai lasciarsi
vincere dal desiderio della vendetta. Ed in questo modo, quando, dopo
quasi mezzo secolo di regno, il Visconti moriva di morte naturale, lo
Sforza si trovò abbastanza potente per riuscire nel disegno lungamente
meditato d'impadronirsi del Ducato.
A una dinastia ne succede ora un'altra, ed il principato italiano
si presenta a noi sotto un aspetto totalmente diverso. I Visconti
erano stati una grande famiglia, e coll'astuzia, l'ardire e l'ingegno
politico s'erano impadroniti del Ducato che avevano costituito; gli
Sforza, invece, uomini nuovi, usciti di assai basso stato, s'aprirono
la via colla spada. Muzio Attendolo, il padre di Francesco Sforza,
era nato d'una famiglia romagnola, che viveva in Cotignola una vita di
semi-brigantaggio e d'ereditarie vendette. Dicesi che la cucina della
loro casa pareva un arsenale di guerra: tra i piatti e le padelle
affumicate pendevano le corazze, i pugnali e le spade, che uomini,
donne e bambini maneggiavano con uguale ardire. Ancora giovanetto,
Muzio fu menato via da una banda di ventura, ed in breve tempo,
raggiunto dai suoi, si pose alla testa d'una propria compagnia, e
fu noto col nome di Sforza, datogli in campo. D'un coraggio, d'una
forza e d'una volontà indomabili, più che un generale fu un soldato
che si gettava nella mischia, e scannava i nemici colle proprie mani.
D'indole assai impetuosa, commise spesso azioni da brigante, come
quando trapassò con la spada Ottobuono III di Parma, mentre questi
parlamentava col marchese d'Este. Eppure, sebbene andasse sempre da
uno ad un altro padrone, portando scompiglio e desolazione per tutto,
riuscì ad esser signore di molte terre, le quali tenne per sè e per
coloro che lo avevano seguìto. Nel regno di Napoli, ai servigi della
capricciosa regina Giovanna II, ebbe le sue maggiori e più strane
vicende: prima generale, poi prigioniero, poi gran contestabile
del regno, poi di nuovo in carcere, era per finire i suoi giorni
miseramente, quando a Tricarico la sorella Margherita, con la spada
in pugno e l'elmo in testa, spaventò per modo i messi reali, che ne
ottenne la salvezza del fratello. Fu di nuovo comandante delle forze
reali, e poi morì presso Aquila, affogando nel fiume Pescara, quando lo
passava a nuoto, per incoraggiare i suoi a seguirlo nella vittoria, che
pareva assicurata. E così compiè la vita, non meno agitata del mare, in
cui il suo corpo andò finalmente a trovar sepoltura (1424).
Francesco suo figlio naturale, che aveva 23 anni, prese subito il
comando delle schiere paterne, e le condusse di vittoria in vittoria,
dimostrando un vero genio militare, una grandissima accortezza
politica. Sempre padrone di sè, scatenava l'impeto indomito delle sue
passioni solamente quando voleva. Servì il Visconti contro i Veneziani,
i Veneziani contro il Visconti; attaccò il Papa, togliendogli la
Romagna, ed emanando colà i suoi ordini: _invitis Petro et Paulo_; poi
lo difese. Pel suo valor militare divenne l'uomo che tutti volevano a
loro servigio, perchè pareva che senza di lui nessuno in Italia potesse
vincere, sebbene vi fossero allora capitani come i Piccinini ed il
Carmagnola. Ma in mezzo a tutte queste vicende, egli seppe tener sempre
fermo l'occhio alla sua mira costante; e quando Filippo Maria morì, si
vide subito in che modo il capitano di ventura sapeva mutarsi in uomo
di Stato.
Milano aveva proclamato la repubblica; le città sottoposte s'eran
ribellate; Venezia minacciava; i partiti interni si scatenavano.
Egli offrì la sua spada in servigio della pericolante città, che
credette d'aver trovato un'àncora di salvezza, ed invece fu poco di
poi assediata dal suo stesso capitano, che il 25 marzo 1450 vi faceva
l'ingresso trionfale, avendo già ordinata la propria corte. Il suo
primo atto fu d'interrogare il popolo se, a difesa contro i Veneziani,
volevano ricostruire la fortezza di porta Giovia, o mantenere piuttosto
un esercito permanente in città. Votarono per la fortezza, che fu
invece valido baluardo della tirannide contro il popolo. Amici e
nemici, se temibili, furono subito imprigionati, spogliati di tutto, ed
anche spenti senza esitare. Il territorio dello Stato fu riconquistato;
i ribelli furono sottomessi; l'ordine, l'amministrazione, la giustizia
dei tribunali ordinarî ristabiliti con maravigliosa rapidità. E in
tutto ciò lo Sforza procedeva con la calma dell'uomo che si sente
forte, e che vuole aver nome d'imparziale e giusto. Pure quando gli
pareva opportuno, nessuno più di lui sapeva, per disfarsi d'amici o
nemici, essere perfido e crudele.
La rivolta di Piacenza fu soffocata nel sangue dal suo fido capitano
Brandolini. Arrivate le stragi al colmo, e pacificata ogni cosa,
si vide con generale maraviglia il Brandolini messo in carcere come
sospetto; poi fu trovato con la gola tagliata, e una spada spuntata
e sanguinosa accanto. Si disse dal volgo, che il Duca aveva voluto
disapprovare e punire le crudeltà eccessive del suo capitano; si
disse invece dai più accorti che, dopo essersene servito, gettava via
l'inutile strumento, perchè su di esso solamente cadesse l'odio del
sangue versato. Nato e vissuto nella guerra, egli voleva ora essere
un uomo di pace, e mirava unicamente a consolidare il proprio Ducato
ne' suoi naturali confini, abbandonando del tutto gli ambiziosi e
pericolosi disegni dei Visconti. E quando, dopo una guerra quasi
generale, ma di nessuna importanza, i potentati italiani vennero
l'anno 1454 ad una pace comune, egli seppe fare in modo da essere
implicitamente riconosciuto da tutti, restando a lui anche il
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