Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I - 17

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Mentre però la pace apparente durava ancora, l'attenzione generale era
richiamata sui fatti che seguivano in Roma e nella Campagna. Alessandro
VI aveva profittato della cattiva fortuna dei Francesi, confiscando
i beni degli Orsini, i quali avevano disertato gli Aragonesi per
darsi a Carlo VIII, e dopo averlo abbandonato, quando ne videro
mutate le sorti, erano più tardi tornati nuovamente a lui. Virginio
Orsini cadde allora prigioniero nelle mani degli Spagnuoli venuti a
rimettere sul trono di Napoli Ferdinando II. Essi dovevano, secondo i
patti, ricondurlo al confine; ma a ciò si oppose fieramente il Papa,
minacciando la scomunica, perchè egli voleva lo sterminio di quella
famiglia. E così fu invece chiuso nel Castello dell'Uovo a Napoli, dove
morì. Le sue genti vennero intanto svaligiate negli Abruzzi, restando
prigionieri l'Alviano e Giovan Giordano Orsini.
Fu questo il momento scelto dal Papa per muovere guerra a que' suoi
eterni nemici, sempre numerosi e potenti. Le genti di lui, comandate
dal duca d'Urbino e da Fabrizio Colonna, uscirono in campo il 27
d'ottobre contro gli Orsini, che s'erano ritirati a Bracciano. Sebbene
i principali di essi fossero allora prigioni, e molte battiture crudeli
avesse d'anno in anno ricevute tutta la famiglia, pure erano sempre
in grado di misurarsi col nemico. E le loro speranze crebbero poi
moltissimo, quando Bartolommeo d'Alviano,[304] fuggito dal carcere,
giunse in Bracciano con alcuni de' suoi. Ben presto si venne fieramente
alle mani, combattendo con valore non solo l'Alviano, ma anche sua
moglie, sorella di Virginio Orsini. I primi scontri furono tutti a
danno dei papalini. Arrivarono poi di Francia Carlo Orsini e Vitellozzo
Vitelli, ma gli avversarî si ripresentarono anch'essi aumentati d'armi
e d'armati, onde si venne il 23 gennaio 1497 ad una vera battaglia, che
finì con una segnalata vittoria degli Orsini. Negli scontri antecedenti
il cardinale di Valenza era stato inseguìto fin sotto le mura di Roma;
ora poi il duca di Gandia fu ferito, il duca d'Urbino venne fatto
prigioniero, il cardinale Lunate fuggì con tanta fretta e spavento che
ne morì. I nemici dei Borgia esultarono; gli Orsini furono di nuovo
padroni della Campagna. Il Papa, fuori di sè per lo sdegno, faceva
nuovi apparecchi di guerra, e chiamava in aiuto lo stesso Consalvo di
Cordova, quando i Veneziani entrarono di mezzo, e la pace fu fatta.
Pagarono gli Orsini 50,000 ducati, ma tornarono padroni delle proprie
terre, e vennero liberati quelli fra di loro che erano prigioni nel
Napoletano, salvo Virginio, morto prima ancora che gli giungesse la
nuova della vittoria. Il duca d'Urbino, su cui avevano posto la taglia
di 40,000 ducati, fu da essi consegnato al Papa in conto della somma
che gli dovevano, ed il Papa non liberò il Duca, che era stato suo
proprio capitano, se prima non pagò a lui la taglia imposta dai nemici.
Questo figlio del celebre Federico, era senza prole, e i Borgia dopo
essersi fatti difendere da lui, lo spogliavano ora de' suoi danari, per
poi più iniquamente ancora spogliarlo dello Stato.
Nonostante la pace gravosa, gli Orsini avevano un potere immenso; il
Papa, odiato da tutti, non poteva più fidare in altri che ne' suoi
3000 Spagnuoli e nell'amicizia dimostratagli da Consalvo di Cordova,
che ripigliò per lui la fortezza di Ostia. Non potevano dunque i
Borgia pensare a nuove imprese di guerra, ed allora subito sembrò
che volessero adoperare le proprie armi per sterminarsi fra di loro,
con non credibile malvagità. La notte del 14 giugno 1497 il duca di
Gandia non tornò a casa. Il giorno di poi il suo staffiere fu trovato
ferito, senza che sapesse dir nulla del padrone; la mula che il Duca
aveva cavalcata, girava per le vie con una staffa sola, pendente dalla
sella; l'altra era stata tagliata. Tutto pareva un mistero. Aveva la
sera innanzi cenato con suo fratello il cardinale di Valenza presso
la madre Vannozza. Erano usciti insieme a cavallo, separandosi poco
dopo, il Duca seguìto da un uomo in maschera, che da molto tempo lo
accompagnava sempre, e dallo staffiere che lasciò in Piazza dei Giudei.
Null'altro si potè sapere. In sulle prime il Santo Padre rise, credendo
che suo figlio si fosse nascosto con qualche donna.[305] Non vedendolo
però tornare a casa la seconda notte, fu preso da uno spavento e da
un'agitazione grandissima. A un tratto, senza saper come, si sparse in
Città la voce, che il Duca era stato gettato nel Tevere. Interrogato
uno degli Schiavoni, che facevano a Ripetta commercio di carbone,
rispose come, dormendo in barca la notte del 14, aveva visto arrivare
un cavaliere con un cadavere in groppa, accompagnato da due pedoni,
e gettato nel fiume il cadavere, erano tutti scomparsi. Interrogato
perchè non ne avesse parlato prima, rispose, che di continuo aveva
visto la notte, in quel medesimo luogo, seguir centinaia di simili
fatti, senza che mai vi si facesse caso.[306] Un gran numero di
marinari fu mandato a cercar nel fiume, e pescarono il figlio del Papa
ancora con gli stivali, sproni e mantello. Aveva le mani legate; nove
ferite alla testa, alle braccia, al corpo, una delle quali mortale alla
gola; trenta ducati nella borsa,[307] segno evidente che non lo avevano
ucciso per derubarlo.[308] Il cadavere fu solennemente sepolto in Santa
Maria del Popolo. I più erano contenti dell'accaduto; gli Spagnuoli
bestemmiavano e piangevano; il Papa, quando fu certo che suo figlio era
stato a Ripetta gettato nel Tevere come la spazzatura, s'abbandonò ad
un profondo dolore, di cui nessuno lo credeva capace.[309] Si chiuse
nel Castel Sant'Angelo, inseguìto, dicevano molti, dallo spirito
del Duca, e pianse. Non volle prendere cibo per più giorni, e le sue
grida si sentivano di lontano. Il 19 giugno tenne un concistoro, in
cui disse, che non mai aveva provato così grande dolore: «Se avessimo
sette papati, li daremmo tutti per aver la vita del Duca.»[310] Mostrò
un pentimento, che parve sincero, della sua vita passata, e annunziò
a tutti i potentati, che aveva affidato la riforma della Chiesa a
sei cardinali: ad altro ormai non voleva più pensare. Tutti questi
proponimenti cristiani andarono però subito in fumo.
Chi era l'autore dell'assassinio, da quali ragioni era stato mosso?
Si sospettò degli Orsini;[311] si sospettò del cardinale Ascanio
Sforza, che aveva recentemente avuta qualche contesa col Duca, e
questi sospetti furon tali, che il cardinale, anche dopo le esplicite
dichiarazioni del Papa, di non aver mai prestato alcuna fede a simili
dicerìe, non si presentò a lui senza essere accompagnato da amici
sicuri e con armi nascoste.[312] Si fecero mille ricerche, che poi a
un tratto vennero sospese,[313] e corse la voce da tutti creduta, che
l'assassino del Duca era stato suo fratello il cardinal Cesare Borgia.
«E certamente,» scriveva l'ambasciatore fiorentino, sin dal principio,
«chi ha governato la cosa ha avuto e cervello e buono coraggio, et in
ogni modo si crede sia stato gran maestro.»[314] A poco a poco i dubbi
non caddero più sull'autore dell'assassinio; ma sulle ragioni che aveva
avute, per giungere a tale misfatto.
Si parlò di gelosia tra il Cardinale e il Duca per la cognata
donna Sancia, moglie di don Giuffrè, la quale menava una vita assai
scandolosa. Si disse di peggio ancora, osandosi pubblicamente parlare
di gelosia tra i due fratelli, che si disputavano col padre la sorella
Lucrezia.[315] E queste voci orrende venivano registrate e credute da
storici gravissimi, ricordate da poeti illustri. Pure, sebbene tutto
ciò si ripetesse pubblicamente da ognuno, e tutti chiamassero autore
dell'assassinio Cesare Borgia, questi allora appunto divenne l'uomo più
potente in Roma e più temuto, anche dal Papa, che pareva subisse come
il fascino misterioso del proprio figlio. Questi s'era omai deciso a
lasciar la vita ecclesiastica, e già si parlava di fare in sua vece
cardinale il fratello don Giuffrè, separandolo dalla moglie, la quale
avrebbe sposato Cesare, appena fosse tornato laico.[316]
Alessandro VI continuava intanto le sue tresche con la Giulia Bella
e con alcune Spagnuole. Egli aveva ancora, secondo la pubblica voce,
avuto un figlio da una Romana, il cui marito si vendicò uccidendone il
padre, che l'aveva prostituita al Sommo Pontefice.[317] La Lucrezia,
che nel giugno 1497, quando cioè il duca di Gandia veniva assassinato
dal fratello, trovavasi confinata in un convento, senza che se ne
sapesse la ragione, fu per volontà del padre separata nel decembre dal
marito Giovanni Sforza, che venne a tal fine dichiarato impotente.[318]
Nel marzo 1498, secondo notizie riferite anche da ambasciatori, essa
partoriva un figlio illegittimo, intorno al quale si avvolse un gran
mistero. Da un lato nessuno più parla di lui, da un altro comparisce
alcuni anni dopo un Giovanni Borgia, che per la sua età dovè esser
nato appunto verso il 1498.[319] Il Papa lo legittimò prima con un
Breve del 1º settembre 1501, come figlio naturale di Cesare, dicendolo
di tre anni circa;[320] e con un secondo Breve, in data dello stesso
giorno, lo riconobbe invece come suo proprio figlio, dichiarando però
che doveva, nonostante,[321] sussistere la precedente legittimazione,
la quale in sostanza fu fatta, perchè il misterioso fanciullo
potesse legalmente ereditare. Tutti i documenti che lo risguardano,
sono nell'archivio privato di Lucrezia, che fu portato a Modena. E
presso di lei abbiamo notizie che si trovava una volta in Ferrara lo
stesso Giovanni, di cui questo solo possiam dire, che la sua nascita
misteriosa è quella certamente che dette origine alle sinistre voci che
correvano intorno alle relazioni del Papa con la propria figlia. Queste
voci vennero propagate dallo Sforza marito di lei, il quale a Milano
disse chiaro, che questa era la ragione, per cui il Papa lo aveva
voluto dividere dalla propria moglie.[322]
Nel luglio 1497 Cesare Borgia andò a Napoli per incoronare re Federico,
e per chiedere danari, favori, feudi, con tale insistenza, che
l'ambasciatore fiorentino scriveva: «Non sarebbe da maravigliarsi se,
per liberarsi da tante angherìe, il povero Re si gettasse disperato al
Turco.»[323] Il 4 settembre era di ritorno in Roma, dove fu notato che
baciò il Papa senza che l'uno all'altro dicesse verbo. Cesare allora
parlava poco e faceva paura a tutti.[324] A lui occorrevano danari per
supplire alle entrate che perdeva lasciando il cappello cardinalizio,
e per attuare i suoi nuovi e vasti disegni. Il Papa, che in tutto lo
secondava, si diede perciò, senza scrupoli, a cercar nuove vittime.
Il segretario Florido fu accusato come autore di falsi Brevi, e subito
venne saccheggiata la sua casa, e si portarono in Vaticano i danari, i
tappeti e le argenterie che v'erano. L'infelice, gettato in un carcere
perpetuo, vi restò solo con pane, acqua ed una lucerna. Il Papa di
tanto in tanto vi mandava qualche prelato, perchè, giocando con lui a
scacchi, s'adoperasse a cavarne confessioni, che déssero modo di porre
le mani addosso ad altri, fino a che nel luglio 1498 quel disgraziato
cessò di vivere.[325]
Nel medesimo tempo si trattava col re di Napoli per sposare la figlia
di lui, Carlotta, con Cesare ancora cardinale. Ed il Re, disperato
di tante vessazioni, dopo aver dichiarato di voler piuttosto perdere
il regno che dare la sua figlia leggittima ad un «prete bastardo
di prete,»[326] dovette nondimeno, per salvarsi dalle gravi minacce
del Papa, quando già correvano le voci, di cui più sopra parlammo,
consentire invece al matrimonio di Lucrezia Borgia con don Alfonso
duca di Bisceglie,[327] giovane di appena 17 anni, figlio naturale di
Alfonso II. Le nozze furono celebrate il 20 giugno 1498, «et il Papa,»
scriveva l'ambasciatore veneziano, «stete fino a zonzo (_giorno_) alla
festa, _adeo_ fece cosse da zovene.»[328]
Il 13 agosto 1498 finalmente Cesare dichiarò in concistoro, che
aveva accettato il cappello per far piacere al Papa; ma che la vita
ecclesiastica non era per lui, e voleva ormai lasciarla. I cardinali
consentirono, Alessandro VI soggiunse cinicamente, che dava il proprio
assenso pel bene dell'anima di Cesare, _pro salute animae suae_;[329] e
questi, spogliato l'abito, venne subito inviato in Francia, dove portò
una Bolla di divorzio a Luigi XII, che voleva separarsi dalla moglie, e
sposare la vedova di Carlo VIII, la quale recava in dote la Brettagna.
Il Re aveva già promesso a Cesare il ducato di Valentinois ed alcuni
soldati, che con la bandiera di Francia dovevano aiutarlo grandemente
nell'impresa di Romagna. Per trovare le molte migliaia di scudi
necessarie a questo viaggio, che doveva superare in splendore ogni
immaginazione, furono venduti ufficî, vennero accusati come Marrani
e poi assoluti per danaro trecento individui. Il maestro di casa del
Papa, col medesimo pretesto, venne messo in carcere, portandogli via
da 20,000 ducati, che aveva in casa e nelle banche.[330] Il 1º di
ottobre 1498 Cesare partì per la Francia, con la Bolla del divorzio,
con un cappello cardinalizio per monsignor d'Amboise, ed una lettera
con cui il Papa diceva al Re: «destinamus Maiestati tuae _cor nostrum_,
videlicet dilectum _filium_ Ducem Valentinensem, quo nihil carius
habemus.»[331] Lo splendore del viaggio fece davvero sbalordire i
Francesi; l'abito del Duca Valentino, ormai è questo il suo nome,
era tempestato di gioie, ed egli gettava danaro per le vie. Anche
adesso però fallirono i nuovi tentativi da lui fatti per ottenere la
mano di Carlotta d'Aragona, che allora trovavasi in Francia. Invano
il cardinale di San Pietro in Vincoli, altra volta nemico del Papa,
s'adoperò a tutt'uomo.[332] Il Duca la desiderava con ardore, per la
speranza di potersene un giorno valere a impadronirsi del regno di
Napoli; ma quella principessa aveva per lui un vero orrore, e trovavasi
in ciò d'accordo col proprio padre.
Così Cesare, avuto il ducato di Valentinois e cento lance francesi,
si dovè contentare di sposare Carlotta, sorella di Giovanni d'Albrét,
re di Navarra, e parente di Luigi XII. Questi prometteva al Duca
nuovi aiuti, quando la Francia avesse conquistato Milano, al qual
fine metteva insieme un esercito, e s'era già alleato con Venezia (15
aprile 1499), aderendovi anche il Papa, che secondo il suo solito
aveva mutato bandiera. Da ciò era seguìto un alterco vivissimo fra
lui e l'ambasciatore spagnuolo. Questi minacciò di provargli che egli
non era vero Papa, e l'altro di rimando minacciò di farlo gettare
nel Tevere, e dimostrare che la regina Isabella non era poi «quella
casta donna si predicava»[333] Ne restò tuttavia il Santo Padre assai
sgomento, perchè, sebbene si fosse dato alla Francia, aveva pur sempre
molte speranze sul regno di Napoli, e queste riuscivano vane senza
l'aiuto di Spagna. Egli, è ben vero, diceva e ripeteva ora di voler
fare Italia «tutta de uno pezzo;»[334] ma gli ambasciatori veneti, che
lo conoscevano a fondo, avvertivano sempre che quest'uomo simulatore e
dissimulatore, a 69 anni floridissimo di salute, e abbandonato sempre
ai piaceri, mutava ogni giorno politica, e cercava garbugli solo per
dare il Reame al figlio: intanto aveva ridotto Roma ad una «sentina di
tutto il mondo.»[335]
Il 6 di ottobre 1499 Luigi XII entrava in Milano, alla testa del
suo esercito comandato da G. G. Trivulzio, e Lodovico il Moro, che
s'era apparecchiato alla difesa, vedendo ora che aveva contro di sè
Francesi e Veneziani, e che i suoi lo abbandonavano, se ne fuggì invece
a cercare aiuti in Germania. Gli ambasciatori italiani accorrevano
intanto a Milano per ossequiare il Re, che ricevette fra gli altri
anche il Valentino, venuto in persona con piccolo seguito e con la
bandiera di Francia. Assicuratosi della buona amicizia del vittorioso
monarca, avuta promessa di nuovi aiuti per condurre innanzi le sue
sanguinose imprese, e fatto a Milano un prestito di 45,000 ducati, egli
se ne tornò a Roma, dove il Papa raccoglieva danari allo stesso fine,
valendosi d'ogni mezzo, onesto e disonesto, anche di nuovi assassinii.
Il protonotario Caetani messo in prigione vi morì, e i suoi beni
furono confiscati; il suo nipote Bernardino venne ucciso dai birri
del Valentino presso Sermoneta, feudo di cui subito s'impossessarono
i Borgia.[336] Intanto il Valentino venne nominato gonfaloniere della
Chiesa, ed essendo già stata pubblicata la sentenza che dichiarava
decaduti i signori della Romagna e delle Marche, col pretesto che non
avevano pagato al Papa la somma dovuta, se ne partì per Imola, dove
aveva inviato le sue genti, fra le quali un migliaio di Svizzeri,
sotto il comando del Baglì di Dijon: era in tutto un esercito di
circa 8000 uomini. Ai primi di dicembre cadde Imola e poi Forlì, dove
Caterina Sforza, che vi comandava, si difese con gran valore nella
fortezza fino al 12 gennaio 1500, cedendo solo ad un assalto dei
Francesi, i quali, ammirati del coraggio virile di lei, la salvarono
dai soldati del Valentino e dall'ira del Papa, che voleva fosse subito
ammazzata, perchè, secondo lui, casa Sforzesca era «semenza di la serpe
indiavolata.»[337] In questo modo potè invece finire i suoi giorni a
Firenze, ritirata nelle Murate.
Dopo di Forlì, il Valentino prese anche Cesena; ma si dovette
allora fermare, perchè, tornato in Francia Luigi XII, il generale
Trivulzio scontentò per modo Milano e la Lombardia, di cui era restato
governatore, che il Moro, sostenuto da un esercito di Svizzeri,
secondato dalle popolazioni, potè ripigliare il suo Stato, entrando
vittorioso nella capitale il giorno 5 di febbraio. Questo fece sì
che i Francesi del Duca Valentino furono in fretta richiamati, per
raggiungere i compagni già in ritirata, ed egli dovette sospendere la
guerra. Pensò allora d'andare a Roma, dove il Giubileo già incominciato
portava molti danari, che venivano raccolti con l'usata avidità per i
soliti fini. Vestito di velluto nero, con una catena d'oro al collo,
severo e tragico nell'aspetto, alla testa del proprio esercito,
fece il suo solenne ingresso trionfale nella Città Eterna, dove fu
ricevuto dai cardinali a capo scoperto. Si gettò poi ai piedi del
Papa, che, dopo scambiate alcune parole in spagnuolo, _lacrimavit
et rixit a un trato_.[338] E subito, ricorrendo allora il Carnevale,
s'apparecchiarono grandi feste. Una figura rappresentante _Victoria
Iulii Caesaris_, condotta sopra un carro a bella posta costruito, fece
il giro della Piazza Navona, dove _servatae sunt fatuitates Romanorum,
more solito_.[339] E le feste crebbero assai più, quando arrivò la
notizia che Luigi XII era tornato in Italia alla testa d'un nuovo
esercito; che il Moro, abbandonato e tradito da' suoi Svizzeri, era il
10 aprile caduto in mano dei Francesi col fratello Ascanio. Questi fu
messo nella torre di Bourges nel Berry, donde più tardi venne liberato;
il Moro stette invece dieci anni prigione a Loches, dove finì i suoi
giorni.
Al primo annunzio di sì liete novelle, il Duca Valentino, sicuro di
poter ripigliare ormai subito la sanguinosa impresa di Romagna, non
sapeva più frenare la sua gioia. Presso la chiesa di San Pietro fu dato
un solenne torneo, in cui egli ammazzò sei tori selvaggi, «combattendo
a cavallo, alla giannetta; et a uno tagliò la testa alla prima botta,
cosa che a tutta Roma parve grande.»[340] Continuava intanto l'arrivo
dei pellegrini del Giubileo; crescevano le cerimonie religiose, e con
esse le indulgenze e le rendite. Ogni mattina si trovavano per le vie
cadaveri di gente ammazzata la notte, fra cui spesso erano prelati.
Un giorno (27 maggio) se ne videro diciotto impiccati sul Ponte
Sant'Angelo. Erano ladri condannati dal Papa, tra i quali fu anche
il medico dell'ospedale di San Giovanni in Laterano, che la mattina
di buon'ora rubava ed ammazzava.[341] Il confessore dei malati quando
sapeva di qualcuno che avesse danari, lo rivelava subito a lui, _qui
dabat ei recipe_, e poi dividevano fra loro la preda.[342] L'esempio
di severa e pronta giustizia fu ora dato, perchè 13 degl'impiccati
avevano rubato l'ambasciatore della Francia, che il Papa voleva tenersi
amica.[343]
Nel luglio di quel medesimo anno seguiva un'altra di quelle tragedie
che erano proprie dei Borgia. Il duca di Bisceglie, marito della
Lucrezia, s'era avvisto che, per l'amicizia coi Francesi, l'animo
del Papa e del Valentino s'era subito alienato da lui, che per ciò
non si sentiva più sicuro in Roma. Già nel 1499 aveva veduto che sua
sorella donna Sancia era stata esiliata, minacciando il Santo Padre
di cacciarla a forza di casa, se non se ne andava.[344] Da questi e da
altri segni restò sempre più insospettito, e però, dopo avere esitato
alquanto, fuggì a un tratto presso i Colonna in Gennazzano, per andar
poi nel Napoletano, lasciando la Lucrezia incinta, che piangeva o
fingeva di piangere. Ma nell'agosto egli si lasciò persuadere, e venne
a Spoleto, dove ella era stata nominata reggente della città. Di là
tornarono insieme a Roma.[345] La sera del 15 luglio 1500, il duca di
Bisceglie venne sulle scale di San Pietro improvvisamente assalito da
sicarî che lo ferirono al capo, alle braccia, e poi fuggirono. Egli
corse in Vaticano, e raccontò come e da chi era stato ferito, al Papa,
che al solito si trovava con la Lucrezia, la quale prima svenne, e poi
condusse il marito in una camera del Vaticano, per curarlo. Si mandò a
Napoli per medici, temendosi a Roma di veleno. Il malato era assistito
dalla moglie e dalla sorella donna Sancia, che gli cucinavano «in una
pignatella,» non fidandosi d'alcuno. Ma il Valentino disse: «quello che
non s'è fatto a desinare, si farà a cena;» e tenne la parola. Vedendo
infatti che quel disgraziato non voleva morire, quantunque fosse pur
grave assai la ferita alla testa, entrò una sera improvvisamente in
camera, e mandate via le due donne, che senza resistenza obbedirono,
lo fece nel letto strangolare da don Micheletto.[346] Nè questa volta
si fece gran mistero dell'accaduto. Il Papa stesso, dopo il ferimento,
disse tranquillamente all'ambasciatore veneto, Paolo Cappello: «il
Duca (Valentino) dice di non lo aver ferito; ma se l'avesse ferito, lo
meriterìa.» Il Valentino invece scusavasi solamente dicendo che il duca
di Bisceglie voleva ammazzar lui.
Egli aveva allora ventisette anni; era nel fiore della salute e della
forza; si sentiva padrone di Roma e del Papa stesso, il quale lo temeva
a segno da non osar quasi di parlare il giorno in cui vide il suo
fidato cameriere Pietro Caldes, o Pierotto, scannato fra le proprie
braccia dal Duca, e sentì il sangue di lui schizzargli sulla faccia.
Alessandro VI, del resto, non si turbava punto di tutto ciò, e non
perdeva i sonni. «Ha anni settanta,» scriveva l'ambasciatore Cappello,
«ogni dì si ringiovanisce, i suoi pensieri non passano mai una notte, è
di natura allegra, e fa quello che gli torna utile.»[347]
Il 28 settembre, per far danari, nominò a un tratto dodici cardinali,
fra cui sei Spagnuoli, il che gli fruttò 120,000 ducati, che andarono
subito al Valentino. Il quale con essi, con le entrate del Giubileo,
e cogli aiuti francesi, uniti alle sue genti capitanate dagli Orsini,
Savelli, Baglioni e Vitelli, s'impadronì di Pesaro, cacciandone
(ottobre 1500) il già suo cognato Giovanni Sforza; quindi di Rimini,
cacciandone Pandolfo Malatesta; e finalmente si fermò a Faenza,
dove Astorre Manfredi di 16 anni era tanto amato dal suo popolo,
che fu difeso valorosamente fino a che la fame non costrinse tutti
a capitolare il 25 aprile 1501. Cesare Borgia dovette nondimeno, per
aver la città, giurare di risparmiar gli abitanti e salvare la vita
al Manfredi; ma invece poi, violando ogni fede, lo chiuse in Castel
Sant'Angelo, e dopo averlo sottoposto ai più osceni oltraggi, lo
fece strangolare e gettar nel Tevere il 9 giugno 1502.[348] Dopo di
ciò venne dal Papa nominato duca di Romagna. Imola, Faenza, Forlì,
Rimini, Pesaro e Fano facevano già parte del suo Stato, di cui Bologna
doveva più tardi esser la capitale, e che doveva poi allargarsi
verso Sinigaglia ed Urbino, sperandosi di potervi annettere anche la
Toscana. Ma per ora la Francia mise il suo veto al procedere verso
Bologna o verso la Toscana, che a loro volta s'armavano per difendersi.
Intanto seguivano segretissimi accordi tra la Spagna e la Francia,
per dividersi fra loro il regno di Napoli: il Papa vi prendeva parte,
sempre con l'usata, avida speranza di potere anche colà allargare la
potenza del figlio.

4. — IL SAVONAROLA E LA REPUBBLICA FIORENTINA.
Mentre queste cose avvenivano in Roma, i Borgia avevano ordito un'altra
tragedia in Firenze, dove erano seguìti mutamenti gravissimi, dei quali
dobbiamo ora parlare.[349]
Sin dalla venuta di Carlo VIII, un frate domenicano, Priore del
convento di San Marco, uomo singolarissimo, era divenuto quasi padrone
della Città, ed in essa nulla più si faceva senza prima avere dal
pergamo i suoi consigli. Nato a Ferrara, venuto a Firenze sotto i
Medici, aveva predicato contro il mal costume, contro la corruzione
della Chiesa, attaccando più o meno copertamente papa Alessandro,
e dimostrandosi fautore di libertà. In molte cose egli non pareva e
non era uomo del suo tempo. Privo d'una vera cultura classica, odiava
quel paganesimo letterario che allora invadeva tutto. Educato colla
Bibbia, i Santi Padri e la filosofia scolastica, era animato da un
vivissimo entusiasmo religioso. Dotto d'una dottrina allora poco
stimata, scriveva versi non molto eleganti, nè sempre corretti, ma
pieni d'ardore cristiano; aveva una grande indipendenza di carattere
e d'ingegno, nè mancava di accortezza e buon senso, sebbene assai
spesso parlasse come un uomo ispirato, perchè si credeva veramente
privilegiato del dono profetico, e mandato da Dio a correggere la
Chiesa, a salvare l'Italia. L'essere così diverso dagli altri, il
non avere le qualità e le doti che allora erano in tutti, mentre a
tutti mancavano quelle appunto che egli aveva, dava a questo Frate
un prodigioso ascendente non solo sulle moltitudini, ma ancora sugli
uomini più culti. Lorenzo de' Medici lo fece chiamare presso al suo
letto di morte, chiedendo assoluzione de' suoi peccati, assoluzione
che fu negata, per essere egli stato tiranno della sua patria. Angelo
Poliziano, Pico della Mirandola, seguaci di quella erudizione pagana
tanto condannata dal Savonarola, vollero avere sepoltura in San Marco,
vestiti dell'abito domenicano. Molti altri letterati, moltissimi
artisti pendevano estatici dalle labbra del Frate.
Trasportato dalla sua fantasia, ed ancora da un singolare
presentimento, che spesso sembrava fargli davvero leggere
nell'avvenire, non solo annunziava in genere futuri guai all'Italia;
ma, determinando, aveva profetato la venuta d'eserciti stranieri,
guidati da un nuovo Ciro. E la profezia parve miracolosamente avverarsi
nel 1494, con la discesa di Carlo VIII. E però il Frate divenne
addirittura il primo uomo di Firenze, la quale ricorreva a lui nei più
difficili momenti, per le più gravi faccende di Stato. Così, insieme
con Piero Capponi ed altri, egli fu mandato ambasciatore al Re, quando
Piero de' Medici aveva vilmente ceduto ogni cosa. Ed il Re, che s'era
mostrato assai burbero con tutti, divenne umile dinanzi a colui che
gli minacciava l'ira di Dio. Quando poi furono in Firenze firmati gli
accordi, e l'esercito alloggiato dentro le mura non si moveva, con
pericolo grandissimo della Città, solo il Savonarola osò presentarsi
a Carlo VIII, invitandolo severamente a partire, e fu obbedito. Non è
quindi da far maraviglia, se ponendosi allora mano alla formazione d'un
nuovo governo, tutti si rivolgessero al Frate, e nulla più si facesse
in Firenze senza prima sentir lui, che diè prova non solo di vero e
disinteressato amore del pubblico bene, ma anche di un senno politico
veramente singolare.
Il 2 dicembre la campana di Palazzo Vecchio chiamava a generale
Parlamento il popolo, che accorse ordinato e condotto dai Gonfalonieri
delle Compagnie. Fu subito data Balìa a venti Accoppiatori di nominare
i magistrati, e fare le necessarie proposte di riforma. Così in
breve si venne ad un nuovo ordinamento della Repubblica, col quale le
antiche istituzioni, dai Medici profondamente falsate o distrutte,
vennero richiamate in vita, modificandole però in molte parti. Il
Gonfaloniere cogli otto Priori, che costituivano la Signoria, da
rinnovarsi ogni due mesi, furono conservati; e così pure gli Otto,
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