Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I - 18

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che vegliavano all'ordine interno della Città, ed erano un tribunale
pei delitti criminali, più specialmente ancora per quelli di Stato.
L'antico magistrato dei Dieci, che provvedeva alle cose della guerra,
fu del pari conservato. I Gonfalonieri delle Compagnie e i dodici Buoni
Uomini, residuo di antiche istituzioni, i quali formavano i così detti
Collegi, che assistevano la Signoria, sebbene non avessero più una vera
importanza, pure restarono. Sorse però una grave disputa intorno ai
Consigli o sia assemblee della Repubblica. Il Consiglio dei Settanta,
organo del dispotismo mediceo, fu subito abolito; ma non era possibile
ricostituire quelli del Popolo e del Comune, perchè rispondevano
nell'antica Repubblica ad uno stato di cose, ad una divisione della
cittadinanza, che più non esisteva, nè potevasi rinnovare. Cominciarono
quindi le discussioni. Alcuni, alla testa dei quali trovavasi Paolo
Antonio Soderini, tornato allora da Venezia, proponevano addirittura
un Consiglio Maggiore, in cui entrassero tutti i cittadini, ed un
Consiglio, meno numeroso, di Ottimati, a similitudine appunto del Gran
Consiglio e dei Pregadi in Venezia. Ma a questa proposta si opponevano
coloro che, capitanati da Guidantonio Vespucci, volevano un governo
più ristretto, e combattevano perciò l'istituzione del Consiglio
Maggiore, che dicevano utile a Venezia, dove erano i Patrizi, che soli
ne facevano parte; pericolosissimo invece a Firenze, dove, mancando
i Patrizi, bisognava ammettervi tutti i cittadini. Il pericolo, in
tanta divisione degli animi, stava, secondo ciò che ne scrive anche
il Guicciardini, in questo, che prevalendo un governo ristretto
invece di uno temperatamente libero, si sarebbe poi, per reazione,
venuto ad un governo di eccessiva larghezza, il quale avrebbe messo
a repentaglio la Repubblica. Ed è perciò che quel grande storico ed
accorto politico esaltò il Savonarola,[350] come colui che, entrato di
mezzo, salvò ogni cosa, predicando una forma di _governo universale_
con un Consiglio Maggiore al modo veneziano, adattato però ai bisogni
e costumi fiorentini. L'autorità della sua parola fece subito vincere
questo partito già proposto dal Soderini, ed il Frate ne guadagnò tale
ascendente sul popolo, che d'allora in poi le discussioni fatte in
Palazzo, e le leggi che ne seguirono, sembrano spesso copiate dalle sue
prediche.
Il 22 e 23 dicembre 1494 fu deliberato il Consiglio Maggiore, di cui
vennero chiamati a far parte tutti i cittadini di ventinove anni, che
erano _beneficiati_, che godevano cioè il _beneficio dello Stato_,
o sia che, secondo le antiche leggi della Repubblica, avevano il
diritto di prender parte al governo. Quando costoro avessero passato
il numero di 1500, un terzo di essi solamente, alternandosi cogli
altri due, avrebbero di sei in sei mesi formato il Consiglio.[351] La
Città aveva allora circa 90,000 abitanti; i cittadini _beneficiati_
dell'età di ventinove anni erano 3200, sicchè il Consiglio Maggiore
veniva ad essere formato di poco più che mille persone.[352] Ogni tre
anni si sceglievano inoltre sessanta cittadini senza il beneficio, e
ventiquattro giovani di ventiquattro anni, con facoltà di partecipare
al Consiglio, e ciò si faceva «per dare animo ai giovani ed incitarli
a virtù.» L'ufficio principale del Consiglio era quello d'eleggere
i magistrati, nel che si riponeva allora la garanzia della libertà,
e di votare le leggi, senza però discuterle. Esso doveva inoltre
eleggere subito ottanta cittadini di quarant'anni almeno, per formare
il Consiglio degli Ottanta, specie di Senato, che si rinnovava ogni
sei mesi, e del quale facevano parte di diritto alcuni dei principali
magistrati. Esso radunavasi ogni settimana, per deliberare, insieme
colla Signoria, gli affari più gravi e gelosi, che non si potevano
esporre a molti. Vi pigliavano parte anche i Collegi, quando trattavasi
di nominare gli ambasciatori e i capitani, o deliberare condotte di
genti d'arme.
In tal modo venne costituita la nuova Repubblica. La divisione dei
poteri non era allora conosciuta, e le attribuzioni dei magistrati
erano quindi assai confuse. Nondimeno, quando si voleva sanzionare una
nuova legge, il procedimento ordinario era questo: la proposta toccava
alla Signoria, che poteva, se la cosa lo richiedeva, radunar prima una
Pratica o una Consulta, composte dei Collegi, dei principali magistrati
e di Arroti, o sieno cittadini richiesti a quello scopo determinato,
domandando il loro avviso. Quando tutto ciò non si reputava necessario,
s'andava addirittura agli Ottanta, e poi al Consiglio Maggiore. Nella
Pratica e nella Consulta[353] soleva farsi una qualche discussione;
ma nei Consigli si votava e non si discuteva. Lo stesso procedimento
si seguiva ancora, quando trattavasi non di leggi, ma di affari molto
gravi, come sarebbe stato il dichiarare la guerra, il fare qualche
alleanza, che potesse aver gravi conseguenze, e simili.
Questa nuova costituzione cominciò subito ad operare regolarmente, ed
il Savonarola, che ne era stato uno dei principali autori, contribuì
colle sue prediche a consigliare e promuovere altre riforme importanti.
Fu istituita la Decima, cioè l'imposta del 10% sui beni stabili,
fino allora tassati ad arbitrio; fu abolito il Parlamento, il quale,
approvando sempre per acclamazione tutte le proposte della Signoria,
era stato più volte docile strumento d'inconsulte mutazioni e di
tirannide; fu istituito il Monte di Pietà. Venne poi votata una nuova
legge che, nelle cause di Stato, concedeva l'appello dagli Otto al
Consiglio Maggiore, cosa di certo assai poco prudente, perchè affidava
la giustizia alle passioni popolari. Il Savonarola, che pur desiderava
l'appello, ma ad un assai minor numero di persone, non riuscì questa
volta a fermare il popolo, istigato dagli avversari, i quali volevano
cogli eccessi mettere a pericolo la Repubblica, o almeno levarla, come
essi dicevano, dalle mani del Frate. Infatti ben presto si vide che
quella legge era stata imprudentissima.
Tuttavia le cose cominciarono a procedere assai regolarmente, nè altri
disturbi vi furono in sul principio, se non quelli che nascevano dalla
guerra contro i Pisani, la quale però, senza essere ancora di molta
gravità, contribuiva a tenere in Firenze gli animi uniti. Gli alleati,
è vero, chiamarono in Italia Massimiliano re dei Romani, perchè recasse
aiuto a Pisa; ma quando egli venne senza un proprio esercito, non gli
dettero nè uomini nè denari, sicchè dovette tornarsene a casa senza
aver concluso nulla.
V'erano tuttavia in Firenze i germi di un gravissimo pericolo. Il
Savonarola predicava con crescente ardore la riforma dei costumi e
la difesa della libertà, suggeriva utili provvedimenti, faceva una
dipintura vivacissima dei mali che portava la tirannide, ma non si
fermava a ciò. Egli predicava ancora la necessità d'una riforma della
Chiesa, caduta, come tutti sapevano e vedevano, nella più triste
corruzione. Non toccava il domma e neppure il principio dell'autorità
papale, restò infatti sempre cattolico; ma accennava pure alla
necessità di un Concilio per attuare la riforma, ed alludeva assai
spesso alla vita scandalosa di papa Alessandro VI. Questi cominciò
quindi ad impensierirsi vivissimamente d'uno stato di cose tanto nuovo
in Italia, tanto pericoloso per lui che era, come altra volta aveva
scritto Piero Capponi, «di natura vile e _conscius criminis sui_.[354]»
Dapprima invitò a Roma, con parole assai benevole, il Savonarola,
il quale si scusò. Allora invece lo sospese dalla predicazione; ma
i Dieci scrissero subito con tanto favore in difesa di lui, che il
Breve, per paura di peggio, venne revocato. Si tornò alle lusinghe,
lasciando sperare al Frate perfino il cappello cardinalizio; ma egli
nuovamente ricusò di partire, e nella quaresima dal 1496 tuonò più
che mai dal pergamo. Annunziava future calamità, tornava a proporre
la riforma della Chiesa, e conchiudeva che Firenze doveva fermar
bene il suo governo popolare, affine di promuovere in Italia e fuori
il rinnovamento ed il trionfo della religione, purificata da ogni
corruzione. La cosa assunse allora una così straordinaria gravità,
che da ogni parte d'Italia gli occhi si rivolsero sopra di lui con
intenzioni assai diverse. Si sentiva da tutti che la corruzione
della Chiesa era spaventosa, e si capiva che, nonostante il profondo
e generale scetticismo religioso degl'Italiani, non si poteva così
durare a lungo. I segni precursori di una riforma, già manifestatisi a
Costanza, a Basilea, altrove, non si potevano dimenticare. La grande
attenzione, l'entusiasmo con cui una città indifferente e scettica
come Firenze, ascoltava ora il Savonarola, ispirava una confusa paura
in moltissimi, ed uno sdegno feroce in Alessandro VI, che si vedeva
attaccato personalmente da un frate, senza poter far nulla, egli che
pure così facilmente aveva saputo mandare all'altro mondo tanti prelati
e cardinali.
Il pericolo temuto non era però senza qualche speranza di rimedio
pel Papa. Il Savonarola era certo un oratore rozzo, ma potente; aveva
un'attività prodigiosa; scriveva un numero grandissimo di opere, di
opuscoli, di lettere; non si fermava mai; predicava ogni giorno, più
volte al giorno, in diverse chiese; il suo amore pel bene era grande;
il suo religioso entusiasmo ardentissimo; la sua autorità immensa.
Pure, noi lo abbiamo già notato, egli non era in tutto uomo del suo
tempo; la sua cultura era in parte scolastica, e il suo entusiasmo
arrivava spesso fino quasi al fanatismo; aveva visioni e si credeva
profeta; qualche volta anche gli pareva che il Signore, per mezzo di
lui, volesse operare miracoli. Amava ardentemente la libertà; ma era
pur sempre un frate, che la cercava come mezzo a promuovere la riforma
religiosa; non di rado pareva che volesse proprio ridurre Firenze ad
un convento, il che doveva a molti sembrare una puerile illusione. Egli
era circondato da artisti e da eruditi, sui quali aveva come sul popolo
e sugli uomini politici un ascendente straordinario; ma se amava la
cultura e promoveva le arti, era pure acerrimo nemico di quello spirito
pagano che allora invadeva e, secondo lui, corrompeva tutto. Tra i suoi
frati, come tra i suoi seguaci fuori del convento, si trovavano uomini
di nobile carattere e di grande energia; ma non mancavano neppure
spiriti deboli e superstiziosi, che esageravano le idee del maestro, il
quale non era senza esagerazioni egli stesso. L'immenso potere da lui
acquistato in Firenze pei savi consigli politici che aveva dati, per
le nobilissime doti del suo animo, per la sua irresistibile eloquenza,
veniva cresciuto più dalla maraviglia che recava la singolarità del suo
carattere, che dall'essere egli riuscito a risvegliare in Firenze un
vero ardore religioso, il che non era invece avvenuto. Questo era anzi
il punto su cui il Savonarola s'illudeva assai, e non s'avvedeva perciò
che, in parte almeno, egli fabbricava sull'arena: voleva il governo
libero per promuovere la riforma religiosa, ed i Fiorentini accettavano
la riforma religiosa, solo per meglio rafforzare il libero governo.
La base del suo potere era quindi meno solida di quel che pareva, e
non dovevano al Papa mancar modi di formare o di alimentare i partiti
avversi.
Un buon numero di giovani amanti del lieto vivere, già tanto favorito
dai Medici, ed ora così aspramente biasimato e combattuto dal Frate, si
raccolsero pigliando nome di _Compagnacci_, combattendo, col ridicolo e
con ogni arte, lui e i suoi amici, che chiamavano _Piagnoni, Frateschi_
e simili. Tutto questo fece sì che nel 1497, da un lato si tentò di
ripristinare l'antico carnevale mediceo co' suoi baccanali e le sue
oscenità; dall'altro, invece, per opera del Savonarola e de' suoi
seguaci, i fanciulli giravano le vie e le case di Firenze, cercando
le _vanità_, o sia libri, scritture, disegni e statue oscene, abiti
e maschere carnovalesche. Il 7 febbraio, ultimo giorno di carnovale,
fu fatta una solenne processione, la quale ebbe fine col famoso
_bruciamento delle vanità_, raccolte in Piazza della Signoria, sopra
gli scalini d'una grande piramide di legno, a tal'uopo costruita. Come
è ben naturale, tutto ciò fu soggetto di molte accuse e di ridicolo
da parte dei Compagnacci, quantunque i magistrati stessi avessero
non solo permessa, ma quasi diretta la singolare solennità, affinchè
procedesse ordinata e dignitosa. I Compagnacci biasimavano aspramente
che il governo s'andasse mescolando di processioni fratesche. E ad essi
s'univano poi gli Arrabbiati, i quali volevano un governo più ristretto
di Ottimati, ed i Bigi, chiamati così perchè non osavano manifestare
il loro segreto pensiero, che era di tornare ad una pura e semplice
restaurazione medicea. Ma tutto ciò non bastava ancora a mettere in
pericolo nè la Repubblica, nè il Savonarola. I Compagnacci non erano un
partito politico; gli Ottimati avevano poco séguito in Firenze, stata
sempre città popolare; i Bigi, con aderenze potenti in città e fuori,
avevano in Piero de' Medici un capo così odiato e disprezzato, da non
poter esser desiderato da molti. Un primo tentativo da lui fatto, per
rientrare in Firenze, dove si lusingava di trovar grandissimo favore,
riuscì solo a fargli con disprezzo chiudere le porte in faccia. Una
congiura tentata allo stesso effetto da Bernardo del Nero e da altri,
finì con la loro condanna a morte.
Questo è ciò che formava uno stato di cose, in cui Alessandro VI
facilmente poteva trovare quell'occasione di vendetta, che con tanto
ardore cercava da un pezzo. Il Savonarola ogni giorno lanciava nuove
accuse contro gli scandali di Roma, accennava sempre più apertamente
alla necessaria riunione del Concilio, alludeva dal pergamo alle
oscenità ed ai delitti del Papa. Invitato più volte a tacere, aveva
invece parlato più forte. Giunse finalmente una scomunica contro di
lui, ed egli la dichiarò nulla, aggiungendo che parlava in nome di
Dio, ed era pronto a sostenere la propria innocenza al cospetto del
mondo; rinunziava però a convincere Alessandro VI, il quale, eletto
simoniacamente, autore di tanti scandali e delitti, non poteva dirsi
vero Papa. Era allora seguìta l'uccisione del duca di Gandia; correvano
per tutto le voci d'incesto tra il Papa e la figlia Lucrezia; il
Savonarola s'era esaltato per modo che non sapeva, nè voleva più
frenarsi. Indirizzò lettere ai principi d'Europa, incitandoli a
radunare un Concilio, per salvare da totale rovina la Chiesa, la quale,
come egli avrebbe pubblicamente dimostrato, era senza capo vero e
legittimo. Una di queste lettere venne sfortunatamente nelle mani di
Alessandro VI. S'aggiunse poi che Carlo VIII, il quale pareva pentito
de' suoi peccati, e deciso a metter mano alla riforma consigliata dal
Savonarola, che vedeva in lui appunto il suo più valido sostegno, morì
improvvisamente nei primi mesi del 1498. E quantunque ciò ancora non
fosse noto in Italia, pure si vedeva già che tutto cospirava ai danni
del povero Frate. Fu questo il momento in cui inaspettatamente si
presentò al Papa un'occasione favorevole, che egli colse senza punto
esitare.
La Signoria in ufficio era avversa al Savonarola; gli Arrabbiati
ed i Compagnacci erano audacissimi per i continui incoraggiamenti
che ricevevano di fuori; i Bigi erano pronti sempre a tutto ciò che
poteva riuscire in danno della Repubblica; perfino alcuni dei Piagnoni
erano impensieriti della fiera lotta col Papa, quando seguì un fatto
stranissimo, di cui nessuno avrebbe potuto mai prevedere le gravi
conseguenze. Un frate francescano, chiamato Francesco di Puglia,
predicando in Santa Croce aspramente contro il Savonarola, venne fuori
con la dichiarazione che era pronto ad entrare nel fuoco con lui, per
provargli la falsità delle dottrine che sosteneva. Al Savonarola la
cosa parve assai strana, e si tacque: ma non fu così del suo discepolo
frate Domenico Buonvicini da Pescia. Uomo di poca testa, ma d'una
grande energia e buona fede, d'uno zelo ardentissimo, accettò la
sfida, e si dichiarò senz'altro prontissimo a tentare l'esperimento
del fuoco, per provare la verità delle dottrine sostenute dal suo
maestro. Francesco di Puglia rispose, che aveva sfidato il Savonarola,
e con lui solamente sarebbe entrato nel fuoco; ma con fra Domenico
Buonvicini da Pescia si sarebbe provato invece Giuliano Rondinelli,
anch'egli francescano. La cosa sfortunatamente andò innanzi, ed al
Savonarola non riuscì di fermarla, quantunque lo tentasse, perchè fra
Domenico era già caduto nella rete che gli avevano tesa, e perchè egli
stesso non sembrava punto alieno dal prestar fede alla buona riuscita
dell'esperimento, convinto com'era d'essere mandato da Dio, e da lui
ispirato nel predicare le dottrine che venivano ora combattute. Gli
Arrabbiati e i Compagnacci spingevano a tutta possa, perchè speravano
di poter seppellire i Piagnoni nel ridicolo, e uccidere il Savonarola
nel tumulto che apparecchiavano. Teneva loro mano la Signoria stessa,
che si trovava allora in segreti accordi con Roma.
In conseguenza di tutto ciò lo stranissimo esperimento, che nel
secolo XV era un vero e proprio anacronismo, fu fissato pel giorno 7
aprile 1498. All'ora indicata i frati vennero nella Piazza, davanti al
Palazzo, dove tutto era stato dalla Signoria ordinato, e dove un popolo
immenso era impaziente di vedere uno spettacolo che ricordava il Medio
Evo. Il Savonarola, persuaso anch'egli che lo zelo impaziente di fra
Domenico, contro cui aveva invano resistito, fosse veramente ispirato
da Dio, aveva consentito a dirigere i suoi frati. Quando però tutto era
pronto da parte loro, e fra Domenico da Pescia aspettava il segnale
per muoversi, i Francescani, i quali avevano mirato solo a tendere
una rete agli avversarî, esitavano, ed il Rondinelli non pareva che
avesse nessuna voglia di cimentarsi. Si cercarono mille pretesti per
far nascere un tumulto desiderato, ma invano, perchè l'ardita figura
di fra Domenico era lì, sempre pronta a muoversi, e questo contegno
disarmava ogni avversario. Se non che, le continue dispute e i nuovi
pretesti dei Francescani fecero consumare il giorno, e finalmente una
pioggia improvvisa e dirotta diè modo alla Signoria, già scoraggiata,
di dichiarare che l'esperimento non poteva ormai più farsi.
Secondo ogni ragione, la disfatta doveva essere dei nemici
del Savonarola; ma accadde invece il contrario. Il popolo era
scontentissimo di non aver avuto il desiderato spettacolo, e molti ne
davano la colpa al Savonarola, dicendo che se veramente fosse stato
persuaso del suo lume divino, sarebbe, senza altre discussioni, egli
stesso, anche solo, entrato nel fuoco, il che avrebbe d'un tratto e per
sempre fatto tacere gli avversari. I suoi seguaci erano in buona parte
o fanatici credenti, o uomini politici che vedevano in lui solamente
il sostenitore del libero reggimento. I primi restarono addolorati che
l'esperimento non si fosse fatto, i secondi deploravano che egli vi
avesse consentito, e così lo scontento parve a un tratto universale.
Allora riuscì agevole agli Arrabbiati ed ai Compagnacci, secondati
dai Bigi, aiutati dalla Signoria, sollevare un vero e proprio tumulto
contro i Piagnoni, alcuni dei quali vennero infatti ammazzati o feriti
per le vie, gli altri furono per ogni dove insultati, inseguiti.
Cominciata una volta la reazione, s'andò, armata mano, ad assaltare
addirittura il convento di San Marco, che, dopo la gagliarda resistenza
d'alcuni frati e di pochi amici ivi radunati, fu preso. Il Savonarola,
fra Domenico, che mai non lo lasciò, e fra Salvestro Maruffi, altro
de' suoi più noti seguaci, ma superstizioso e di carattere debolissimo,
vennero condotti in prigione, e s'iniziò subito il processo.
Il Papa voleva ad ogni costo aver nelle mani il Frate, e faceva
perciò grandi promesse; ma la Signoria, sebbene composta d'Arrabbiati
dispostissimi a consentirne la morte, non volle, per la dignità della
Repubblica, permettere che il processo si facesse altrove. Lo fece
però a Firenze secondo le istruzioni e gli ordini venuti da Roma.
Si adoperò ripetutamente la tortura, ed al Savonarola si strapparono
confessioni nel delirio del dolore. Ma sebbene in quello stato egli
non fosse più padrone di sè, e non avesse più la forza di sostenere
che la sua dottrina e la sua opera erano ispirate da Dio, pure negò
recisamente d'aver mai avuto un fine personale, o d'essere stato di
mala fede; confermò anzi d'aver solo e sempre operato pel pubblico
bene. A tutto questo s'aggiunse, che se fra Salvestro, debolissimo
e vanissimo sempre, rinnegò il maestro, e disse tutto quello che
gli vollero far dire, fra Domenico, invece, sprezzando le minacce e
la tortura, restò uguale a sè stesso, riconfermando coraggiosamente
l'indomita fede nel suo maestro. Si ricorse quindi all'antico e
facile espediente d'alterare, nel miglior modo che si poteva, anche le
confessioni strappate colla tortura, senza tuttavia riuscire, neppure
con questo artifizio, a trovare giusta materia di condanna. E intanto
il Papa minacciava ferocemente da Roma, perchè o gli dessero in mano i
tre frati, che avrebbe egli pensato al resto, o li mettessero subito
a morte. Nè la Signoria voleva o poteva ormai più tornare indietro.
Siccome però due mesi erano già trascorsi, ed essa doveva quindi,
secondo le leggi fiorentine, uscire d'uffizio, così s'occupò solo a
fare in maniera che le nuove elezioni risultassero favorevoli agli
Arrabbiati, il che ottenne facilmente. E i nuovi eletti convennero
subito col Papa, che egli avrebbe inviato a Firenze due commissarî
apostolici, per condurre a termine il processo, e trovar materia di
condanna capitale, specialmente in ciò che si riferiva all'accusa
d'eresia. Il Savonarola intanto, lasciato qualche tempo tranquillo
in carcere, aveva scritto altri opuscoli religiosi, nei quali,
riconfermando le sue dottrine, dichiaravasi nuovamente in tutto e per
tutto cattolico fedelissimo ed incrollabile, quale era sempre stato.
Ma ciò non voleva dir nulla, la sua morte era stata irremissibilmente
decisa.
Il 19 maggio arrivarono i due commissarî apostolici, con ordine
di condannarlo, _fosse pure un San Giovanni Battista_. Essi lo
processarono e torturarono da capo più fieramente; e quantunque egli,
indebolito com'era, resistesse al dolore anche meglio di prima, e
non si potesse quindi trovare alcun giusto pretesto di condanna,
pure, senza esitare, sentenziarono a morte lui ed i suoi compagni,
e li consegnarono al braccio secolare, non usando indulgenza neanco
al Maruffi, che aveva vilmente calunniato, rinnegato il maestro, ed
affermato tutto quello che avevano voluto. — Un frataccio di più o
di meno poco monta, — così essi esclamarono. Ed in verità non era per
loro prudente salvare la vita d'un uomo così debole e vano, che avrebbe
potuto, anche senza volerlo, rivelare la falsificazione dei processi.
Il giorno 23 maggio 1498 si vide in Piazza della Signoria costruito
un lungo palco, alla estremità del quale sorgeva una gran croce, alle
cui braccia furono impiccati i tre frati, il Savonarola nel mezzo, gli
altri due dai lati. Quando essi furono spirati, i loro cadaveri vennero
subito bruciati, e le loro ceneri gettate in Arno, in mezzo a una folla
di monelli che applaudivano.
In tutto questo dramma v'era stato qualche cosa di eroico, e qualche
cosa d'effimero. Eroici erano stati la fede, l'amore del bene
universale, l'abnegazione del Savonarola; grande la sua eloquenza, il
suo senno politico; effimero era stato invece lo zelo religioso che
egli credette aver destato nel popolo fiorentino. Questo s'era esaltato
solo per l'amore della libertà, ed aveva ascoltato con entusiasmo
la parola religiosa del Frate fino a che essa aveva dato forza al
governo popolare. Ma appena vide in lui un pericolo per la Repubblica,
senza molto esitare lo abbandonò al Papa. Ed invero, quando il povero
Frate cessò di respirare, parve un momento che i pericoli da ogni
parte minacciati al governo da lui fondato, scomparissero del tutto.
Gli alleati non parlavano più di voler rimettere Piero de' Medici;
il Papa, contentissimo, mandava elogi e dava speranze; il Valentino
non minacciava più d'invadere la Toscana, e Firenze credette perciò
di potersi occupare solo della guerra contro Pisa, senza pensare ad
altro. Pur troppo non andò molto e si vide che queste erano speranze
vane, che ben altro ci voleva a saziare la inestinguibile avidità dei
Borgia. Ma non v'era allora più rimedio. Bisognò invano pentirsi d'aver
soffocato una voce che aveva sempre sostenuto la libertà; di avere
spento ingiustamente, iniquamente un uomo che tanto bene aveva fatto
e poteva ancora fare allo Stato, alla morale, alla religione. La sua
morte lo rese per molti un santo ed un martire, e per più di un secolo
gli mantenne in Firenze ammiratori ed adoratori, i quali nei nuovi
pericoli della patria si dimostrarono degni seguaci del loro maestro,
illustrando con eroismo la fine della Repubblica. Comunque sia di ciò,
nel maggio del 1498 gli Arrabbiati avevano trionfato; ma non osarono
per questo di mutar la forma di governo consigliata dal Savonarola, la
quale fu invece consolidata. I Piagnoni continuarono tuttavia ad essere
perseguitati, e molti di essi vennero cacciati dagli uffici, nei quali
entrarono i loro avversarî più dichiarati. In questo momento appunto
comparisce sulla scena, ed ottiene ufficio politico un uomo che fu
certo più grande del Savonarola, ma di una grandezza assai diversa. Di
lui dobbiamo ora esclusivamente occuparci.


LIBRO PRIMO.
DALLA NASCITA DI NICCOLÒ MACHIAVELLI ALLA SUA DESTITUZIONE DALL'UFFICIO
DI SEGRETARIO DEI DIECI (1469-1512)


CAPITOLO I.
Famiglia, nascita e primi studî di Niccolò Machiavelli. Viene
eletto segretario dei Dieci.
(1469-1498)

Niccolò Machiavelli comparisce la prima volta nella storia l'anno
1498, ventinovesimo di sua età. Allora era già arrivata in Firenze la
scomunica contro il Savonarola, cui la Signoria era avversa, e intorno
a lui s'addensava da ogni lato la tempesta, che doveva tra qualche
mese condurlo al patibolo. Per evitare maggiori scandali, egli aveva
ordinato al suo fido discepolo fra Domenico da Pescia di predicare
in San Lorenzo alle donne, e, lasciato il Duomo, s'era ritirato in
San Marco, dove rivolgeva la sua parola agli uomini solamente. Colà
venne il Machiavelli ad ascoltare due prediche, delle quali dètte poi
ragguaglio ad un amico in Roma, con una lettera del giorno 8 marzo di
quell'anno medesimo. In essa appariscono già evidenti alcune qualità
più notevoli della sua indole, tanto diversa, anzi contraria affatto
a quella del Savonarola. Egli non riesce a capir nulla di ciò che v'è
di grande e di nobile nel Frate. Ascolta con un sorriso d'ironia e di
scherno lo strano linguaggio di questo che chiamerà più tardi _profeta
disarmato._ Lo sente «squadernare i libri vostri, o preti, e trattarvi
in modo che non ne mangerebbero i cani;» lo sente dire del Papa quello
«che di quale vi vogliate scelleratissimo uomo dire si puote;» gli
sembra che questo Frate venga «secondando i tempi e le sue bugìe
colorendo:»[355] ma non sa capire come abbia preso un così gran potere
in Firenze, nè come debba andare a finire la faccenda, e quindi prega
l'amico che, se può, lo illumini.
Chi era, in mezzo a tanto bollore di passioni, questo indagatore a
freddo? Ricordando la parte non piccola che egli ebbe dipoi negli
affari della Repubblica, e quella grandissima che ebbe nella storia
del pensiero moderno, ogni particolare intorno ai suoi studî, alla sua
giovinezza, riuscirebbe prezioso. Invece i primi anni del Machiavelli
sono e forse resteranno per sempre avvolti nelle tenebre. I suoi
contemporanei non parlarono quasi mai di lui; dopo la sua morte nessuno
degli amici o conoscenti pensò di scriverne la vita. Ed egli, occupato
continuamente ad osservare gli uomini e le cose che lo circondano, non
si ferma mai sopra sè stesso, non torna mai sul suo passato. Come uomo,
come carattere, non pare che abbia un gran peso fra coloro che gli son
vicini; le sue azioni o non ebbero molta importanza, o non furono molto
avvertite. La stessa sua prodigiosa attività negli affari si manifesta
principalmente colla penna; la sua vita si può dire che sia quasi tutta
ne' suoi scritti, quantunque egli si trovasse in mezzo a molte e varie
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