Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I - 12

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attaccarono fieramente Pletone col solito linguaggio plateale degli
eruditi d'allora. Il cardinale Bessarione, volendo metter pace, si
lasciò sfuggire che giudicava Teodoro Gaza più dotto di Giorgio
Trapezunzio, il quale con più furore che mai si scagliò contro
tutti, attaccando lo stesso Platone. Il Bessarione pubblicò allora
un'opera voluminosa, _In Calumniatorem Platonis_, nella quale, pur
respingendo gli attacchi di G. Trapezunzio, cercava colla sua facile
e molto diffusa eloquenza latina, priva d'ogni originalità letteraria
o filosofica, di conciliare tutte le opposte sentenze. Secondo lui
Aristotele e Platone dicevano, in sostanza, la medesima cosa. Questa
disputa agitata fra i Greci non ebbe una vera importanza filosofica,
restando là dove l'aveva lasciata G. G. Pletone; ma richiamò la mente
degl'italiani ad una parte dell'erudizione che avevano fin allora
troppo trascurata, essendo stato lo studio da essi fatto sui filosofi
greci più che altro letterario. G. G. Pletone intanto, senza perder
tempo nel rispondere alle ingiurie, prima di tornarsene in patria,
seppe infondere nell'animo di Cosimo de' Medici tanta ammirazione per
le dottrine platoniche, che lo lasciò deliberato a dare ogni opera per
propagarle in Italia, e ripristinare in essa l'antica Accademia.
Ad ottenere questo scopo, Cosimo col suo pratico buon senso, capì che
bisognava cercare prima di tutto un uomo adatto, e credè di averlo
trovato in un giovinetto che, nato nel 1433 da un medico di Figline,
s'era dato a seguir con ardore gli studî del padre. — Tuo figlio, disse
Cosimo, è nato a curare gli animi, non i corpi; — e lo accolse, in
età di 18 anni, nella propria casa, destinandolo ad essere il futuro
campione del platonismo. Questo giovane era Marsilio Ficino, il quale,
messosi all'opera con grandissimo zelo, dopo cinque anni di studio,
presentò un lavoro sulla filosofia platonica, fatto però solo con
le traduzioni. Cosimo lodò molto l'operosità del suo protetto, e gli
regalò una villetta presso Careggi, ma gli consigliò di studiare il
greco per lavorare sulle fonti. E da quel tempo sino alla fine di sua
vita, il Ficino non fece altro che studiare Platone ed i neoplatonici,
scrivendo un gran numero di traduzioni e di trattati originali
aggiungendo a ciò l'insegnamento che dava ai figli ed ai nipoti
di Cosimo, più tardi anche ad una numerosa scolaresca nello Studio
fiorentino.
Chi espone le opere del Ficino fa la storia del platonismo in Italia;
chi narra la vita di lui fa la storia dell'Accademia Platonica. I suoi
seguaci si contentarono di ripeterne le idee, e l'Accademia nacque e
morì con lui. Essa non era veramente altro che, una riunione di amici
e discepoli, i quali, protetti dai Medici, si radunavano intorno a
lui, per discutere di filosofia platonica. Somigliava alle riunioni
tenute già nella cella del Marsigli o del Traversari; se non che alle
adunanze dell'Accademia, i Medici, specialmente Lorenzo, assistevano
più spesso, con più ardore le promovevano, e le materie filosofiche
che in esse si disputavano, ebbero un'eco assai più clamorosa in tutta
Italia. Alcune delle adunanze si tennero di state nella foresta di
Camaldoli; altre più solenni si tenevano ogni anno in Firenze, e nella
villa dei Medici a Careggi, il giorno sette di novembre, che, secondo
la tradizione alessandrina, era il giorno della nascita e della morte
di Platone.[169] L'uso di celebrarlo con solennità, osservato fino ai
tempi di Plotino e di Porfirio, veniva ora, dopo 1200 anni, così diceva
il Ficino,[170] ripreso. Si cominciava con un desinare, a cui seguiva
una disputa filosofica, che finiva generalmente con un'apoteosi e quasi
un inno religioso al sommo maestro. Riunioni e dispute meno solenni
si tenevano in molte occasioni diverse, ma sempre nello stesso modo
familiare e libero.
Il nome di Accademia veniva solo dalle dottrine professate ad
imitazione di quelle di Platone. Non aveva, per quanto sappiamo,
proprî statuti o regolamenti. S'adunava di solito nella villetta
del Ficino presso Careggi; la tenevano unita la sua persona, la sua
dottrina, l'ardore de' suoi amici e discepoli.[171] Il che se da un
lato la riduce a poca cosa come istituzione, da un altro ne accresce
l'importanza storica, perchè la dimostra un prodotto naturale e
spontaneo della società in cui nacque. Infatti, mutate appena le
condizioni intellettuali e sociali che l'avevano creata, non fu più
possibile mantenerla in vita. Essa procedette assai regolarmente
fino al 1478; scoppiata allora la sanguinosa congiura dei Pazzi, e
incominciate le persecuzioni, gli animi restarono turbati; mancò la
tranquillità necessaria alle contemplazioni filosofiche, e le riunioni,
già molto diradate, cessarono del tutto colla morte del Ficino. Quelle
che si tennero dipoi negli Orti Oricellarî, alle quali assisteva
anche il Machiavelli, avevano ben poco da fare col Platonismo, come
dimostrano chiaro i suoi dialoghi _Dell'Arte della Guerra_, e le
congiure che ivi si tramarono. Il nome di platoniche, che pure ebbero
queste adunanze, si direbbe qualche volta un pretesto per nascondere
il loro vero scopo. I tentativi fatti nel secolo XVII da Leopoldo de'
Medici per ripristinare l'Accademia, appartengono ad un altro tempo,
hanno altro significato, e ben poca importanza nella storia della
scienza.[172]
Quasi tutti coloro che scrissero dell'Accademia Platonica e del
Ficino, si fermarono a raccogliere minutamente aneddoti biografici
e letterarî, cose tutte che hanno un valore assai secondario.[173]
Importa invece moltissimo conoscere quale è il merito intrinseco delle
dottrine, quale la ragione della grandissima popolarità che ebbero nel
secolo XV, quale l'ingegno di coloro che le trovarono o propagarono.
In verità, quando si guarda il numeroso elenco dei platonici che si
raccolsero intorno al Ficino, reca meraviglia l'osservare che due soli
meritano davvero qualche lode come scrittori di opere filosofiche.
Uno di essi è Cristoforo Landino, il celebre commentatore di Dante
e del Petrarca, ellenista reputato, professore nello Studio, autore
delle _Disputationes Camaldulenses_,[174] nelle quali si dà lungo e
minuto ragguaglio delle platoniche discussioni. L'altro è Leon Battista
Alberti, sommo artista, poeta, prosatore, erudito, scienziato, uomo
universale, precursore di Leonardo da Vinci per la prodigiosa varietà
delle sue doti intellettuali. Ad essi s'univano altri minori: Donato
Acciaioli, Antonio Canigiani, Naldo Naldi, Peregrino Agli, Alamanno
Rinuccini, Giovanni Cavalcanti, che era l'amico più intimo del Ficino,
ed altri molti. Pure fra tutti costoro, senza eccettuare neppure il
Landino e l'Alberti non se ne trova uno solo che sia vero filosofo:
ripetono sempre le stesse idee, e sono le idee del Ficino. Ben si può
ricordare che Angelo Poliziano e Lorenzo de' Medici, ingegni certo
eminenti, furono anch'essi dell'Accademia Platonica; ma tutti i loro
scritti li dimostrano letterati e non filosofi. Pico della Mirandola
venne solamente più tardi, neppur lui con originalità filosofica, a
farsi propagatore delle idee del Ficino. Ma, pochi o molti, di che
cosa parlavano, quali erano e che valore avevano queste dottrine, che
trovavano tanti e così ardenti sostenitori?
La nostra meraviglia in vero cresce quanto più noi ci avviciniamo ad
essi. Nelle sue _Disputationes Camaldulenses_ il Landino ci rappresenta
gli Accademici, durante la state del 1468[175] nel delizioso convento
di Camaldoli, adunati colà per godere il fresco, e disputare di
filosofia. V'erano Lorenzo e Giuliano de' Medici, Cristoforo Landino
e suo fratello, Alamanno Rinuccini, Leon Battista Alberti allora
venuto di Roma e Marsilio Ficino. Dopo aver sentito la messa, andavano
all'ombra, sotto gli alberi della foresta, ed ivi il primo giorno
disputarono sulla vita contemplativa e sulla vita attiva, l'Alberti
sostenendo con argomenti assai poco originali, doversi preferire la
prima; Lorenzo de' Medici invece opponendogli che l'una e l'altra sono
del pari necessarie. Nel secondo giorno si parlò del Sommo Bene, ed
abbiamo una serie di vuote frasi e di citazioni classiche. Nel terzo
e quarto l'Alberti dimostrò la sua platonica sapienza con un lungo
comento su Virgilio, sforzandosi colle più strane allegorie di provare,
che nell'_Eneide_ si trova nascosta tutta quanta la dottrina platonica
e tutta la dottrina cristiana, le quali in fondo sono per lui una
sola e medesima cosa. E queste allegorie, le quali facevano dire ad
Angelo Maria Bandini, nel riferirle, che i platonici gli sembravano
spesso aver perduto la testa,[176] sono ciò su cui essi più di tutto
insistono, quasi fosse parte sostanziale della filosofia.
Noi ci volgiamo ora a cercare i discorsi tenuti in uno dei più solenni
desinari dell'Accademia, che fu dato nella villa di Careggi, il 7
novembre 1474,[177] per ordine di Lorenzo il Magnifico, sotto la
presidenza di messer Francesco Bandini. Qui è lo stesso Ficino che ne
stende la minuta narrazione.[178] Gl'invitati al banchetto, scelti
dal Bandini furono nove, perchè nove erano le Muse: Antonio degli
Agli vescovo di Fiesole, Marsilio Ficino e suo padre, C. Landino,
Bernardo Nuzi, Giovanni Cavalcanti, Tommaso Benci, Carlo e Cristoforo
Marsuppini. Finito il desinare, cominciò la lettura del _Simposio_
di Platone, e i discorsi tenuti in casa di Agatone furono stranamente
esposti dai convitati. Fedro dice nel _Simposio_, che l'amore ispira
l'eroismo, è nato subito dopo del Caos e prima degli altri Dei, è
ammirato da chiunque ammira la bellezza. E il Cavalcanti comenta:
Iddio principio e fine di tutti i mondi crea gli angeli, che a loro
volta formano per mezzo dell'anima universale, creata da Dio, le terze
essenze. Queste sono le anime di tutte le cose, e quindi anche dei
varî mondi, ai quali dànno vita, perchè il corpo è formato dall'anima.
Quando il Caos incomincia a pigliar forma, sente appetito di bellezza,
cioè amore; e perciò appunto, secondo Platone, l'amore precede
gli altri Dei, i quali sono una cosa stessa cogli angeli. E qui il
Cavalcanti comincia a dimostrare come gli angeli sono la stessa cosa
che gli Dei antichi, e come le terze essenze sono le idee di Platone
e le forme di Aristotele ad un tempo. Ma non si contenta di ciò, e
continua dicendo che le terze essenze, create dagli angeli, divengono a
loro volta anch'esse identiche agii antichi Dei; e neppure basta, anzi
segue una tal confusione da non potere più tener dietro all'autore.
Giove è il cielo, Saturno e Venere sono i due pianeti di questo nome;
ma essi sono anche le terze essenze o le anime del cielo e dei due
pianeti; sono le tre Divinità degli antichi, ed anche tre angeli;
sono finalmente l'anima del mondo in quanto essa intende, muove e
genera.[179] Ciò che risulta di più chiaro in mezzo a tanta confusione,
si è che per gli accademici, Cristianesimo e Paganesimo debbono formare
una sola e medesima cosa col Platonismo. L'allegoria è la chiave di
vôlta di questo edifizio, o meglio artifizio, nel quale le cose non
significano mai sè stesse, ma divengono geroglifici e simboli di altre;
e siccome tutto ciò è arbitrario, così esse possono sempre significar
tutto quel che si vuole.
Aristofane, uno degl'interlocutori, dice nel _Simposio_, che in origine
v'erano tre sessi, uomini, donne e promiscui, cioè individui che,
uomini e donne ad un tempo, avevano due teste, quattro mani, ecc.
Questi esseri promiscui vollero lottare cogli Dei, e furono perciò
divisi in due metà, una delle quali cerca sempre l'altra; quindi è
che solo nella loro riunione possono gli amanti essere felici. Se
però i mortali continuano nel proprio orgoglio, saranno puniti con
una nuova divisione; e sarà curioso allora, prosegue Aristofane,
vederli girare pel mondo come basso-rilievi, con mezza testa, con un
occhio, una mano, un piede solamente. Il Landino, cui tocca comentare
questo singolare discorso, non cerca l'origine della leggenda, nè la
spiegazione mitologica di essa. L'anima, egli dice, fu creata da Dio
integra, ornata di lume divino che guarda alle cose superiori, di
lume naturale, ingenito che guarda alle inferiori. Ma l'uomo peccò di
superbia, volle uguagliarsi a Dio, credendo che potesse bastargli il
lume naturale, ingenito; il suo pensiero restò allora rivolto alle sole
cose corporali, e la prima unità fu spezzata. Se continuerà nel suo
orgoglio, affidandosi tutto al lume naturale, sarà punito di nuovo col
perdere anche questo.[180] Ecco la facile spiegazione di tutto.
Ultimo a parlare fu Cristoforo Marsuppini, il quale concluse comentando
il bellissimo discorso di Alcibiade, e le parole che questi, in fine
del _Simposio_, rivolge a Socrate. Il comento è fatto dall'oratore,
esponendo le idee di Guido Cavalcanti sull'amore, e parlando del
_divino furore_, pel quale l'uomo, sorgendo al disopra della propria
natura, _in Deum transit_. Per esso Iddio trae l'anima caduta nelle
cose inferiori, nuovamente alle superiori. E tutto finisce con un
elogio dell'amor socratico, ed un inno al divino Amore o sia allo
Spirito Santo, che ha ispirato la discussione ed illuminato gli oratori
platonici.[181]
Questi filosofi che vogliono avvicinare il Paganesimo ed il
Cristianesimo, lo spirito e la materia, il divino e l'umano, Dio e il
mondo, non riuscendo a trovare l'unità razionale di tutto ciò, riducono
ogni cosa a simboli, a geroglifici. Eppure la grande popolarità e
la immensa efficacia di questa filosofia sulla letteratura e sulla
cultura del secolo, non può mettersi in dubbio da nessuno; non le si
può quindi negare una grande importanza storica. E questa nasce da
un nuovo modo di concepire il mondo, che apparisce chiaro abbastanza,
anche in mezzo alla nebbia delle più strane allegorie. Pei platonici
il mondo è divenuto il gran Cosmo fisico e morale, creato dall'amor
divino, immagine del Dio che l'abita, e che essi risguardano non
già come una persona vivente, ma come l'Unità suprema del tutto,
lo Spirito universale, l'Assoluto. E questo concetto, per opera
loro, penetra nella letteratura della seconda metà del secolo XV, la
informa e ne determina il carattere. Quindi è chiaro che il Platonismo
italiano, senza nessun grande valore scientifico, è pure un elemento
importantissimo della nuova cultura.
Ma, per conoscerlo pienamente, è pur necessario fermarsi sulle opere di
colui che seppe meglio formularlo ed insegnarlo. Marsilio Ficino ebbe
una sconfinata ammirazione per tutta quanta la filosofia antica; lesse
e volle assimilarsi Platone, Aristotele, i neoplatonici, ogni brano che
trovava citato di Confucio, Zoroastro, ecc. Tutto ciò che essi dicono è
sacro per lui, solamente perchè antico; e così i suoi scritti diventano
una vasta congerie di elementi diversi, senza che egli ritrovi un vero
principio dominatore ed organico, che possa valere a costituire un
sistema, e dargli diritto al nome di filosofo originale. Le allegorie
neoplatoniche, che G. Pletone e gli altri suoi connazionali portarono
fra noi, sono il solo mezzo con cui egli sappia riunire i diversi
elementi. Pure il Ficino si propose uno scopo assai notevole, che
comincia a farci intravedere la sua importanza filosofica. In mezzo
al trionfo dell'antichità pagana, egli vide che il Cristianesimo non
poteva cadere; ma vide del pari che la sola autorità dei profeti,
della Bibbia, della rivelazione non bastava più allora a sostenerlo e
mantenerlo vivo negli animi. Bisognava dunque ricorrere alla ragione, a
quella che era per lui la vera filosofia, cioè alla filosofia antica;
ora fra i varî sistemi, quello che meglio di tutti si prestava allo
scopo, era senza dubbio il Platonismo. Così nacque in lui il pensiero,
e lo dichiara egli stesso, di fondare il Cristianesimo sulla dottrina
platonica, di provare anzi che sono una sola e medesima cosa, e che
l'uno è la conseguenza logica dell'altra. Questa dottrina parve allora
una nuova rivelazione, ed è per essa che egli accendeva le candele
innanzi a Platone, e lo adorava come santo. Nel suo libro _Della
Religione Cristiana_, infatti, i più solidi argomenti che egli trovi a
sostegno di essa, sono i responsi delle Sibille, i vaticinî che della
venuta di Gesù Cristo fecero Virgilio, Platone, Plotino, Porfirio.
La vita di Socrate è per lui un simbolo continuo della vita di Gesù,
le dottrine dell'uno e dell'altro sono identiche. Così l'antichità
veniva ribenedetta dal Cristianesimo, che a sua volta era dimostrato
vero dall'antichità. Che cosa poteva avere maggiore importanza per
gli eruditi del secolo XV? Il Ficino era così pieno, così entusiasta
di queste sue idee, che qualche volta, più che l'inventore d'un nuovo
sistema, sembrava credersi il fondatore d'una nuova religione.
Scrisse un gran numero di epistole, traduzioni e trattati in latino; ma
il più grande e solido monumento alla sua fama fu la prima e, per molto
tempo, la sola buona traduzione di tutte le opere di Platone. A questa
lavorò indefessamente gran parte della vita, meditando anche un'opera
che doveva raccogliere sistematicamente, in organica unità, le sue
dottrine. Al quale proposito egli ci dice, che fu lungamente incerto
se quest'opera dovesse essere una esposizione filosofica dell'antica
religione pagana, ovvero una dimostrazione del Cristianesimo, fatta
coll'aiuto dell'antica filosofia. Prevalse il secondo concetto; ma
la nuova opera fu tuttavia intitolata Theologia Platonica, il che ben
dimostra qual fosse l'ordine delle idee, in cui era entrato l'autore.
Essa riuscì una vasta ed incomposta enciclopedia erudita, scritta con
uno stile confuso e scolorito, difetto che si trova in tutte quante
le sue opere, perchè, sebbene egli avesse consumata la vita intera sui
classici, la incertezza delle idee gli rendeva impossibile acquistare
una vera originalità e vigorìa di stile.
Nel leggere attentamente la _Theologia Platonica_, si direbbe più di
una volta, che i materiali ivi accumulati comincino come a fermentare,
e che seguano fra loro assimilazioni spontanee, di cui l'autore
stesso non si rende conto. Vi è in fatti qualche cosa che può dirsi
un resultato del pensiero del secolo, un progresso impersonale della
scienza, di cui il Ficino sembra più lo strumento che l'autore. La
quistione del _consulto_ o _non consulto_ _agit_ nella natura, diviene,
sin dal principio, quella intorno a cui tutte le altre s'aggruppano,
ed è da lui risoluta nel modo stesso che aveva fatto Gemisto Pletone.
Egli distingue nel mondo due diverse categorie di anime. Le une sono
intellettuali ed universali; le altre sensibili, mortali, ma anch'esse
razionali. Queste, che chiama le _terze essenze_ delle cose, si
trovano in tutta la natura, e l'animano. La terra, la luce, l'aria,
i pianeti hanno, ciascuno, la loro terza essenza, e ciò spiega come
la terra produca le piante, nell'acqua si generino animali, ecc. Le
terze essenze inoltre sono divise in dodici ordini, secondo le dodici
costellazioni del zodiaco; ma s'uniscono e confondono fra loro,
formando anime o terze essenze più generali. Così nel nostro pianeta
vi sono l'acqua, la terra, l'aria, che hanno, ciascuna, la loro terza
essenza; ma questo pianeta ha anche la sua propria e più generale, che
tutte le comprende.
L'uomo poi ha due anime, l'una razionale e sensibile, che è la terza
essenza del corpo, col quale essa muore; l'altra, intellettuale,
immortale, infusa direttamente da Dio. Per mezzo di questa, la creatura
si trova in relazione, e può venire in contatto col Creatore: in essa
si specchiano tutte le altre, che infondono vita nell'universo. Così
l'uomo è un microcosmo; può discendere fino agli animali, alla natura
inanimata, e salire agli angeli, a Dio che gli parla e lo guida. Gli
astri, le piante, le pietre stesse hanno poi colle loro terze essenze
diretta influenza sulle passioni, sul destino di lui. E con ciò si
viene a dimostrare la verità delle scienze occulte, a cui il Ficino
prestava una fede quasi puerile. Attribuiva a Saturno la sua continua
malinconia; ogni giorno mutava con scrupolosa diligenza i suoi amuleti,
dai quali mai non si separava. Su tutte queste cose egli scrisse un
trattato, _De vita coelitus comparanda_,[182] che bisogna leggere
per vedere fino a qual punto arrivassero i pregiudizî d'un uomo così
dotto, e d'un secolo tanto progredito. La fede che ebbero nelle scienze
occulte gli uomini più notevoli del Rinascimento, è un'altra delle non
poche contradizioni che noi osserviamo in quel tempo. Pure, chi bene
la esamina, s'accorge che essa era alimentata dal bisogno di sostituir
sempre alle spiegazioni soprannaturali una naturale, anche quando la
scienza non era in grado di trovarla.
Se ora guardiamo questa filosofia del Ficino nella sua generale unità,
apparisce assai chiara la tendenza irresistibile a cercare un'anima
universale e razionale, la quale sembra infatti, ne' suoi scritti,
confondersi col mondo e con Dio stesso. Le sue terze essenze, che
sono una cosa sola colle idee di Platone, colle forme d'Aristotele,
e s'uniscono poi fra loro in anime più generali, come potrebbero non
riunirsi tutte in un'anima sola? Il mondo non è, secondo le stesse
parole del Ficino, un grande animale vivente? La natura non ha essa
un'anima razionale che _consulto agit_? Se non che, innanzi a queste
che pur sono le conseguenze naturali, inevitabili delle sue premesse,
il nostro autore s'arresta quasi spaventato, perchè egli _deve_
accettare e spiegare la creazione dal nulla, e non può rinunziare al
Dio personale del Cristianesimo.
Quando però viene ad esporre filosoficamente la creazione, torna
sempre alle stesse idee, e s'avvicina di nuovo alle conseguenze da cui
rifugge. Iddio concepisce (ed il concepire nella mente divina equivale
al creare) l'anima sensibile delle cose, e l'anima immortale, angelica.
Con questa Esso forma gli angeli, per mezzo dei quali crea le terze
essenze, che sono a lui tanto inferiori che non può degnarsi di crearle
direttamente. In noi, però, come vedemmo, oltre l'anima del corpo,
ve n'è una immortale, creata, infusa da Dio, e per mezzo di essa la
debole creatura umana può ascendere fino al divino ed eterno. A bene
esaminarla, la creazione del Ficino è una emanazione; il suo Dio è
l'anima e l'unità del mondo, anzi la sola definizione che egli sappia
darne è: l'Unità assoluta di tutte le cose. Il Panteismo, conseguenza
logica di questo concetto, è nell'aria stessa del secolo XV, che non
trova altro modo di conciliare Dio e la natura, il divino e l'umano.
Già scientificamente abbozzato dal Cusano, reso popolare dal Ficino,
venne poi esplicitamente formulato e sostenuto dal Bruno. Se non che
il Cusano ed il Bruno sono veri pensatori e filosofi, il Ficino è
invece un erudito che filosofeggia senza vera originalità. Il concetto
panteistico si manifesta nelle sue opere in un modo indistinto e
confuso, quasi inconsapevole; ma ciò appunto lo dimostra un resultato
dei bisogni generali del tempo, lo rende subito popolare, e lo fa
penetrare largamente nella letteratura. Nelle poesie di Lorenzo il
Magnifico, del Poliziano, dell'Alberti, in molti anche dei prosatori
contemporanei, il Dio personale s'è mutato nell'Assoluto, il mondo è
il gran Cosmo da esso abitato ed animato, la natura lungi dall'essere
disprezzata, è quasi divina anch'essa. Questa trasformazione, come
dicemmo, si deve appunto al Ficino ed all'Accademia Platonica, che
scompariscono senza lasciare un nuovo sistema, ma lasciano invece un
nuovo modo di vedere il mondo, e di concepire Iddio.
L'ardore entusiasta del Ficino, nello spiegare le nuove dottrine,
trovò un'eco grandissima in Italia e fuori. Alle lezioni che dava
nello Studio, accorrevano uditori d'ogni parte del mondo. Molti
Inglesi tornarono in patria, portandovi l'ellenismo italiano; anche
il Reuchlin, quando passò per Firenze, fu più che mai convertito alle
nuove idee, le quali già trovavano grande favore in Germania, dove
aiutarono la Riforma religiosa, che cominciò colla interpetrazione
individuale delle Sacre Scritture, e col mettere il credente in diretta
comunicazione col suo Creatore, senza bisogno di alcun intermediario:
in Italia invece le conseguenze dell'erudizione restarono sempre
letterarie e scientifiche.
Giovanni Pico della Mirandola, tanto celebre in tutta Europa, era
chiamato fra noi la Fenice degl'ingegni, per la conoscenza che
si diceva avesse di ventidue lingue, per la grande erudizione, la
straordinaria memoria, al che si aggiungeva la bontà del suo carattere,
l'amabile e gentile aspetto, l'avere egli, di famiglia principesca,
abbandonato tutto pei suoi studî. Esaltato dalle lodi che gli facevano,
e da una filosofia che colle sue allegorie pretendeva di abbracciare
l'universo, propose una specie di singolare torneo scientifico, che
doveva darsi in Roma. Aveva ridotto lo scibile in 900 conclusioni,
su ciascuna delle quali si offeriva pronto a dare risposta a tutti i
dotti, che invitava promettendo di pagare il viaggio ai più poveri.
L'esperimento non si fece, per le difficoltà frapposte dal Papa,
all'autorità del quale Giovanni Pico fu sempre ossequentissimo. Pure
anche quest'uomo che levò allora così gran fama di sè, fu in sostanza
un ingegno non molto diverso dagli altri seguaci del Ficino. Le sue
cognizioni erano estese, ma superficiali; i suoi giudizî, guidati più
dall'entusiasmo che dalla critica. Egli trovava le poesie di Lorenzo
de' Medici superiori a quelle di Dante e del Petrarca. Della più parte
delle ventidue lingue che pretendeva avere studiate, conosceva poco
più che l'alfabeto e gli elementi grammaticali. Tuttavia, ellenista e
latinista fra i valenti, fu ancora dei primi a promuovere gli studî
orientali. Ma nè i suoi scritti italiani o latini, e molto meno la
sua filosofia, hanno alcuna originalità. Voleva conciliare Averroè ed
Avicenna, Scoto e San Tommaso, Platone ed Aristotele, per combattere
i nemici della Chiesa. Ciò doveva portarlo di necessità ad unirsi col
Ficino, che voleva appunto combattere «la religione dell'ignoranza
e la filosofia della miscredenza.» Amico dei Medici, egli finì
ammiratore entusiasta del Savonarola, e fu sepolto in San Marco, dopo
che lo ebbero, secondo la sua ultima volontà, vestito dell'abito dei
Domenicani.[183] Cessò di vivere nel 1494, anno memorabile nella storia
dell'Italia e di tutta l'Europa.

8. — RISORGIMENTO DELLA LETTERATURA ITALIANA.
I Platonici e gli eruditi scompariscono ora assai rapidamente
dalla scena, e la letteratura nazionale che s'è andata per sì lungo
tempo apparecchiando, comincia a manifestarsi in tutto il suo nuovo
splendore.
Nel secolo XV il nostro volgare era assai decaduto, per colpa
principalmente degli eruditi, che o scrivevano latino, o forzavano
l'italiano ad una artificiosa imitazione del latino. L'anno 1441 fu
fatto nel Duomo, in occasione della dimora in Firenze d'Eugenio IV,
un solenne esperimento letterario, chiamato _Accademia Coronaria_,
perchè si prometteva una corona d'argento a chi leggesse i migliori
versi italiani sull'amicizia. Ed il premio non fu potuto concedere,
tanto riuscirono miserabili quelle poesie, che anche oggi nessuno può
leggere senza restar maravigliato del gusto corrotto e del puerile
artificio. S'ingannerebbe però chi credesse che lo scrivere in volgare
fosse stato allora abbandonato del tutto. Canzoni italiane, composte da
scrittori poco noti, ma non poco numerosi, venivano cantate dal popolo
delle città e delle campagne, e in italiano si scrivevano le lettere
familiari, molti racconti, novelle, cronache. Era una letteratura in
gran parte fatta pel popolo, ed a cui il popolo in più modi pigliava
parte, senza che si potesse dire popolare nel vero senso della parola.
Ed andò, col procedere del secolo XV, crescendo sempre d'importanza,
fino a che i dotti, abbandonato il latino, tornarono anch'essi
all'italiano, iniziando così un secondo grande periodo nella storia
delle nostre lettere.
I Platonici vanno messi appunto fra coloro che primi tornarono
alla lingua volgare. Cristoforo Landino aveva molto aiutato a ciò,
promovendo coi suoi Commenti lo studio di Dante e del Petrarca. Ma
a Leon Battista Alberti spetta un luogo ancora più onorevole. Nato
(l'anno preciso è incerto) circa il 1404 a Venezia, dove la sua
famiglia era esiliata, si dimostrò subito uomo singolarissimo. D'una
gran forza e bellezza, egli riusciva mirabilmente in tutti gli esercizî
del corpo, in tutte le opere d'ingegno. Era valente nella musica,
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