Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I - 02

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a costituire un vero e proprio principato temporale, restando pur
capi della Chiesa universale, non potevano più pretendere al dominio
politico del mondo, e cercavano perciò divenire sovrani come gli altri.
In questo stato di cose il Comune, che aveva costituito la passata
grandezza d'Italia, si trovò in una condizione sostanzialmente nuova,
che fu troppo poco esaminata dagli storici.
Esso aveva ora ottenuto la tanto sospirata indipendenza, e non doveva
contare che sulle proprie forze; nelle sue guerre coi vicini non v'era
più da sperare o temere che s'interponesse un'autorità superiore.
Era quindi necessario estendere il proprio territorio, e rendersi
più forte, specialmente se, volgendo intorno lo sguardo, si osservava
che in tutta Europa s'andavano formando i grandi Stati e le monarchie
militari. Ma la costituzione politica del Comune era tale, che ogni
estensione del suo territorio faceva sorgere pericoli nuovi e così
gravi che ne mettevano a repentaglio l'esistenza. Poteva dirsi giunta
per esso un'ora funesta, nella quale ciò che più gli era necessario,
più lo minacciava. Il Comune medievale non conosceva il governo
rappresentativo, ma solo il governo diretto de' suoi liberi cittadini,
i quali era perciò necessario ridurre ad un numero assai ristretto,
se non si voleva cadere nell'anarchia. Il diritto di cittadinanza era
quindi un privilegio concesso solo ad alcuni di coloro che abitavano
dentro la cerchia delle mura. Firenze, che era la repubblica più
democratica dell'Italia, e che nel 1494 ebbe la sua più libera
costituzione, contava allora circa 90,000 abitanti, di cui solo 3200
erano veri e proprî cittadini.[7] Neppure i Ciompi, nel loro incomposto
tumulto, avevano preteso di dare la cittadinanza a tutti. E quanto al
contado, pareva già molto l'avere abolito la servitù; a nessuno sarebbe
mai venuto in mente di chiamarlo a parte del governo.
Questo stato di cose trovava la sua sanzione non solo negli statuti,
nelle leggi e nelle consuetudini esistenti, ma nelle convinzioni
radicate e profonde degli uomini più illustri. Dante Alighieri, che
aveva preso non piccola parte alla legge tanto democratica degli
_Ordinamenti di Giustizia_, al tempo di Giano della Bella, rimpiange
nel suo poema i tempi nei quali il territorio del Comune si stendeva
solo fino a pochi passi oltre le mura, e gli abitanti delle vicine
terre di Campi, Figline e Signa non s'erano venuti a mescolare con
quelli di Firenze; perchè
Sempre la confusion delle persone
Principio fu del mal della Cittade.[8]
Ed il Petrarca, che sognava anch'egli l'antico Impero, ed era tanto
entusiasta di Cola di Rienzo, raccomandava che, nel riordinare la
repubblica romana, se ne affidasse il governo ai soli cittadini,
escludendone come stranieri gli abitanti del Lazio, ed anche gli Orsini
ed i Colonna, perchè, sebbene romani, discendevano, secondo lui, da
stranieri.[9]
Quando adunque il Comune ingrandiva il suo territorio, sottomettendo un
altro Comune, questo, anche se governato con mitezza, si trovava d'un
tratto escluso da ogni vita politica, ed i suoi principali cittadini
se ne andavano esuli e raminghi per il mondo. Vedere un Pisano, un
Pistoiese nei Consigli della repubblica fiorentina, sarebbe stato
allora come il vedere oggi un cittadino di Parigi o Berlino sedere
fra i deputati del Parlamento italiano. Si preferiva quindi cadere
sotto una monarchia, perchè in essa almeno tutti i sudditi erano nelle
medesime condizioni, ed agli ufficî pubblici poteva ogni abitante, di
qualunque provincia, partecipare. Il Guicciardini infatti osservava al
Machiavelli, quando questi immaginava una grande repubblica italiana,
che ciò sarebbe stato tutto a vantaggio d'una sola città, ed a rovina
delle altre; perchè la repubblica non concede il benefizio della
sua libertà «a altri che a' suoi cittadini proprî;» la monarchia
invece «è più comune a tutti.»[10] E non v'era spavento che potesse
uguagliare quello provato dalle repubbliche italiane, quando Venezia,
che pur governava i sudditi suoi con maggiore libertà, volgendosi
alla terraferma, sembrò aspirare al dominio della Penisola. Avrebbero
preferito non solo la monarchia, ma ancora lo straniero, che poteva
lasciar qualche locale indipendenza, cosa allora non sperabile in
Italia da una repubblica. Cosimo dei Medici, quando aiutò Francesco
Sforza a divenir signore di Milano, salvò, secondo il Guicciardini,
la libertà di tutta Italia, che sarebbe altrimenti caduta sotto
Venezia.[11] E Niccolò Machiavelli, che pur sospirava così spesso
la repubblica, in tutte le sue lettere d'ufficio, in tutte le sue
legazioni, parla sempre di Venezia come del maggior nemico che avesse
la libertà d'Italia.
Fra queste condizioni e queste convinzioni, era impossibile sperare che
il Comune potesse, formando una forte repubblica, riunire l'Italia. Si
poteva sperare in una confederazione o in una monarchia; ma la prima
supponeva già un governo centrale diverso da quello dei Comuni, nel
quale la città non fosse più lo Stato, e aveva contro di sè i papi
ed i re di Napoli. La monarchia, invece, trovava contro di sè, da un
lato l'antico amore di libertà, che aveva reso gloriosa l'Italia,
e da un altro i papi, che, messi nel centro della Penisola, troppo
deboli per poterla riunire, abbastanza forti per impedire che altri
la riunisse, di tanto in tanto chiamavano gli stranieri, i quali
venivano a sovvertire ogni cosa. Per tutte queste ragioni il Comune,
che aveva formato l'antica forza e grandezza d'Italia, sopravvisse come
a sè stesso, in presenza dei nuovi problemi sociali, che sorgevano ad
ogni piè sospinto; fra i mille pericoli, che scaturivano come dal suo
proprio seno.
Esso aveva proclamato la libertà e l'uguaglianza; era quindi naturale
che il basso popolo, il quale trovavasi escluso dal governo, dopo
avere coi ricchi mercanti combattuto e vinto il feudalismo, non
potesse rimanere contento. Nè gli abitanti del contado, che pure
erano colle armi chiamati a difendere la patria, tolleravano più di
buon animo d'essere esclusi da ogni ufficio pubblico, da ogni diritto
di cittadinanza. E quando il territorio si estendeva, e nuove città
venivano conquistate, la moltitudine degli oppressi cresceva, e le
passioni s'infiammavano, perchè la sproporzione fra il piccolo numero
dei governanti e quello sempre maggiore dei governati aumentava, ed
ogni equilibrio riusciva affatto impossibile. Un abile tiranno, che
fosse sorto allora, avrebbe trovato in suo appoggio la moltitudine
infinita degli scontenti, ai quali sarebbe apparso come un liberatore o
almeno come un vendicatore.
Se poi dalle condizioni politiche volgiamo lo sguardo alle sociali,
osserveremo una trasformazione non meno grave, nè meno pericolosa. I
Comuni del Medio Evo, chi li guarda da lontano, appariscono già come
un piccolo Stato, nel senso moderno della parola; ma erano invece
un agglomerato di mille associazioni diverse: Arti maggiori ed Arti
minori, Società delle torri, Consorterie, Leghe, ordinate tutte come
altrettante repubbliche, con le loro assemblee, statuti, tribunali,
ambasciatori. Esse erano qualche volta più forti dello stesso governo
centrale, di cui facevano le veci, quando, fra le continue rivoluzioni,
questo si trovava come momentaneamente soppresso, il che di tanto
in tanto avveniva. Si direbbe quasi che la forza del Comune fosse
tutta nelle associazioni, che lo dividevano e lo governavano. I
cittadini erano ad esse così tenacemente legati, che spesso sembravano
combattere a difesa della repubblica, solo perchè tutelava l'esistenza
dell'associazione cui essi appartenevano, ed impediva che venisse
oppressa dalle altre.
Il Medio Evo è stato perciò a giusta ragione chiamato un'età di
consorterie e di caste. Il numero e la varietà grande di esse
produssero una varietà infinita di caratteri e di passioni, ignota al
mondo antico; ma l'indipendenza dell'uomo moderno non era anche nata,
perchè l'individuo restava come assorbito nella casta, in cui e per
cui viveva. Infatti, per lunghissimo tempo la storia italiana ci tace
quasi del tutto i nomi dei politici, dei soldati, degli artisti e dei
poeti, che fondarono e difesero i Comuni; crearono le istituzioni, le
lettere, le arti. Sono Guelfi e Ghibellini, Arti maggiori e minori,
poeti vaganti, maestri comacini, sempre associazioni o partiti, non mai
individui. Le stesse grandi figure dei papi e degl'imperatori ricevono
la loro importanza, meno dal proprio carattere personale, che dal
sistema e dalla istituzione cui appartengono e che rappresentano.
Tutto ciò scomparisce rapidamente nel secolo XIV. La figura colossale
di Dante si stacca dal fondo medievale, in mezzo a cui vive ancora,
ed egli si vanta orgogliosamente d'essersi fatta parte per sè stesso.
I nomi dei poeti, dei pittori, dei capi di parte si moltiplicano
d'ora in ora, e i caratteri individuali si determinano, si disegnano
nettamente, e si separano dalla folla. Noi assistiamo ad una generale
trasformazione di tutta la società italiana, la quale, dopo avere
distrutto il feudalismo e proclamata l'uguaglianza, si trova obbligata
a decomporre le associazioni che l'avevano costituita. E ciò si
vede assai più chiaro che altrove in Firenze, dove gli _Ordinamenti
di Giustizia_ (1293) abbattono i nobili e li cacciano dal governo;
sopprimono alcune delle associazioni e rendono impossibili le
consorterie; pongono per la prima volta alla testa del Comune un
gonfaloniere.[12] La necessità di cominciare a costituire l'unità
dello Stato moderno scaturiva naturalmente dalla forma sempre più
democratica che aveva preso il Comune; questo era anzi il grande
problema che doveva risolvere l'Italia del secolo XV. Ma il periodo di
passaggio e di trasformazione era pieno di mille pericoli, perchè le
antiche istituzioni si decomponevano prima che le nuove sorgessero;
l'individuo, abbandonato a sè stesso, si trovava dominato solo
dall'interesse personale e dall'egoismo: la corruzione dei costumi
diveniva inevitabile.
La moralità del Medio Evo era fondata principalmente sugli stretti
vincoli della famiglia e della casta cui si apparteneva. Di questi
vincoli le leggi e le consuetudini erano state in mille modi gelose
custodi: mantenevano la eredità nelle famiglie; impedivano che i
matrimonî la portassero fuori del Comune; rendevano difficilissimi
quelli fra persone non solo di diverso Comune, ma di diverso partito
o consorteria. Di qui una grande comunanza d'interessi, le affezioni
tenaci e i forti sacrifizî nel seno della casta, le gelosie e spesso
gli odî, le vendette contro i vicini. A poco a poco tutto questo
scomparve per le riforme politiche, che spezzarono i vecchi legami,
per la cresciuta uguaglianza, pel continuo prevalere del diritto
romano imperiale, che rendeva la donna meno sottoposta alla tutela de'
suoi. E nel medesimo modo in cui il Comune s'era a un tratto trovato
abbandonato a sè stesso, per la cessata supremazia dell'Imperatore e
del Papa, il cittadino, sciolto da ogni vincolo, si trovò isolato e
costretto a fare assegnamento sulle sole sue forze. Esso quindi non
poteva più sentire l'antico interesse nel destino de' suoi vicini,
che non s'occupavano più di lui; il suo avvenire, il suo stato nel
mondo dipendeva unicamente dalle sue qualità individuali. Così si
vide, in un medesimo tempo, l'egoismo impadronirsi rapidamente degli
animi, e la personalità umana svolgersi sotto forme sempre più varie e
nuove. Non solo si moltiplicano ora i nomi degl'individui, e ambiziosi
capi di parte sorgono per tutto; ma le guerre intestine dei Comuni
sembrano mutarsi in guerre personali; le città si dividono secondo
i nomi dei più potenti e turbolenti; le famiglie stesse si scindono
e si lacerano, perchè gli uomini non sanno sottostare più a nessun
vincolo. I pregiudizi, le tradizioni, le virtù e i vizî del Medio Evo
scompariscono affatto, per dar luogo ad un'altra società, ad altri
uomini.
Chi osserva ora la doppia mutazione che han subita le nostre
repubbliche, s'accorge come da un lato, secondo che esse ingrandivano
il proprio territorio, divenivano internamente più deboli, e sentivano
sempre maggiore bisogno d'un governo centrale più forte e più uguale
verso tutti; e come da un altro lato, secondo che le consorterie si
scioglievano, aumentava il numero degli ambiziosi e degli audaci, i
quali non avevano altro scopo, che d'essere primi e soli a comandare.
Queste ambizioni, manifestandosi nel tempo appunto in cui il Comune
era portato naturalmente verso la forma monarchica, costituivano un
pericolo gravissimo; e così, come v'era stato un giorno nel quale si
videro in Italia sorgere per tutto i Comuni, era adesso giunta l'ora in
cui si vedevano per tutto sorgere i tiranni.
Il tiranno italiano però, con molti vizi, aveva una propria originalità
di carattere, una vera importanza storica. A lui non era necessario
discendere di nobile o potente famiglia, e neppure essere primogenito
della sua casa. Un mercante, un bastardo, un venturiero qualunque
potevano comandare un esercito, fare una rivoluzione, divenire
tiranni, se avevano l'audacia e l'arte necessarie a riuscire. Le
storie ci raccontano, a questo proposito, strane avventure, ed i
novellieri italiani, che sì fedelmente descrivono i costumi del
tempo, ridono spesso d'uomini da nulla, i quali si ponevano in mente
di farsi tiranni, come quel calzolaio che, invece di fare scarpe,
voleva, secondo narra il Sacchetti, «tor la terra a messer Ridolfo da
Camerino.»[13]
Il secolo XV fu giustamente chiamato il secolo degli avventurieri e
dei bastardi: Borso d'Este a Ferrara, Sigismondo Malatesta a Rimini,
Francesco Sforza a Milano, Ferdinando d'Aragona a Napoli, molti e molti
altri signori o principi erano bastardi. Nessuno di essi si sentiva
più legato da alcuna convenzione o tradizione; tutto dipendeva dalle
qualità personali di coloro che osavano tentare la fortuna, dagli
amici e aderenti che sapevano guadagnarsi. Costretti ad impadronirsi
del potere in mezzo a mille pericoli, contro mille emuli, si trovavano
come in uno stato di guerra continua, nel quale tutto era permesso:
nessuno scrupolo vietava la violenza, il tradimento ed il sangue. Il
male, per questi tiranni, non aveva altri limiti se non quelli imposti
dalla opportunità e dalla utilità personale; doveva essere un mezzo
adatto a conseguire il fine desiderato. Di là da questi confini era
non una colpa, ma una follìa indegna d'un uomo politico, perchè non
portava alcun vantaggio. La loro coscienza non conosceva rimorsi, la
loro ragione calcolava e misurava tutto. Ma una volta superate le
difficoltà, e riusciti nell'intento, i pericoli non cessavano per
questo. Bisognava lottare contro lo scontento fierissimo di coloro
che, per lunga consuetudine, s'erano usati a non saper vivere senza
partecipare al governo; contro le ire feroci di coloro che avevano
anch'essi aspirato alla tirannide, ed erano stati prevenuti o vinti.
Se colla forza si vinceva un tumulto popolare, i pugnali s'appuntavano
nelle tenebre da ogni lato. E le congiure erano allora più crudeli,
perchè assumevano il carattere di vendette personali; s'ordivano fra
gli amici, nella famiglia stessa: si vedevano i più stretti parenti,
anche i fratelli, contendersi il trono col ferro o col veleno. Così il
tiranno italiano poteva dirsi condannato a riconquistare ogni giorno
il suo regno; e pur di ottenere questo fine, esso credeva giustificato
ogni mezzo.
In sì misero stato di cose, non bastavano il coraggio personale, il
valor militare e una coscienza senza rimorsi; bisognava avere anche
una grande accortezza, una fine astuzia, una profonda conoscenza degli
uomini e delle cose, sopra tutto un perfetto dominio delle proprie
passioni. Bisognava studiare i fenomeni sociali come si studiano i
fenomeni della natura, non avere alcuna illusione, fondarsi solo sulla
realtà delle cose. Bisognava conoscere a fondo il proprio Stato e gli
uomini in mezzo ai quali si viveva, per poterli dominare; trovare la
nuova forma di governo; riordinare, in mezzo alle rovine del passato,
l'amministrazione, la giustizia, la polizia, le opere pubbliche, ogni
cosa. Il potere, in sostanza, si concentrò allora tutto nel tiranno,
e l'unità del nuovo Stato nacque come una creazione personale di lui.
E con lui nascevano la scienza e l'arte di governo; ma si cominciava
ancora a diffondere quella opinione, che divenne poi un errore assai
generale e funesto, che cioè le leggi e le istituzioni siano un trovato
dell'uomo politico, non già un resultato naturale della storia, dello
svolgimento sociale e civile dei popoli. Pel Medio Evo lo Stato e
la storia erano un'opera della Provvidenza, in cui nulla potevano
la ragione e la volontà dell'uomo; pel Rinascimento, invece, tutto
era opera dell'uomo, che se non riusciva, doveva dolersi prima di se
stesso, e poi della fortuna, a cui si dava allora grandissima parte nel
destino delle cose umane.
In un paese diviso e suddiviso come l'Italia, queste vicende si
moltiplicavano e ripetevano per tutto; ed è facile immaginarsi quanto
dovessero contribuire alla corruzione del paese, e in quanti modi
diversi. Sorgevano i tiranni in mezzo alle repubbliche, ai papi, ai re
di Napoli; e gelosi tutti gli uni degli altri, ricorrevano all'amicizia
dei vicini o degli stranieri, cercando indebolire o dividere i nemici.
Così le trame e gl'intrighi crescevano all'infinito; e nello stesso
tempo si formava un intreccio singolare d'interessi politici, che
moltiplicava le relazioni fra i diversi Stati; faceva sorgere in Italia
la prima idea d'un equilibrio politico; dava alla nostra diplomazia
un'attività, una intelligenza, un'accortezza meravigliose. Fu allora
un tempo in cui ogni Italiano sembrava un diplomatico nato: il
mercante, il letterato, il capitano di ventura sapevano presentarsi e
discorrere ai re ed agl'imperatori con tutta la conoscenza delle forme
convenzionali, con un acume ed una penetrazione che facevano restare
ammirati. I dispacci dei nostri ambasciatori furono uno dei più grandi
monumenti della storia e letteratura di quel tempo. Primeggiavano i
Veneziani pel senno pratico e l'osservazione dei fatti, i Fiorentini
per la eleganza del dire e l'acume con cui esaminavano, intendevano
i caratteri; ma tutti gli altri erano emuli non indegni di quelli.
L'arte del dire e dello scrivere divenne così una potenza formidabile,
acquistò una importanza nuova fra gl'italiani.
Si videro allora dei soldati di ventura, che non si movevano per
minacce, per preghiere o pietà, cedere ai versi di un erudito. Lorenzo
dei Medici, andando a Napoli, persuadeva coi suoi ragionamenti Ferrante
d'Aragona a smettere la guerra e fare alleanza con lui. Alfonso il
Magnanimo, prigioniero di Filippo Maria Visconti, quando tutti lo
credevano morto, fu invece liberato con onore, perchè, secondo il
Machiavelli, aveva saputo persuadere a quel tiranno cupo e crudele,
che gli tornava più conto avere gli Aragonesi che gli Angioini a
Napoli, concludendo: Vuoi tu piuttosto soddisfare ad un tuo appetito
che assicurarti lo Stato?[14] Nella rivoluzione promossa a Prato da
Bernardo Nardi, questi aveva, secondo lo stesso Machiavelli, già messo
il capestro al Podestà fiorentino per impiccarlo, quando si lasciò
dagli accorti ragionamenti di lui persuadere a desistere, e così nulla
più gli potè riuscire.[15] Simili fatti possono essere qualche volta
esagerati o anche inventati; ma il vederli tante volte ripetuti e
creduti, prova quali erano le idee e l'indole di quegli uomini.
Non è perciò da meravigliarsi, se anche i tiranni studiavano e
proteggevano con sì grande ardore le arti, le lettere, la cultura
sotto ogni sua forma. Non era solo un sottile accorgimento di governo,
un mezzo per deviare dalla politica l'attenzione del popolo; era una
necessità della loro condizione, un bisogno vero e reale del loro
spirito. Una nota diplomatica abilmente scritta, un discorso accorto
solevano risolvere le più gravi questioni politiche. A chi il tiranno
italiano doveva il proprio Stato, se non al suo ingegno? E come poteva
essere indifferente alle arti che lo educano e lo accrescono? Le più
felici ore di riposo dagli affari di Stato, le passava tra i libri, i
letterati e gli artisti. Il museo e la biblioteca tenevano per lui il
posto che presso molti signori feudali del settentrione, tenevano la
scuderia e la cantina; tutto ciò che poteva coltivare o ingentilire lo
spirito era un elemento necessario alla sua esistenza; nel suo palazzo
si formavano il perfetto cortigiano, la raffinatezza dei modi del
gentiluomo moderno.
V'era però un singolare contrasto negli uomini di quel tempo, un
contrasto che ci sembra spesso un enimma inesplicabile. Noi possiamo
perdonare al Medio Evo, tanto diverso da noi, le sue selvagge passioni
ed i suoi delitti, o almeno possiamo comprenderli; ma vedere degli
uomini, che discorrono e pensano come noi; che sono rapiti con la più
spontanea sincerità innanzi ad una Madonna del Beato Angelico o di Luca
della Robbia, innanzi alle aeree curve dell'architettura dell'Alberti
e del Brunelleschi; che si mostrano disgustati da ogni atto appena
grossolano, da un gesto che non sia della più perfetta eleganza;
e vederli abbandonarsi ai più atroci delitti, ai più osceni vizî;
apparecchiare il veleno per cacciar dal mondo un rivale o un parente
pericoloso, questo è quello che non comprendiamo. Era un periodo di
transizione, in cui si direbbe che le passioni ed i caratteri di due
età diverse si trovavano fra loro come innestati, per formare innanzi
ai nostri sguardi una sfinge misteriosa, che ci maraviglia e quasi ci
spaventa. Verso di essa noi siamo troppo severi, quando dimentichiamo
che un secolo non può essere giudicato colle norme e i criterî di un
altro.
Ovunque noi rivolgiamo lo sguardo, vediamo sotto forme diverse
riprodursi i medesimi fatti. La milizia del secolo XV anch'essa
non è più quella del Medio Evo, ma inizia la moderna, da cui pur
tanto differisce. Al tempo dei Comuni, le guerre s'erano fatte con
fanti leggermente armati: il mercante e l'artigiano ogni primavera
indossavano la corazza, ed uscivano fuori delle mura a combattere
i castelli baronali e le terre vicine, per poi tornare alle loro
officine. Pochissima importanza aveva la cavalleria, formata il più
dai nobili. Ma col tempo le cose mutarono affatto. Le guerre divennero
assai più complicate, e la forza degli eserciti passò nella cavalleria
pesante o, come dicevano allora, negli uomini d'arme. Ognuno di
essi era seguito da due o tre cavalieri, che portavano la sua grave
armatura, di cui egli ed il cavallo di battaglia si coprivano solo
nel momento dell'azione, perchè era così pesante, che, se con essa
cadevano a terra, non si rialzavano più senza aiuto. E questa specie di
torre corazzata spingeva innanzi una lunghissima lancia, colla quale
atterrava il fantaccino prima che esso, coll'alabarda o la spada,
potesse recare alcuna offesa. Uno squadrone di tale cavalleria bastava
a sbaragliare un esercito di fanti, fino a che la invenzione della
polvere e il perfezionamento delle armi da fuoco non vennero più tardi
a trasformar di nuovo l'arte della guerra. I Fiorentini se ne avvidero
a Montaperti (1260), quando pochi cavalieri tedeschi uniti agli esuli
ghibellini, posero in rotta il più forte esercito di fanti che si fosse
mai visto in Toscana. Ed a Campaldino (1289) i fanti, per abbattere gli
uomini d'arme, dovettero avanzarsi sotto i loro cavalli e sventrarli.
Questo nuovo modo di guerreggiare riuscì funesto alle nostre
repubbliche. L'uomo d'arme doveva educarsi con un lungo tirocinio, un
esercizio continuo; come potevano l'artigiano ed il mercante avere il
tempo da ciò? Eserciti stanziali non v'erano allora, e l'aristocrazia,
che sola poteva educarsi a vivere nelle armi, era stata nei Comuni
italiani distrutta. Che fare adunque? Si ricorse agli stranieri, e
cominciarono i soldati mercenarî.
Fuori d'Italia l'aristocrazia era sempre potentissima, e però gli
uomini che vivevano nelle armi, abbondavano: erano appunto nobili
seguìti dai loro vassalli. Ogni volta che gli Angioini ritentavano la
loro eterna impresa di Napoli, o gli Spagnuoli facevano qualche nuova
scorrerìa, restavano, dopo la guerra, soldati e drappelli sbandati,
che, vaghi d'avventure, cercavano e trovavano servizio presso i
signori o le repubbliche. I primi arrivati furono subito di richiamo
agli altri, perchè le paghe erano grosse, e lo straniero trovava più
facile preda e vittoria, per la mancanza fra noi d'uomini d'arme.
E cominciarono a formarsi le compagnie di ventura, che mettevano a
prezzo la propria spada al maggiore offerente. Esse divennero subito
minacciose, insolenti, e dettarono leggi ad amici ed a nemici. Ma
gl'Italiani più tardi s'arrolarono alla spicciolata sotto queste
bandiere, ed allettati da questo nuovo genere di vita, crebbero tanto
di numero, e così bene riuscirono, che si provarono poi a costituire
compagnie nazionali. Non mancava invero fra noi la materia per formare
capitani e soldati. Che cosa dovevano fare tutti quei capi di parte,
che erano stati vinti nei loro ambiziosi disegni da più ambiziosi
o fortunati rivali? Essi correvano là dove trovavano rizzata una
bandiera di ventura, e s'educavano alle armi, per comandare poi una
squadra o una compagnia. I più piccoli tiranni, servendo sotto un
capo di reputazione, o formando una compagnia, trovavano modo di
difendere il proprio Stato e d'ingrandirlo. Quando una repubblica era
vinta e sottomessa da un'altra, i cittadini che l'avevano governata e
poi difesa invano, emigravano qualche volta in massa, per correre il
mondo come soldati di ventura, e cercavano nell'armi quella libertà
che avevano perduta in casa. Così fecero i Pisani, quando la loro
repubblica cadde sotto i Fiorentini; così altri moltissimi. Il contado
dava buon numero di soldati; ed alcune provincie, come la Romagna, le
Marche e l'Umbria, dove il disordine era tale che gli uomini sembravano
vivere di rapine, di vendette e di brigantaggio, furono addirittura un
vivaio e mercato di capitani e soldati di ventura.
Queste compagnie non si possono dire una istituzione del Medio Evo, e
neppure una istituzione moderna. Proprie d'un periodo di transizione,
si compongono dei rottami di tutte le vecchie istituzioni, ora
distrutte o cadenti, e sono una grande calamità; ma lo spirito del
Rinascimento italiano si manifesta anche in esse, che ne ricevono e ne
determinano sempre più il carattere. Le nostre, che subito cominciarono
ad aver vittoria contro le straniere, specialmente quando Alberico da
Barbiano creò la nuova arte della guerra, presero una forma, ebbero
un carattere proprio e diverso dalle straniere. Queste, infatti,
erano comandate da un Consiglio di capi, ognuno dei quali aveva molta
autorità sopra i suoi uomini, che solevano essere, in parte almeno,
suoi vassalli, i quali all'occorrenza lo seguivano, quand'egli voleva
separarsi dagli altri. In Italia, invece, l'importanza e la forza della
compagnia dipesero affatto dal valore e dal genio militare di chi la
comandava e quasi la personificava; i soldati obbedivano alla volontà
suprema del capo, senza però essere legati a lui da alcuna fedeltà o
sottomissione personale, pronti ad abbandonarlo per un capitano più
famoso o per una paga maggiore. La guerra divenne l'opera d'una mente
direttrice, l'esercito fu unito dal nome e dal valore del capitano, la
battaglia fu come una sua creazione militare.
Così si formò la scuola d'Alberico da Barbiano, cui tennero dietro
quelle di Braccio da Montone, degli Sforza, dei Piccinini e di molti
altri, gli uni formandosi sotto la guida e disciplina degli altri.
Il capitano italiano creava la scienza e l'arte militare, come il
principe creava la scienza e l'arte di governare. Nell'uno e nell'altro
l'ingegno e la personalità si manifestavano in altissimo grado;
nell'uno e nell'altro mancava quella forza morale, che sola può dare
stabilità vera alle opere dell'uomo. Nella compagnia, più che altrove,
il capitano era sciolto da tutti i vincoli convenzionali del Medio Evo;
la sua fama e la sua potenza dipendevano unicamente dal suo valore e
dal suo ingegno. Muzio Attendolo Sforza, uno dei più temuti capitani
del suo tempo, divenuto anche gran contestabile del regno di Napoli,
aveva in origine coltivato i campi, e cominciò la sua vita militare
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