Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I - 08

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cella, Coluccio Salutati[64] e Niccolo Niccoli,[65] erano però entrati
addirittura nella nuova via.
Il Salutati, nato in Val di Nievole l'anno 1331, fu anch'egli amico
ed ammiratore del Petrarca; grande promotore dell'erudizione e grande
raccoglitore di codici; autore di orazioni, dissertazioni, trattati
latini in gran numero, pei quali venne a titolo d'onore, chiamato
da Filippo Villani vera «scimmia di Cicerone.» Ma il suo stile poco
semplice e non sempre corretto, la confusa erudizione non lo avrebbero
fatto passare alla posterità, se le qualità morali non avessero dato
anche alla sua opera letteraria una impronta originale. Di un carattere
esemplare, amante della libertà, fu nel 1375 eletto segretario della
Repubblica, che servì con fede ed ardore grandissimi sino alla morte.
Animato dall'amore della patria e delle lettere, liberò lo stile della
cancelleria fiorentina da tutte le forme scolastiche, sforzandosi di
renderlo classico, ciceroniano, e fu così il primo che si provasse
a scrivere le lettere diplomatiche e di affari come opere d'arte,
ottenendo a' suoi tempi un successo grandissimo. Si narra che Galeazzo
Maria Visconti dicesse di temere più una lettera del Salutati, che
mille cavalieri fiorentini; certo è in ogni modo, che quando la
Repubblica fu in guerra col Papa, le lettere scritte dal Salutati,
il quale col suo stile magniloquente evocava le antiche memorie di
Roma, contribuirono assai a far sollevare in nome della libertà molte
terre della Chiesa. L'entusiasmo che destavano allora nell'animo
degl'Italiani i nomi, le reminiscenze, le forme classiche era davvero
singolare.
Ma l'opera del Salutati ebbe anche per l'avvenire conseguenze notevoli.
L'aver messo la letteratura a servigio della politica contribuì molto
a dare alla prima una importanza sempre maggiore, e ad affrettare
quella radicale trasformazione della seconda, che ben presto doveva
manifestarsi in Firenze. Alle convenzioni e formole antiche s'andò
sostituendo una forma sempre più vera e precisa, la quale, come
aveva forzato i letterati a passare dal misticismo alla realtà, così
esercitò la sua azione anche sulla condotta degli uomini di Stato, e
li indusse a trattar gli affari pigliando norma dalla natura delle
cose, a dominare principi e popoli studiandone le passioni, senza
lasciarsi vincolare da pregiudizi o tradizioni. In questo modo
s'arrivò finalmente alla scienza politica del Machiavelli e del
Guicciardini, che dovette alla erudizione più d'uno de' suoi maggiori
pregi e difetti. L'uso ed abuso della eloquenza, della logica e della
sottigliezza, per ottenere i proprî fini politici, condotto sino alla
furberìa ed all'inganno, incominciò ben presto a divenire generale. Il
Salutati restò però sempre d'animo sincero ed aperto.[66]
Sino all'ultimo giorno della sua vita egli continuò a studiare, ed
a promuovere nella gioventù l'amore dei classici.[67] Aveva 65 anni,
quando la voce corsa che Emanuele Crisolora di Costantinopoli sarebbe
venuto in Firenze ad insegnare il greco, lo mise fuori di sè per
la gioia, e parve ringiovanirlo. Nel 1406 morì in età di 76 anni, e
fu sepolto in Duomo con solenni esequie, dopo che la sua vita venne
celebrata in un discorso latino, alla fine del quale sul suo cadavere
fu messa la corona poetica. D'allora in poi la Repubblica elesse a
suoi segretarî quasi sempre uomini celebrati nelle lettere. La lunga
serie, incominciata col Salutati, continuò fino a Marcello Virgilio,
al Machiavelli, al Giannotti,[68] e l'esempio venne imitato anche nelle
altre città italiane.
Niccolò Niccoli ebbe al suo tempo una gran fama, sebbene non fosse
punto uno scrittore, ma un semplice raccoglitore intelligente di
codici, i quali spesso copiava e correggeva di sua mano. Le cure che
spese e i sacrifizî che fece per gli studî classici furono infiniti.
Le sue ricerche di codici s'estesero in Oriente ed in Occidente, per
mezzo di lettere e commissioni date a chiunque partiva da Firenze,
o risiedeva per affari lungi dalla patria. Parco nel vivere, spese
tutta la sua fortuna, caricandosi poi anche di debiti, per acquistar
codici. La sua attività, la sua perizia eran tali, che da ogni parte
si ricorreva a lui per aver notizia di antichi manoscritti; ed a
lui devesi, in gran parte, se Firenze divenne allora il gran centro
librario del mondo; se potè avere librai intelligenti come Vespasiano
da Bisticci, che fu pure il biografo di tutti gli eruditi del suo
tempo. Infaticabile si dimostrò il Niccoli anche nel chiamare a Firenze
i dotti più reputati d'Italia, perchè venissero adoperati nello Studio
o altrove. Leonardo Bruni, Carlo Marsuppini, Poggio Bracciolini, il
Traversari, il Crisolora, il Guarino, il Filelfo, l'Aurispa furono per
opera sua invitati. Essendo però molto irritabile, la sua amicizia si
mutava facilmente in avversione, ed allora egli perseguitava coloro
che aveva protetti, e le sue persecuzioni, pel favore che godeva appo
i Medici, erano molto pericolose. A lui ed a Palla Strozzi devesi la
riforma dello Studio fiorentino, in cui promossero l'insegnamento del
greco. Era così invasato dall'amore degli studî, che, quasi fosse un
missionario religioso, fermava per via i ricchi giovani di Firenze,
esortandoli a darsi alla _virtù_, cioè alle lettere latine e greche.
Piero de' Pazzi che viveva solamente, come egli diceva, per «darsi bel
tempo,» fu uno appunto dei convertiti alla nuova vita dell'erudito.[69]
La casa del Niccoli era un museo ed una biblioteca classica; egli
stesso pareva una enciclopedia bibliografica vivente. Aveva raccolto
800 codici, valutati 6000 fiorini.[70] Nè deve oggi esser molto
difficile immaginarsi la straordinaria importanza che aveva per gli
studî una buona biblioteca, in un tempo nel quale la stampa non era
trovata, ed il prezzo d'un codice superava assai spesso le forze degli
studiosi, oltre di che non sempre si sapeva dove cercarlo. In tali
condizioni, essendo la biblioteca del Niccoli liberamente aperta ad
ognuno, tutti accorrevano da lui a studiare, a riscontrare, a copiare,
a chiedere aiuti e consigli non mai negati. Circondato d'oggetti greci
o romani anche nella sua parca mensa, «a vederlo così antico,» dice
Vespasiano, «era una gentilezza.» Le puerilità del suo carattere, e gli
scandali alquanto ridicoli della sua vita privata, a causa d'una serva
che lo dominava, furono dimenticati per l'ammirazione che destava in
tutti il suo zelo sincero, costante e disinteressato per le lettere.
Morendo nel 1437, in età di 73 anni, l'unico pensiero che ebbe fu
quello d'assicurare al pubblico l'uso de' suoi libri, che infatti
formarono la prima pubblica biblioteca in Europa, mercè le cure de'
suoi esecutori testamentarî, e la munificenza di Cosimo de' Medici,
che rinunziò al credito che aveva di 500 fiorini, pagò altri debiti
del Niccoli, e, ritenendo per sè una parte dei codici, ne pose in San
Marco, ad uso del pubblico, quattrocento i quali aumentò poi a sue
spese.[71]
Una terza riunione di dotti tenevasi nel convento degli Angioli, dove
era Ambrogio Traversari, nato in Portico di Romagna l'anno 1386, e
nominato generale dei Camaldolesi nel 1431. Uomo accorto ed ambizioso,
amicissimo dei Medici, che insieme col Niccoli, col Marsuppini, col
Bruni ed altri non pochi frequentavano la sua cella, aveva un gran
tatto per conservare le amicizie anche dei più permalosi, e per
tener viva la discussione, ma ben poca originalità letteraria. Fece
traduzioni dal greco; scrisse un'opera intitolata Hodaeporicon, in
cui si trovano varie notizie letterarie e le descrizioni de' suoi
viaggi; ma le _Epistolae_ sono l'opera sua principale, perchè le molte
relazioni che ebbe con i dotti del suo tempo, ne fanno un monumento
importante per la storia di quel secolo. Tutto questo però non basta
a giustificare la gran fama che ebbe allora, la quale si mantenne viva
anche più tardi, perchè il Mehus, pubblicandone le _Epistolae_, cercò,
nella prefazione e nella biografia che le precede, di raccogliere
intorno a lui la storia letteraria di quel secolo.
Infinito sarebbe il numero delle riunioni di dotti, se volessimo
ricordarle tutte; in ogni modo però non è possibile dimenticare la casa
dei Medici, ove ognuno di essi trovava accoglienza, protezione, ufficî.
Colà si riunivano anche gli artisti e gli stranieri di qualche fama.
Quasi tutti i più ricchi Fiorentini erano allora cultori o protettori
delle lettere. Roberto dei Rossi, conoscitore del greco, passò la
vita celibe nel suo studio, ed insegnò a Cosimo de' Medici, Luca degli
Albizzi, Alessandro degli Alessandri, Domenico Buoninsegni. Il Nestore
poi di questi aristocratici eruditi era Palla Strozzi, colui che col
Niccoli riformò lo Studio fiorentino; che pagò di suo buona parte della
somma necessaria per farvi venire ad insegnar greco il Crisolora, e
spese moltissimo per avere codici antichi da Costantinopoli. Esiliato,
senza giuste ragioni, si può dire anche iniquamente, da Cosimo dei
Medici, all'età di 62 anni, si fece animo a sopportare questa sventura,
e la perdita che ebbe poi della moglie e di tutti i figli, studiando a
Padova sugli antichi autori fino all'età di 92 anni, quando scese nella
tomba.[72]
E finalmente bisogna ricordar lo Studio fiorentino. In generale
le Università italiane erano state sedi della cultura medievale e
scolastica; l'erudizione era cominciata fuori di esse, spesso anche
contro di esse. Ma a Firenze può dirsi invece che lo Studio fiorì e
decadde con la erudizione. Fondato nel dicembre del 1321, languì,
ora chiuso ed ora riaperto, fino al 1397, quando il Crisolora,
coll'insegnamento del greco, iniziò da Firenze l'ellenismo in Italia.
Più tardi decadde di nuovo, ma fu poi nel 1414 riformato per opera del
Niccoli e dello Strozzi, i quali, valendosi d'un'antica legge, secondo
cui gl'insegnanti non dovevano essere Fiorentini, vi chiamarono i
più celebri uomini d'Italia e di Grecia, il che valse sempre più ad
unire la cultura latina con la greca, e l'erudizione fiorentina con
l'italiana. Nel 1473 lo Studio venne da Lorenzo de' Medici trasferito
a Pisa, dove fu riaperta la celebre Università; ma a Firenze restarono
alcune cattedre di lettere e di filosofia, occupate sempre da uomini
celebri.[73]
Questo gran moto di studî, che abbiamo finora esaminato, non aveva
prodotto, dopo del Petrarca e del Boccaccio, nessun uomo di grande
ingegno. Tutto era stato un raccogliere, copiare, correggere codici;
si erano apparecchiati i materiali per un nuovo progresso letterario,
che però non era cominciato. Lo scrivere italiano era decaduto, ed il
latino non aveva acquistato ancora qualità originali: abbiamo visto
grammatici, bibliofili e bibliografi, non veri scrittori. Ma a poco
a poco cominciò una nuova generazione d'eruditi, che manifestavano
un vero e fino allora insolito valore. Questo era il resultato d'un
processo naturale. Gli scrittori, sentendosi finalmente padroni
della lingua latina, si cominciavano ad esprimere con una libertà e
spontaneità, che dètte origine a nuove qualità letterarie ed anche
filosofiche, ad una nuova letteratura. Le questioni grammaticali,
esaminate e discusse da uomini di così acuto ingegno e di gusto così
fine, com'erano allora gl'italiani, si trasformavano inevitabilmente
in questioni filosofiche, il che fu principio di un nuovo progresso
scientifico.
Ma vi furono ancora cause estrinseche, le quali affrettarono e
provocarono una così notevole trasformazione, e prima fra queste fu
lo studio del greco. Con esso vennero a contatto non solo due lingue,
ma due letterature, due filosofie, due civiltà diverse. S'allargò
ad un tratto l'orizzonte intellettuale, giovando a ciò non solo la
maggiore originalità del pensiero e della lingua greca, ma ancora
l'essere l'uno e l'altra molto diversi dalla lingua e dal pensiero
latino. La mente italiana era così costretta ad uno sforzo maggiore,
quasi ad un più lungo e difficile viaggio ideale, che richiedeva e
svolgeva una maggiore energia intellettuale. Nel Medio Evo la lingua
greca era stata assai poco nota in Italia; e molto fu esagerata
la cognizione che n'ebbero in Calabria i monaci di San Basilio. I
due Calabresi, Barlaam e Leonzio Pilato, l'avevano empiricamente
appresa a Costantinopoli, ed il primo di essi ne insegnò i rudimenti
al Petrarca, che, nonostante il grande ardore d'apprenderla, restò
sempre col suo Omero dinanzi, senza capirlo.[74] Il secondo fu tre
anni professore a Firenze, per opera del Boccaccio, che fece così
istituire la prima cattedra di greco in Italia. Ma dal 1363 al 1396
questo insegnamento, che era stato abbastanza povero, tacque di nuovo.
Gl'Italiani che volevano averlo, si trovarono, come il Guarino ed il
Filelfo, costretti ad andare fino a Costantinopoli. E i primi profughi
greci venuti fra noi giovarono meno assai che non si crede, perchè
essi, ignorando l'italiano, conoscendo poco il latino, e molto spesso
non essendo neppure uomini di lettere, non erano punto in istato di
soddisfare una passione che pure stimolavano vivamente colla loro
presenza. L'elezione di Emanuele Crisolora a professore dello Studio
nel 1396 incominciò veramente un'èra nuova per l'ellenismo in Italia.
Già professore a Costantinopoli, e vero uomo di lettere, egli potè
dare un efficace insegnamento, ed ebbe per alunni i primi letterati
di Firenze. Roberto de' Rossi, Palla Strozzi, Poggio Bracciolini,
Giannozzo Manetti, Carlo Marsuppini andarono subito a seguire le sue
lezioni. Leonardo Bruni, che allora studiava legge, nel sentire che
si poteva finalmente apprendere la lingua d'Omero, e bere alla prima
sorgente del sapere, lasciò tutto per poter divenire, come divenne, uno
dei più celebri ellenisti del suo tempo.[75] Da quel momento chi non
sapeva il greco, fu in Firenze un dotto a metà. E lo studio di questa
lingua fece subito rapidi progressi, per l'arrivo di nuovi profughi,
i quali erano in generale più colti dei primi, e trovavano il terreno
meglio apparecchiato.[76] A tutto ciò s'aggiunse nel 1439 il Concilio
fiorentino, che doveva riunire la Chiesa greca e la latina, ma valse
invece ad unire lo spirito letterario di Roma e di Grecia. Il Papa ebbe
bisogno d'interpetri italiani per capire i rappresentanti della Grecia,
e così gli uni come gli altri, indifferenti del pari alle questioni
religiose, quando s'avvicinarono, passarono subito dalla teologia
alla filosofia, che in generale soleva essere anche più delle lettere
coltivata dai Greci. Giorgio Gemisto Pletone il più dotto fra quelli
che allora vennero in Italia, ammiratore entusiasta di Platone, seppe
infondere la sua ammirazione in Cosimo de' Medici, e così ebbe origine
l'istituzione dell'Accademia Platonica. Un grande ardore, una singolare
operosità intellettuale cominciarono allora in Firenze, e noi vediamo
finalmente da un lato apparire la nuova originalità letteraria, da un
altro il principio d'un risorgimento filosofico.[77]
L'erudito che prima di tutti si dimostra adesso scrittore originale,
è Poggio Bracciolini, nato a Terranuova presso Arezzo, l'anno 1380.
Studiato il greco col Crisolora, andò con Giovanni XXIII al Concilio di
Costanza, facendo parte della Curia, e vestendo l'abito ecclesiastico,
senza aver preso gli ordini sacri, il che era assai comune fra
gli eruditi, i quali, purchè non avessero moglie, si assicuravano
così molti dei vantaggi serbati ai preti, di cui solevano dir pure
un grandissimo male. Annoiato ben presto delle dispute e contese
religiose, il Bracciolini si pose a viaggiare, ed in una sua lettera
descrisse mirabilmente la cascata del Reno e i bagni di Baden, facendo
di tutto ciò una pittura così viva da potersene anche oggi riconoscere
la fedeltà.[78] Il suo latino, quantunque assai più corretto di quello
dei predecessori, non manca di molti italianismi e neologismi; ma ha
una spontaneità e vivacità tale che sembra una lingua viva: non è una
semplice riproduzione, ma un vero e proprio rinascimento. E di certo
il fiore dell'umanesimo dobbiamo cercarlo nel Poggio ed in altri suoi
contemporanei, non già in coloro che, come il Bembo ed il Casa, ci
dettero una imitazione più fedele, ma anche più meccanica e materiale.
Dimenticando dizionarî e grammatiche, egli sente il bisogno di scrivere
come parla; s'esalta in presenza della natura; cerca il vero e ride
dell'autorità; ma resta pur sempre un erudito, il che non bisogna
mai dimenticare. L'anno 1416 assisteva al processo ed al supplizio di
Girolamo da Praga, descrivendo poi tutto in una sua lettera notissima
al Bruni. È singolare l'indipendenza di spirito, con cui questo
erudito della Curia papale ammirava l'eroismo del precursore di Lutero,
proclamandolo degno della immortalità. Ma che cosa ammirava in lui? Non
il martire, non il riformatore; dichiarava anzi che, se Girolamo aveva
detto qualche cosa contro la fede cattolica, meritava il supplizio che
ebbe. Ammirava in lui il coraggio d'un Catone e d'un Muzio Scevola;
ammirava «la voce chiara, dolce, sonora; il gesto dignitoso e bene
adatto ad esprimere lo sdegno o a muovere la compassione; l'eloquenza
e la dottrina, con cui vicino al rogo citava Socrate, Anassagora,
Platone, i Santi Padri.»[79]
Ben presto noi lo vediamo allontanarsi da Costanza per fare lunghi
viaggi. Percorse la Svizzera e la Germania, cercando nei conventi
antichi manoscritti, dei quali fu il più fortunato scopritore in
quel secolo. A lui si debbono opere di Quintiliano, Valerio Flacco,
Cicerone, Silio Italico, Ammiano Marcellino, Lucrezio, Tertulliano,
Plauto, Petronio, ecc. Quando la notizia di queste scoperte arrivava
a Firenze, la Città tutta era in gioia. Il Bruni gli scriveva, a
proposito specialmente della scoperta di Quintiliano: «Tu sei ora
divenuto il secondo padre dell'eloquenza romana. Tutti i popoli
d'Italia dovrebbero muoversi per venire incontro al grande scrittore,
che hai liberato dalle mani dei barbari.»[80] Molti altri lo imitavano
allora in queste ricerche di codici. Dell'Aurispa s'affermava che ne
aveva portati da Costantinopoli 238; del Guarino si ripeteva la favola
che lo diceva incanutito ad un tratto, per avere in un naufragio
perduti i molti codici che portava d'Oriente.[81] Ma nessuno fu mai
operoso e fortunato quanto il Bracciolini.
In Inghilterra, presso il cardinale di Beaufort, egli trovossi come
isolato, in una società di ricchi aristocratici senza cultura, che
passavano gran parte della vita mangiando e bevendo.[82] In quei
desinari, che lo tenevano a tavola perfino quattro ore di seguito,
egli era costretto ad alzarsi e lavarsi gli occhi con acqua fresca,
per non addormentarsi.[83] Pure il paese offeriva, per la sua novità,
vasto campo alle osservazioni del Bracciolini, il quale fin d'allora
assai acutamente, fra le altre cose, scorgeva il carattere proprio
dell'aristocrazia inglese.[84] Infatti, sebbene venisse da Firenze,
già tutta democratica, egli notava con sua grande maraviglia, che colà
i mercanti arricchiti, i quali si ritiravano in campagna, a vivere
delle loro rendite nelle proprie ville, erano dai nobili accolti e
trattati alla pari. E così all'accorto viaggiatore del secolo XV non
sfuggiva sin d'allora ciò che solamente parecchi secoli dopo notarono
gli storici, che cioè l'aristocrazia inglese assai più facilmente
delle altre si mescola con la borghesia e col popolo, di cui sostiene
gl'interessi, a differenza di quanto avvenne nei paesi latini, dove
essa rimase sempre separata ed ostile al popolo, che perciò ne volle la
rovina. Ma la novità del paese, la varietà dei costumi e dei caratteri,
le quali a Poggio Bracciolini mai non sfuggivano, che occupavano anzi
di continuo la sua attenzione, non bastavano a compensarlo del poco
conto in cui erano colà tenuti i dotti, e quindi sospirava l'Italia.
Ben presto, infatti, lo troviamo a Roma segretario della Curia romana,
al tempo di Martino V. Ivi egli era di nuovo nel suo elemento. Passava
le lunghe serate d'inverno coi suoi colleghi in una stanza della
Cancelleria, che chiamavano il B_ugiale, sive mendaciorum officina_,
perchè in essa raccontavano aneddoti veri o falsi, più o meno osceni,
coi quali ridevano del Papa, dei cardinali, dei dommi stessi della
religione, in difesa della quale scrivevano i Brevi. La mattina
attendeva al suo ufficio che gli dava poco da fare, e poi componeva
opere letterarie, fra cui furono allora i dialoghi sull'Avarizia e
sull'_Ipocrisia_, vizî che egli diceva proprî del clero, che perciò
flagellava a morte. Ma in questa specie di satire non si trova mai
una seria intenzione; è invece lo stesso spirito mordace e scettico
dei nostri comici e novellieri, che come lui ridevano della religione
che professavano. Questi cercavano dipingere i costumi del tempo;
gli eruditi volevano principalmente far prova di possedere il latino
in modo da saper trattare argomenti sacri e profani, serî, comici ed
osceni. Ecco tutto. Non c'era mai da sperare nessun alto scopo morale.
Il Bracciolini, infatti, che flagellava i corrotti costumi del
clero, menava poi una vita tutt'altro che morigerata. E quando il
cardinale di Sant'Angelo, scrivendo, gli faceva il rimprovero d'aver
figli, il che non conveniva ad un ecclesiastico, e di averli poi da
una concubina, il che non conveniva ad un laico, egli, senza punto
sgomentarsi, rispondeva: «Ho figli, il che conviene ad un laico; li ho
da una concubina, il che è antico costume del clero.» E, continuando
la lettera, raccontava d'un abate il quale presentò a Martino V un suo
figlio, ed essendone da lui biasimato, gli diceva, fra le risa della
Curia, che ne aveva ben altri quattro, prontissimi sempre a prendere le
armi per sua Santità.[85]
Venuto a Firenze con papa Eugenio IV, si trovò in mezzo ai dotti
qui radunati, e fu subito in dispute assai violenti coll'irrequieto
Filelfo, che insegnava allora nello Studio. Questi, essendo stato
a Costantinopoli dove aveva preso una moglie greca, era quasi il
solo in Italia che allora parlasse e scrivesse la lingua di Platone
e d'Aristotele. Colla sua sconfinata vanità, col suo carattere
irrequieto non dava pace a nessuno: attaccò i Medici e finì col doversi
allontanare da Firenze. Allora cominciò a scrivere satire contro i
dotti già stati suoi amici e colleghi, ed il Bracciolini gli rispose
colle sue _Invettive_. Fu una guerra d'accuse indecenti, nella quale
i due eruditi, ingiuriandosi crudelmente, facevano gara di abilità
retorica e di maestria nella conoscenza del latino. Il Filelfo aveva il
vantaggio di scrivere in versi, e quindi le sue ingiurie si ritenevano
più facilmente a memoria; ma il Bracciolini, avendo maggiore ingegno
e brio, scrivendo in prosa, poteva più facilmente dire tutto quello
che voleva. Egli respingeva le ingiurie che «il Filelfo aveva vomitate
dalla fetida cloaca della sua bocca,» ed attribuiva l'indecenza del
linguaggio di lui alla educazione che aveva ricevuto dalla madre, «il
cui mestiere era stato, diceva, di vuotar budella d'animali: così il
fetore di lei emanava ora dal figlio.»[86] Lo accusava d'aver sedotto
la figlia del proprio maestro, per sposarla e poi venderne l'onore,
e finiva offrendogli una corona degna di tanta laidezza.[87] Nè ciò
bastava, chè essi s'accusavano anco di vizî che il pudore impedisce
oggi di nominare, e di cui i dotti parlavano allora senza ritegno,
quasi ridendo, istigati dall'esempio degli scrittori greci e romani.
L'animo rifugge dal pensare che grande rovina morale tutto ciò
dovesse portare nello spirito italiano. Ma Poggio scriveva le sue
lodate _Invettive_ in una deliziosa villa, dove aveva raccolto
statue, busti, monete antiche, di cui si valeva a meglio comprendere
l'antichità, ed iniziava così l'archeologia, come aveva già fatto
a Roma descrivendone i monumenti. A lui pareva che questo fosse il
paradiso dovuto ad uno spirito eletto, ad un letterato enciclopedico,
destinato all'immortalità. Aveva allora 55 anni, e per sposare una
giovanetta di cospicua famiglia, abbandonò la donna con cui aveva sino
allora vissuto, da cui gli erano venuti quattordici figli, quattro
dei quali, vivi e legittimati, restarono poi senza averi. Ma rimediò
scrivendo un dialogo: _An seni sit uxor ducenda_, in cui difese la
propria causa. Bastava uno scritto in latino elegante a risolvere i più
difficili problemi della vita, ed a mettere in pace la coscienza. Per
l'erudito del secolo XV, già lo dicemmo, le parole valevano quanto e
più dei fatti: lodare con eloquenza la virtù era lo stesso che essere
virtuoso. I più grandi uomini della Grecia e di Roma non dovevano forse
la immortalità alla eloquenza con cui la loro vita era stata narrata
da sommi scrittori? Che sarebbe della fama di Annibale, di Scipione,
d'Alessandro, d'Alcibiade senza Livio, senza Plutarco? Chi sapeva
scrivere con eloquenza il latino, non solo era sicuro della propria
immortalità, ma poteva a suo arbitrio concederla anche agli altri.
Dalla Toscana Poggio tornò a Roma, e sotto il pontificato di Niccolò
V, valendosi della grande libertà concessa agli eruditi, pubblicò
scritti contro i preti, contro i frati, ed il _Liber Facetiarum_,
in cui raccolse tutte le satire e le oscenità altra volta raccontate
nel _Bugiale_, dicendo chiaro nella prefazione, che il suo scopo era
di mostrare come il latino potesse e dovesse essere adoperato a dir
tutto. Invano i rigoristi biasimarono questo vecchio che aveva ora
settanta anni, e contaminava così la sua canizie: dopo che il Panormita
aveva pubblicato l'_Hermaphroditus_, l'orecchio italiano s'era usato
a tutto, e Poggio passava tranquillo il suo tempo nello scrivere
oscenità, e nelle dispute letterarie. Una disputa l'ebbe allora col
Trapezunzio, e finì a pugni; l'altra l'ebbe col Valla, e questa dètte
origine da una parte all'_Antidoto contro il Poggio_, dall'altra a
nuove _Invettive_. La questione versava sulle proprietà del latino e
sui precetti grammaticali sostenuti nelle _Elegantiae_ del Valla, il
quale, essendo di un acume critico superiore, ebbe il vantaggio nella
controversia. Ma anche qui la gara di oscenità fu scandalosa. Accusato
d'ogni più disonesto vizio, il Valla rese pan per focaccia, senza
gran fatto occuparsi di difendere sè stesso, anzi spesso dando prova
d'un singolare cinismo. Così a Poggio che lo accusava d'aver sedotto
la fantesca della propria sorella, rispondeva ridendo d'aver voluto
provar falsa l'accusa fattagli dal cognato, che la sua morigeratezza,
cioè, non derivasse da virtù dell'animo.[88] S'ingannerebbe però
assai chi volesse dalla violenza delle ingiurie misurare la forza
delle passioni. Le _Invettive_ erano quasi sempre semplici esercizî
retorici; i due contendenti scendevano nell'arena come istrioni venuti
a dare spettacolo della loro destrezza e della loro nudità. Se però
le passioni non erano reali, reale era pur troppo il danno morale che
risultava da sì misero spettacolo.
Abbandoniamo dunque questo terreno fangoso e passiamo ad altro,
giacche siamo ancora lontani dall'avere descritta tutta la prodigiosa
attività del nostro autore. Le orazioni erano, dopo le epistole, il
genere più popolare fra gli eruditi. In esse raccoglievano tutte
quante le reminiscenze dell'antichità, e tutte quante le figure
retoriche. La memoria era spesso la sola facoltà veramente necessaria
al buon successo: — aveva una memoria eterna, citava tutti quanti
gli autori antichi, — era l'elogio che Vespasiano soleva fare ai più
celebri di questi oratori, i quali sembravano aver dei florilegi,
cui ricorrere per ispirare la propria eloquenza. Si trattava d'un
generale, e ricordavano tutte le grandi battaglie; si trattava d'un
poeta, e si sciorinavano precetti di Orazio o di Quintiliano. Il
soggetto principale svaniva dinanzi al bisogno di far servire tutto
come un'occasione a render sempre più familiare l'antichità: lo stile
era falso, l'artifizio continuo, le esagerazioni innumerevoli, e le
orazioni funebri riuscivan sempre apoteosi. Un giorno che il Filelfo
voleva accusare un suo persecutore, salì la cattedra, e cominciò
in italiano: «Chi è cagione di tanti suspecti? Chi è principio di
tante ingiurie? Chi è autore di tanti oltraggi? Chi è costui, chi è?
Nominerò io tal mostro? Manifesterò io tal Cerbero? Dirollo io? Io
certo il debbo dire, io il dico, io il dirò, se la vita n'andasse.
Egli è il maledico ed il prodigioso, il detestabile ed abominevole....
Ahi! Filelfo, taci, non dire per Dio! Abbi pazienza. Chi sè medesimo
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