Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I - 09

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contenere non può, male potrà alcun altro d'intolleranza e d'incostanza
ammaestrare.»[89] Ecco ciò che allora sembrava modello d'eloquenza;
e però non aveva torto Pio II, quando diceva che un'orazione fatta
con arte poteva commovere solo gente di volgare intelligenza.[90]
Il cardinale di Estouteville, francese di buon gusto, ascoltando
l'elogio di S. Tommaso d'Aquino fatto dal Valla, ebbe ad esclamare:
ma quest'uomo è impazzato![91] Eppure quelle orazioni erano allora
talmente in voga, che nelle paci, nelle ambascerie, in tutte le
solennità pubbliche o private, non poteva farsene a meno. Ogni corte,
ogni governo, qualche volta anche le ricche famiglie, avevano il
loro oratore ufficiale. E come oggi di rado v'è festa senza musica,
così allora un discorso latino in versi o in prosa era il migliore
trattenimento d'una società culta. Molti ne furono dati alle stampe, ma
sono la parte minore; le biblioteche italiane ne contengono centinaia
ancora inediti. Eppure in tutta questa abbondanza non si trovano
mai esempi di vera eloquenza, se facciamo eccezione d'alcune fra le
orazioni di Pio II, il quale non parlava sempre per mero esercizio
letterario, ma spesso anche per giungere ad un fine determinato, ed
allora non affogava nella retorica. Poggio Bracciolini era tenuto
uno dei gran maestri del genere, e non mancò anch'egli di fare molte
orazioni, specialmente in lode dei letterati amici che morivano. La
facilità dello stile che pur cadeva spesso in verbose lungaggini, il
brio, la disinvoltura ed il buon senso lo rendono più leggibile degli
altri, ma non eloquente.
Gli ultimi anni della sua vita li passò a Firenze, dove, per la morte
di Carlo Marsuppini (24 aprile 1453), fu nominato segretario della
Repubblica, e scrisse il suo ultimo lavoro, che fu la _Storia di
Firenze_ dal 1350 al 1455. In quest'opera egli, come aveva già fatto
Leonardo Bruni, abbandonò la via tenuta dai cronisti fiorentini, e non
ebbe la vivacità ed evidenza di cui essi avevano dato così splendide
prove. Non vi si trova mai un aneddoto, non un racconto ritratto dal
vero; non si scopre mai una conoscenza personale degli avvenimenti, in
mezzo ai quali l'autore era pure vissuto, partecipandovi. Egli sembra
narrare fatti greci e romani; non parla mai delle interne vicende
della Repubblica, e noi assistiamo solo a grandi battaglie, a lunghi
e solenni discorsi latini di Fiorentini vestiti sempre alla romana.
Poggio in sostanza mira principalmente ad imitare l'epica narrazione
di Livio, e se questo gli fa perdere le spontanee qualità dei cronisti,
l'obbliga pure a cercare un legame, se non scientifico e logico, almeno
letterario tra i fatti, e la cronaca così comincia a trasformarsi nella
storia. Il Bruni è assai superiore per critica storica, il Bracciolini
per facilità di stile, spesso però diviene verboso. Questi fu dal
Sannazzaro accusato di soverchia parzialità per la sua patria;[92] ma
ciò dipende in gran parte dall'attitudine che assume, parlando sempre
di Firenze come se fosse la repubblica romana.
Se Poggio Bracciolini fu il principale rappresentante di questo
secondo periodo della erudizione italiana, non fu il solo; si trovò
anzi in mezzo ad una schiera numerosa d'altri dotti, e fra questi il
più celebre era Leonardo Bruni, nato nel 1369 in Arezzo, e chiamato
perciò l'Aretino. Noi lo abbiam visto già all'arrivo del Crisolora
in Firenze, abbandonare lo studio del diritto, per darsi tutto al
greco; ed il profitto che fece fu tale da poter ben presto tradurre
non solo i principali storici ed oratori, ma anche i filosofi greci.
Con ciò egli rese un immenso servigio alle lettere, perchè le sue
versioni furono le prime in cui i classici greci vennero fedelmente
tradotti dall'originale, nè solo in un latino elegante, ma senza
essere alterati dalle idee del traduttore; e perchè comparivano nel
momento appunto in cui il bisogno di averle era universale. Le versioni
dell'_Apologia di Socrate_, del _Fedone_, del _Critone_, del _Gorgia_,
del _Fedro_ di Platone, e quelle dell'_Etica_, dell'_Economica_,
della _Politica_ d'Aristotele, furono un vero e proprio avvenimento
letterario. Da un lato veniva rivelata la filosofia platonica, fino
allora quasi sconosciuta in Italia; da un altro compariva finalmente
quello che fa chiamato il _vero_ Aristotele, ignoto al Medio Evo. Gli
eruditi potevano adesso ammirare quella eloquenza, che il Petrarca
aveva cercata invano nell'Aristotele travestito e quasi barbaro de'
suoi tempi; non erano più costretti a studiare uno scolastico invece
del filosofo greco. Così il Bruni dètte un impulso grandissimo alla
filosofia ed alla critica. Il suo era infatti un ingegno critico,
come apparisce anche dalle _Epistole_, nelle quali troviamo per la
prima volta sostenuta l'opinione che l'italiano sia derivato dal
latino parlato, diverso dallo scritto, e ciò con argomenti tali, che
l'umanista del secolo XV sembra qualche volta un vero precursore della
filologia moderna.[93]
Queste qualità si vedono anche meglio ne' suoi lavori storici, primo
dei quali è la _Storia di Firenze_ dalle origini sino al 1401. Di essa
noi dobbiamo dare giudizio diverso di quello già espresso sulla Storia
del Bracciolini, che ne è la continuazione. Questi, come dicemmo è
superiore per la grande facilità dello stile, ma è vinto di gran lunga
per lo spirito critico, e per l'esame delle fonti. Il Bruni ricorre
anche, il che è notevolissimo, ai documenti d'Archivio, e si occupa
assai più dei fatti interni della Repubblica.[94] Più di una volta,
come avremo occasione di vedere, egli ci apparisce come un precursore
delle _Storie_ del Machiavelli. Tuttavia anche in lui troviamo la
stessa tendenza a vestire i Fiorentini alla romana, la stessa mancanza
di colorito locale, gli stessi lunghi discorsi retorici, messi in bocca
dei personaggi storici per la irresistibile passione d'imitare gli
antichi.[95]
Leonardo Aretino era uomo di grandissima autorità personale in Firenze,
dove ebbe molti ed importantissimi uffici, fra i quali tenne lungamente
quello di segretario della Repubblica.[96] Morto nel 1444, gli successe
Carlo Marsuppini d'Arezzo, chiamato perciò Carlo Aretino. Costui
scrisse assai poco, e nulla d'importante; pure fu un insegnante di
grido, emulo fortunato del Filelfo nello Studio fiorentino, ed ebbe
una gran fama, dovuta principalmente alla sua memoria, che gli faceva
fare gran figura nei pubblici discorsi. La sua prima Prolusione fu
applauditissima, perchè, secondo dice Vespasiano, «non ebbono i Greci
nè i Latini scrittore ignuno, che messer Carlo non allegasse quella
mattina.»[97] Egli ostentava un gran disprezzo pel Cristianesimo,
ed una grande ammirazione per la religione pagana.[98] A lui come al
Bruni furono dalla Repubblica decretati solenni onori funebri. Ambedue
ebbero sulla bara la corona poetica; ambedue riposano, l'uno di fronte
all'altro, in Santa Croce, sotto due monumenti del pari eleganti,
con due iscrizioni del pari pompose, quasi seicentistiche, sebbene
grande fosse la distanza che passava dall'ingegno dell'uno a quello
dell'altro. L'elogio funebre del Marsuppini venne letto dal suo scolare
Matteo Palmieri, quello del Bruni, invece, da un altro letterato di
sommo grido, e riuscì un avvenimento solenne. In mezzo alla pubblica
piazza, accanto alla bara, su cui era il cadavere del Bruni col volume
della sua _Storia Fiorentina_ sul petto, in presenza dei magistrati
della Repubblica, incominciò a leggere Giannozzo Manetti, che da
molti era tenuto, massime per le orazioni, il primo letterato allora
vivente. Eppure chi legge adesso questa Orazione, resta maravigliato,
e non sa comprendere come in un secolo tanto culto e tanto ammiratore
dei classici, si potesse, con un gusto così barocco, riscuotere così
universali applausi. Egli incomincia col dire che, se le Muse immortali
(_immortales Musae divinaeque Camoenae_) avessero potuto fare un
discorso latino o greco, e piangere in pubblico, non avrebbero lasciato
fare a lui quella solenne orazione. Viene poi a parlar della vita del
Bruni, ed, arrivato al tempo in cui fu segretario della Repubblica,
percorre la storia di Firenze. Tocca delle opere di lui, e poi si
distende a ragionare degli scrittori greci e latini, specialmente
di Cicerone e di Livio, al di sopra dei quali pone il Bruni, per la
gran ragione, che questi non solo traduceva dal greco come il primo,
ma scriveva anche storie come il secondo, così riunendo in sè i
pregi dell'uno e dell'altro. Avvicinatosi il momento, in cui doveva
mettere la corona sulla testa del morto amico, parlò dell'antichità
di questo uso e delle varie corone: _civica, muralis, obsidionalis,
castrensis, navalis_, continuando la descrizione per cinque grosse
pagine di fittissimo carattere. Affermò che il Bruni meritava la corona
come vero poeta, e subito s'abbandonò ad una serie di vuote frasi,
per spiegare che significhi la parola poeta, che sia la poesia, e
finalmente conchiudeva con una pomposa apostrofe, coronando «il felice
ed immortale sonno della maravigliosa stella dei Latini.»[99] Strana
è veramente questa gonfiezza di stile in coloro che passavano la vita
studiando, imitando i classici!
Il Manetti era nato a Firenze nel 1396, ed in età di 25 anni, morto
il padre, lasciò il banco per darsi allo studio con tanto ardore, che
dormiva solo cinque ore. Dalla sua casa aprì un uscio che dava nel
giardino del convento di Santo Spirito, ove andava a studiare, e per
nove anni non passò l'Arno.[100] Imparò il latino, il greco, l'ebraico;
aveva una grande facilità di scrivere, una memoria «eterna, immortale,»
secondo la solita espressione di Vespasiano. Ma il pregio di quest'uomo
era più che altro nel suo carattere morale. Pratico degli affari,
religioso, fermo, onestissimo, gli studi lo condussero a formarsi un
alto ideale della vita, al quale si mantenne sempre fedele nei molti
uffici che gli furono affidati. Vicario o Capitano della Repubblica in
più città lacerate dalle fazioni, riuscì a dare sentenze severissime,
a porre gravi tasse, senza mai essere accusato di parzialità. Ricusava
anche i donativi d'uso, dando invece del suo a chi ne abbisognava,
portando la concordia e la pace per tutto. Le ore d'ozio passava
scrivendo la vita di Socrate e di Seneca, _De dignitate et excellentia
hominis_, la storia delle città in cui si trovava. Ma il suo caval
di battaglia, come erudito, furono le orazioni, che fece nelle molte
ambascerìe, cui venne inviato appunto per la grandissima fama d'oratore
che s'era guadagnata. A Roma, a Napoli, a Genova, a Venezia venne
accolto come un principe; e la sua reputazione era tale, che solo a
lui riescì, con una lettera latina, di farsi rendere dal capitano
Piccinini otto cavalli che i soldati di lui gli avevano rubati.
Essendo andato a rallegrarsi in nome della repubblica fiorentina per
la elezione di Niccolò V, la gente accorse dalle città vicine, ed il
Papa lo ascoltò con tale attenzione, che un prelato accanto gli toccò
più volte il gomito, credendolo addormentato. «Finita l'orazione,
a tutti i Fiorentini fu tocca la mano, come se avessino acquistato
Pisa e il suo dominio;»[101] e i cardinali veneziani scrissero subito
al loro governo, che bisognava mandare a Roma un oratore simile al
Manetti, altrimenti ne andava il decoro della Serenissima. A Napoli il
re Alfonso sembrava «una statua sul trono,» quando parlò il Manetti.
Eppure questi era un oratore senza originalità: i suoi discorsi, d'uno
stile gonfio e falso, sono centoni di notizie diverse, florilegi di
frasi latine. Ma ciò appunto era quello che piaceva allora, perchè
dimostrava la sua vasta lettura, la sua grande memoria, la sua
prodigiosa facilità di cucire insieme periodi sonori. Scrisse molte
storie e biografie che, senza la vivacità dei cronisti antichi, non
hanno neppure i pregi dell'Aretino e del Bracciolini. I suoi trattati
filosofici sono vuote dissertazioni; le sue molte traduzioni dal
latino e dal greco non hanno la importanza di quelle dell'Aretino,
che lo aveva preceduto; le sue versioni del _Salterio_ dall'ebraico e
del _Nuovo Testamento_ dal greco mostrano che era poco contento della
Volgata; ma s'ingannarono coloro che vollero in ciò vedere un ardimento
religioso, di cui egli era incapace. Gli ultimi anni della sua vita
furono amareggiati dall'invidia che l'obbligò a lasciare Firenze; ma
trovò protezione a Roma ed a Napoli, dove morì, stipendiato da Alfonso
d'Aragona, il 26 ottobre 1459.
Sebbene la grande reputazione del Manetti sia oggi assai decaduta,
pure egli merita un posto d'onore nella storia del secolo XV, perchè
la sua vita dimostra chiaramente come non vi sia professione nè secolo
corrotto in modo da impedire ad un uomo di serbare una vera nobiltà
di animo. Quella stessa erudizione pagana, che lasciava dietro di sè
tante rovine morali in Italia, a lui valse invece per levare in alto
il proprio spirito. Ed invero è un grande errore, quantunque assai
comune, il condannare con una sentenza generale il carattere di tutti
gli eruditi. Noi abbiamo già dovuto ammirare Coluccio Salutati e Palla
Strozzi; molti altri potremmo citare anche fra i meno noti. Basta
leggere il biografo Vespasiano, di cui si può biasimare la troppa
ingenuità, ma non si può mettere in dubbio l'ammirazione sincera per la
virtù. Egli ci parla di messer Zembrino da Pistoia, che insegnava «non
solo lettere, ma costumi,» e, lasciato ogni altro ufficio, «per vivere
alla filosofia,» parco e morigerato, dava tutto il suo ai poveri,
cibandosi come un eremita; ed era «di un animo interissimo, libero,
senza dolo e fraude ignuna, come vogliono esser fatti gli uomini.»
Parlando di maestro Paolo fiorentino, dotto in greco, in latino e
nelle sette arti liberali, dato anche all'astrologia, aggiunge, che
non conobbe mai donna; dormiva vestito sopra un'asse, accanto allo
scrittoio; nutrivasi di erbe e di frutta; «solo era volto alla virtù,
e quivi aveva posto ogni sua speranza.... Quando non istudiava, andava
alla cura di qualche suo amico.»[102] Tutto ciò per altro non può far
dimenticare, che la maggior parte di essi erano bensì uomini dati con
ardore allo studio, ma pur troppo senza carattere. Il perenne esercizio
della mente in questioni assai spesso di pura forma; la vita vagabonda
di cortigiani costretti a guadagnarsi il pane con elogi venduti; le
continue gare; la mancanza d'ogni sentimento di fratellanza o di casta
nel lavoro e nell'ufficio comune che adempivano, e la demolizione
che cinicamente facevano di ogni cosa più sacra, non potevano certo
contribuire a nobilitare il loro carattere. Se si aggiunge poi, che
tutto ciò seguiva in un momento nel quale la libertà era già spenta,
la società decadeva, la religione veniva scandalosamente profanata dai
Papi stessi, allora solamente si capirà che profonda corruzione morale
dovesse ritrovarsi in Italia, quando questi eruditi erano i predicatori
della virtù, i distributori della gloria, i rappresentanti della
pubblica opinione. Ma ciò non deve impedirci di riconoscere gli onesti,
che si salvarono dal generale naufragio. Se non si tien conto di tutti
gli elementi di cultura e della diversa indole degli uomini che vissero
in quel secolo, si corre pericolo di non poter mai più intendere come
lo spirito italiano sapesse allora, fra tanti pericoli, trovare in sè
stesso la forza necessaria a promuovere uno straordinario progresso
intellettuale, evitando una totale rovina morale, a cui forse ogni
altro popolo in simili condizioni sarebbe andato soggetto.

3. — GLI ERUDITI IN ROMA.
Dopo Firenze, la città di maggiore importanza per le lettere è di
certo Roma. I Papi sin dai tempi del Petrarca cominciarono a sentire
il bisogno di far scrivere i loro Brevi da qualche dotto in latino.
E sotto Martino V gli eruditi della Curia già pretendevano nelle
pubbliche funzioni d'aver la precedenza sugli avvocati concistoriali,
di cui parlavano con disprezzo.[103] Fra di essi, come già vedemmo,
Poggio Bracciolini primeggiava, e con lui si trovavano altri di
minor fama, come Antonio Lusco, scrittore di epistole in versi e di
epigrammi, che aveva cavato dalle Orazioni di Cicerone le regole della
retorica, e composto così un formulario da servirsene per trattare in
linguaggio classico gli affari della Curia.[104] Gli eruditi però,
che a Firenze avevano una vera importanza sociale, ed una grande
indipendenza, a Roma invece erano in ufficî subordinati, nei quali
spesso guadagnavano bene, ma in sostanza potevano solo aspirare alla
condizione di cortigiani favoriti. Tuttavia ogni giorno crescevano di
numero, entrando nell'Abbreviatura, dove si trovarono sino a cento
scrittori di Brevi, o nella privata segreteria del Papa, dove si
portava l'abito ecclesiastico senza obbligo di prendere gli ordini
sacri. L'ufficio di abbreviatore era stabile, quello di segretario
durava generalmente quanto la vita del Papa; dava però molti incerti
guadagni, e la speranza di farsi strada coi possibili favori: ambedue
si comperavano a caro prezzo (chè a Roma tutto allora si vendeva), ma
il primo era preferito e si pagava di più.[105]
L'età dell'oro per gli eruditi in Roma fu quella di Niccolò V, il
quale, potendo, avrebbe portato nella Città Eterna tutti i codici del
mondo, tutti i dotti e tutti i monumenti di Firenze. Le economie che
fece, e i danari del giubileo nel 1450 gli dettero modo di mettersi
all'opera. La Curia e la Segreteria furono subito piene di eruditi
che il Papa, il quale conosceva poco o punto il greco, occupava a far
traduzioni, pagandole lautamente. Al Valla fu affidata la traduzione
di Tucidide, finita la quale ebbe 500 scudi e l'incarico di tradurre
Erodoto; al Bracciolini quella di Diodoro Siculo; a Guarino Veronese,
che era in Ferrara, quella di Strabone con la promessa di 500 scudi
per ogni parte dell'opera; altri ebbero altre commissioni. Solo per
una traduzione in versi latini d'Omero, Niccolò V non potè trovare
l'uomo adatto, quantunque avesse cercato per tutto, e fatte al Filelfo
le più larghe offerte. Anche gli esuli greci Teodoro Gaza, Giorgio
Trapezunzio, il Bessarione e molti altri accorsero a Roma, e parecchi
di essi ricevettero gli stessi ufficî e le medesime commissioni. La
più parte di questi erano però specie d'avventurieri irrequieti, che
avevano mutato religione per la speranza di guadagni. Il Bessarione,
convertito anch'egli, era invece uomo assai autorevole e sincero, dotto
e conoscitore del latino più de' suoi connazionali, cardinale, ricco,
gran raccoglitore di codici,[106] e la pretendeva inoltre a Mecenate.
Niccolò V lo mandò coll'ufficio di Legato a Bologna, probabilmente,
così almeno si disse, per non vederlo quasi suo emulo in Roma.
Tutta questa grande società di traduttori ed emigrati, riuniti dai
danari del Papa, si poteva dire un'accozzaglia d'elementi eterogenei.
Essa di certo valse assai a diffondere i risultati del lavoro iniziato
in Firenze, ma era incapace di opere veramente originali; fece molte
utili traduzioni, ma si può anche osservare, che se quelle del Bruni
a Firenze avevano aperto una via nuova agli studî, ed erano fatte da
un uomo che le aveva intraprese di sua iniziativa, quelle pagate da
Niccolò V erano invece lavori di commissione, eseguiti assai spesso
da dotti, il cui merito principale non era la cognizione del greco,
o da emigrati greci che conoscevano poco il latino. Ciò che di più
notevole ed originale produsse questa società romana di dotti, furono
opere come le _Facezie_ del Bracciolini, le _Invettive_ dello stesso
o l'_Antidoto_ del Valla, con le quali opere abbiam visto che basse
ingiurie quegli eruditi si scagliassero fra di loro. Il Papa avrebbe
potuto facilmente mettere un freno al poco edificante spettacolo,
ma sembrava invece compiacersene. Sotto il suo pontificato però, è
necessario notarlo, vennero da coloro che egli proteggeva pubblicate
anche opere di argomento grave, e di grandissima importanza; ma queste
appunto o non furono scritte in Roma, o non furono incoraggiate da lui.
Era assai naturale che chi aveva formato una così grande officina
di traduttori, fondasse ancora una grande biblioteca. Ed infatti, se
prima di lui Martino V aveva già cominciato a raccogliere codici; se
dopo di lui Sisto IV aprì al pubblico la famosa biblioteca Vaticana,
il vero fondatore di essa, come abbiamo altrove accennato, fu Niccolò
V. Enoch di Ascoli corse il mondo cercando codici nei conventi, con
Brevi che lo raccomandavano, perchè potesse copiare o comprare;[107]
Giovanni Tortello, autore d'un Manuale d'ortografia pei copisti,[108]
fu il bibliotecario di questo Papa che, secondo Vespasiano, raccolse
5000 volumi, li legò con grandissimo lusso, e spese per essi 40,000
scudi.[109] Oltre di che egli incominciò un grande restauro delle
strade, dei ponti, delle mura aureliane; pose le fondamenta d'un nuovo
Vaticano; fortificò il Campidoglio e Sant'Angelo; restaurò o costruì
di pianta un gran numero di chiese in Roma, Viterbo, Assisi, altrove,
e nuove fortezze in molte città dello Stato. Insomma coi consigli
dell'Alberti, coll'opera di Bernardo e Antonio Rosselli, Niccolò V
seppe trasformare Roma in una grande città monumentale, emulando non
solo i Medici, ma i più grandi imperatori antichi.[110]
Da tutto ciò si può facilmente comprendere come senza avere un
grande ingegno, egli riuscisse a far passare il suo nome ai posteri.
S'aggiunge ancora che il suo pontificato fu illustrato dalla presenza
di tre uomini d'ingegno assai singolare, due dei quali adoperati da
lui. E sebbene le loro opere più originali o non fossero, come dicemmo,
scritte in Roma, o appunto di esse il Papa non sembrasse curarsi
affatto, pure gliene venne indirettamente un onore che non meritava.
Il primo di essi fu Lorenzo Valla, che abbiamo veduto tra i segretarî
e traduttori, e che aveva per lo innanzi avuto una vita assai
avventurosa. Di famiglia piacentina, nato a Roma (1407), si vantava
romano. Fino a 24 anni restò in patria dove fu discepolo dell'Aurispa
e del Rinucci, ed ebbe anche soccorso di buoni consigli da Leonardo
Bruni.[111] Andò poi professore a Pavia, dove subito manifestò il
suo carattere irrequieto ed il suo ingegno originale. In quel gran
centro di studî legali attaccò fieramente la dottrina del celebre
Bartolo, a cagione dello stile barbaro e scolastico di lui. Ignorando,
egli diceva, il classico linguaggio dell'antichità, col quale la
giurisprudenza romana era e doveva essere scritta, ignorando anche la
storia, non poteva Bartolo intendere il vero significato delle leggi di
Roma, nè commentarle a dovere. Questa audacia parve un'eresia, e destò
tale rumore fra gli studenti di legge, che il povero Valla dovè fuggire
da Pavia, ed andare insegnando in altre città.[112]
Pure in mezzo a queste inquietudini, egli dètte alla luce la sua
prima opera, _De voluptate et vero bono_,[113] nella quale troviamo
subito un vero pensatore, e vediamo come dall'erudizione nascesse
allora lo spirito nuovo del Rinascimento. Ponendo a confronto le
dottrine degli stoici e degli epicurei, esaltava il trionfo dei sensi,
ribellandosi contro ogni mortificazione della carne. — Scopo della
vita, egli dice francamente, sono la felicità, il piacere, e noi
dobbiamo cercarli, perchè la natura ce lo impone. La virtù stessa, che
deriva dalla volontà e non dall'intelletto, è un mezzo per giungere
alla beatitudine, che è la felicità vera, sempre incompiuta su questa
terra. Noi non possiamo colla ragione spiegar tutto: i dommi della
religione restano spesso un mistero, e la filosofia cerca solo, se
può, di esporli razionalmente; non è possibile neppure conciliare il
libero arbitrio colla preveggenza divina. La scienza si fonda sulla
ragione, che è in armonia colla realtà delle cose; sulla natura, che
è Dio stesso. La verità si manifesta in una forma semplice, precisa,
vera; la logica e la retorica son quasi una sola e medesima cosa;
uno stile confuso e scorretto accusa verità mal comprese, una scienza
falsa o incompiuta. — E quindi egli attaccava fieramente la scolastica,
Aristotele, Boezio, facendo continuo appello dall'autorità al sano uso
della ragione, alla realtà, alla natura, che veniva da lui esaltata
in mille modi. Questo bisogno del reale, questa redenzione dei sensi
e della natura, formano il concetto dominante e l'anima di tutto il
libro; costituiscono l'indole propria degli scritti del Valla: è in
sostanza lo spirito stesso del Rinascimento, che viene con lui alla
luce. Non si tratta qui di un nuovo sistema filosofico; ma si vede che
la natura ed il buon senso trionfano; e l'indipendenza della ragione si
presenta a noi come una conseguenza logica dell'antichità risorta, come
una conquista ormai compiuta.
Quest'opera avrebbe ottenuto assai migliore successo, se il Valla,
spirito irrequieto e battagliero, che amava qualche volta il paradosso,
non si fosse lasciato trascinar troppo dalla sua penna. Pigliando la
difesa dei sensi, egli dichiara che la verginità è contro natura, e fa
dire al Panormita, che se le leggi di questa debbono essere rispettate,
le cortigiane sono più utili al genere umano che le monache. Esponendo
e difendendo la dottrina di Epicuro contro gli stoici, condannando
tutto ciò che significa disprezzo del mondo, si lascia andare a molte
espressioni contrarie allo spirito ed alla lettera delle dottrine
cattoliche, anzi cristiane. E quantunque dichiarasse di voler
rispettare l'autorità della Chiesa, i suoi attacchi contro il clero
erano fierissimi, e più pericolosi assai di quelli di Poggio e degli
altri eruditi, perchè questi si valevano del frizzo, il Valla, invece,
della critica. Per tutte queste ragioni si levò un gran rumore contro
di lui, e fu subito accusato d'eretico, d'epicureo e profanatore d'ogni
cosa sacra. Nè gli valse difendersi col dire che il vero piacere, la
vera felicità eran per lui la beatitudine divina; perchè gli venivan
gettate in viso le frasi più aggressive e audaci della sua opera,
ricordati i fatti più immorali della sua vita, che prestava il fianco a
molti attacchi.
Dopo aver insegnato in varie città, il Valla si trova dal 1435 al
'42 presso Alfonso d'Aragona, ne è fatto segretario nel '37, e lo
accompagnò nelle imprese militari, che poi portarono quel principe al
trono di Napoli.[114] Nel '44 egli era a Roma, ma dovette fuggirne,
ricoverandosi di nuovo a Napoli, per le persecuzioni minacciategli
a causa d'uno scritto da lui composto nel 1440: _De falso credita et
ementita Constantini donatione_.[115] Il Valla sosteneva in esso che
la donazione di Costantino non era stata mai fatta, non poteva farsi,
e che l'originale del preteso documento non fu mai visto. Esaminando
poi con la critica il linguaggio del documento, ne provava la falsità,
dimostrando che non aveva il carattere del latino del tempo. Dopo di
che attaccava fieramente la simonia del clero, osando dichiarare che
il Papa non aveva il diritto di governare nè il mondo, nè Roma; che
il dominio temporale aveva rovinato la Chiesa e privato della libertà
i Romani; minacciava poi d'incitarli anche a sollevarsi contro la
tirannìa d'Eugenio IV e contro i Papi in genere, che di pastori s'eran
fatti ladri e lupi. Quando pure, egli concludeva, la donazione fosse
vera, sarebbe nulla, perchè Costantino non poteva farla: in ogni caso i
delitti dei Papi l'avrebbero già annullata. E sperava, egli concludeva,
di vivere abbastanza per vederli costretti a tornare pastori col solo
potere spirituale. — Veramente, già durante il Concilio di Basilea, il
Cusano ed il Piccolomini avevano sostenuta la falsità della donazione,
con argomenti che si trovano anche nel Valla.[116] Ma a lui più che ad
altri si deve la demolizione del falso documento, il che potè fare con
la sua critica mordace, e con l'impeto della sua eloquenza ciceroniana.
Inoltre, come abbiam detto, egli non si fermava ad un esame letterario
e teoretico del documento, ma voleva addirittura abbattere il potere
temporale, minacciando di invitare le popolazioni ad insorgere. Non
si trattava più d'una semplice disputa teologica o storica; ma era la
prima volta che un erudito già celebre, dopo avere ampiamente esposta
la questione critica, la rendeva popolare e le dava una pratica
applicazione. Allora Alfonso d'Aragona trovavasi in guerra con Eugenio
IV, ed il Valla, pigliando le parti del suo protettore, poteva dare
libero corso alla sua eloquenza. Attaccato da preti e da frati, egli
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