Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I - 04

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Bergamasco, la Ghiara d'Adda ed il Bresciano. Noto fra i più audaci e
tumultuosi capitani di ventura, conosceva meglio d'ogni altro di che
grande calamità essi erano agli Stati ordinati e pacifici; quindi fu
tra coloro che più contribuirono, se non a farli scomparire del tutto,
a far loro perdere assai della passata importanza, come già per forza
naturale delle cose cominciava a seguire. Uno solo della vecchia scuola
sopravviveva allora, Iacopo Piccinini, ed era veramente di quelli che,
rizzando una bandiera, potevano mettere insieme un esercito pericoloso.
Costui se ne viveva tranquillo a Milano, quando gli venne voglia
d'andare a vedere le sue terre nel reame di Napoli, e fu dal Duca
assai incoraggiato, sebbene ognuno sapesse quanto era inviso a Ferrante
d'Aragona. Arrivato colà, venne accolto a braccia aperte dal Re, che
lo condusse a vedere la reggia e poi lo mise in prigione, dove presto
morì. Lo Sforza protestò, strepitò contro la violata fede; ma tutti
credettero che, d'accordo con Ferrante, egli si fosse voluto liberare
d'un incomodo vicino.
Francesco Sforza, dice felicemente uno storico moderno, era proprio
l'uomo secondo il cuore del secolo XV.[16] Grande capitano ed
accorto politico, egli sapeva fare a tempo la volpe ed il leone;
sapeva, occorrendo, metter le mani nel sangue: ma quando ciò non era
necessario, voleva invece giustizia imparziale, e si dimostrava anche
generoso e pietoso. Fondò una dinastia; conquistò uno Stato, che
lasciò sicuro e bene amministrato; costruì grandi opere pubbliche,
come il canale della Martesana e l'ospedale maggiore di Milano. Si
circondò d'esuli greci e d'eruditi italiani, e così la corte del già
capitano di ventura divenne subito una delle più splendide d'Italia.
Sua figlia Ippolita fu celebre pei discorsi latini, che tutti lodavano,
esaltavano. Il famoso Cicco (Francesco) Simonetta, calabrese, uomo
dottissimo e d'una fedeltà a tutta prova, fu il segretario del Duca;
il fratello Giovanni ne fu lo storiografo; Francesco Filelfo, il poeta
cortigiano, ne cantò le lodi nella _Sforziade_. Celebrato così in verso
ed in prosa, col nome di giusto, di grande, di magnanimo, moriva il
giorno 8 marzo 1466. Tutto aveva tentato ed in tutto era riuscito; i
contemporanei lo credettero perciò il più grande uomo del secolo. Ma
che cosa era lo Stato da lui definitivamente costituito? Una società in
cui tutte le forze s'andavano rapidamente esaurendo; un popolo di cui
il sovrano credeva poter fare tutto quello che voleva, materia plastica
nelle mani d'un nuovo artista, il cui valore stava solo nel conseguire
il fine propostosi, qualunque esso fosse. Nè i Visconti nè lo Sforza
ebbero mai alcuna idea politica veramente grande e feconda, perchè essi
non s'immedesimarono mai col popolo, ma lo fecero solo servire ai loro
propri interessi. Furono maestri nel trovar l'arte di governo; ma non
riuscirono a fondare un vero governo, perchè ne avevano colla tirannide
disfatti gli elementi essenziali. Le funeste conseguenze di questa
politica, che fu pur troppo la politica italiana del secolo XV, si
dovevano ben presto vedere in tutta la Penisola, come si cominciarono a
vedere in Milano dopo la morte del Duca.
Il figlio Galeazzo Maria, dissoluto e crudele, era di un'indole così
triste, che fu perfino accusato d'avere avvelenato la propria madre.
Credendo che al principe tutto fosse lecito e possibile, egli, in un
secolo che omai si poteva dir civile, fece seppellir vivi alcuni de'
suoi sudditi; altri condannò a morir fra torture crudeli, per frivoli
pretesti, perdonando solo a coloro che si riscattavano con danaro.
Dissipava tesori nelle feste in Milano e nelle cavalcate che faceva
per tutta Italia, portando corruzione dovunque andava. Nè gli bastava
corrompere le donne delle più nobili famiglie milanesi, che le esponeva
egli stesso anche al pubblico disprezzo. Le istituzioni o la volontà
popolare non potevano allora metter freno a questo cieco furore,
perchè un popolo più non esisteva, e le istituzioni eran tutte divenute
congegni atti solo a servir la tirannide. Ben vi pose fine una congiura
delle più singolari e notevoli, in quello che può veramente dirsi il
secolo delle congiure.
Girolamo Olgiati e Giannandrea Lampugnani, discepoli di Niccola
Montano, che li aveva coi classici educati all'amore della libertà
e all'odio della tirannide, ingiuriati dal Duca, deliberarono di
vendicarsi, e trovarono in Carlo Visconti, per le stesse ragioni, un
terzo compagno. S'infiammarono all'impresa colla lettura di Sallustio e
di Tacito, si esercitarono tra loro a ferire colle guaine dei pugnali;
e quando ebbero fissato ogni cosa pel 26 dicembre 1476, l'Olgiati,
entrato nella chiesa di Sant'Ambrogio, si gettò ai piedi della immagine
del Santo, pregandolo che non facesse fallire il colpo. Il mattino del
giorno stabilito assistevano alle funzioni religiose nella chiesa di
Santo Stefano, recitando una preghiera latina, espressamente composta
dal Visconti: — Se tu ami la giustizia e odii l'iniquità, — dicevano al
Santo, — sii favorevole alla magnanima impresa, e non ti adirare quando
fra poco dovremo insanguinare i tuoi altari, per liberare il mondo
da un mostro. — Il Duca fu ucciso, ma il Visconti ed il Lampugnani
restarono vittime del furore del popolo, che volle vendicare il proprio
oppressore. L'Olgiati fuggì e si nascose, ma fu di poi anch'egli preso
e condannato all'estremo supplizio. Lacerato dalla tortura, evocava
in suo aiuto le ombre dei Romani, e si raccomandava alla Vergine
Maria; incitato a pentirsi, dichiarava che, se avesse dieci volte
dovuto spirare fra quei tormenti, avrebbe dieci volte consacrato il
sangue all'eroica impresa. Vicino a morire, componeva ancora epigrammi
latini, rallegrandosi che riuscissero bene; e quando il carnefice gli
era già accanto, le sue ultime parole furono: _Collige te, Hieronyme,
stabit vetus memoria facti. Mors acerba, fama perpetua_.[17] Qui si
vede che, se era spenta nel popolo ogni vera passione politica, in
alcuni individui si mescolavano, nel modo più strano, sentimenti
pagani e cristiani; l'amore della libertà con un odio personale,
irrefrenabile e feroce; un'eroica rassegnazione alla morte con una sete
inestinguibile di sangue, di vendetta e di gloria. I rottami di vecchi
sistemi, gli avanzi di civiltà diverse si trovano mescolati insieme
nello spirito italiano, e con essi s'apparecchia e si feconda il germe
d'una nuova forma individuale e sociale, che ancora non è visibile ai
nostri occhi. Poco di poi Lodovico il Moro, fratello del morto Duca,
ambizioso, timido, irrequieto, usurpò il dominio al nipote Galeazzo, e
per mantenere la male acquistata signoria, mise a soqquadro l'Italia
intera, come avremo occasione di vedere, quando, dopo esaminate le
condizioni dei varî Stati italiani, daremo uno sguardo generale a tutta
la Penisola.

2. — FIRENZE.
La storia di Firenze ci conduce in mezzo a condizioni sostanzialmente
diverse da quelle di Milano. A prima vista sembra che noi siamo in
un gran caos di avvenimenti disordinati, dei quali non si possa
comprendere nè la ragione nè il fine. Ma, esaminando poi le cose
più da vicino, si ritrova un filo conduttore, e si vede come quella
repubblica, attraverso una serie infinita di rivoluzioni, percorrendo
tutte le forme politiche che il Medio Evo poteva conoscere, mirò
costantemente al trionfo della democrazia, alla distruzione totale
del feudalismo, scopo che conseguì cogli _Ordinamenti di Giustizia_
di Giano della Bella, l'anno 1293. Da quell'anno Firenze, divenuta
una città di soli mercanti, non è più divisa in Grandi e popolani;
ma in popolo grasso e popolo minuto, in Arti maggiori ed Arti
minori. Le prime s'occupano della grande industria e del grande
commercio d'importazione e di esportazione; le seconde s'occupano
della piccola industria e del commercio interno della Città. Nasce
da ciò una divisione, e spesso ancora una collisione d'interessi,
da cui scaturisce la nuova formazione dei partiti politici. Quando
si tratta d'ingrandire il territorio della repubblica; di combattere
Pisa per tenersi aperta la via del mare, o Siena per assicurarsi il
commercio con Roma; di respingere gli assalti continui e minacciosi
dei Visconti di Milano, il governo cade inevitabilmente in mano delle
Arti maggiori, più ricche, più intraprendenti, più audaci e capaci
d'intendere e tutelare i grandi interessi dello Stato fuori de' suoi
confini. Ma quando posano le armi e comincia la pace, allora subito
le Arti minori, sospinte anche dall'infima plebe, insorgono contro la
nuova aristocrazia del danaro, che, con le guerre e le tasse continue,
le opprime, e chiedono maggiori libertà, più generale uguaglianza.
Questo continuo avvicendarsi dura per più di un secolo, fino al
tempo, cioè, in cui il territorio della repubblica si è costituito,
e le interminabili guerre con Milano hanno termine. Allora diviene
inevitabile il trionfo definitivo delle Arti minori, ed esse con
la loro inesperienza, colle loro intemperanze, spianano la via alla
tirannide dei Medici.
Ben s'illuderebbe, però, chi s'aspettasse di vederli salire al potere
con le arti ed i mezzi adoperati dai Visconti e dagli Sforza. Colui che
avesse in Firenze cominciato a torturare arbitrariamente i cittadini,
a seppellirne vivo qualcuno, a farne sbranare qualche altro dai cani,
come fecero i signori di Milano, sarebbe stato subito cacciato a
furore di popolo dalle Arti maggiori e dalle minori unite insieme.
L'importanza e l'originalità politica tutta propria dei Medici sta
anzi in questo, che il loro trionfo è la conseguenza d'una condotta
tradizionale, seguita da quella famiglia, per più di un secolo, con una
costanza ed un'accortezza impareggiabili, per arrivare ad impadronirsi
del potere senza ricorrere alla violenza. E l'essere a ciò riusciti in
una città così accorta, così inquieta, così gelosa delle sue antiche
libertà, è prova di un vero genio politico.
Sin del 1378, in mezzo all'incomposto tumulto dei Ciompi, noi troviamo
la mano di Salvestro dei Medici, che, quantunque delle Arti maggiori,
aiuta, eccita le minori a rovesciarne il potere, e acquista così una
grande popolarità. Fallito quel tumulto, ricominciata la guerra, e
quindi tornate le Arti maggiori e gli Albizzi al potere, noi vediamo
Vieri de' Medici rimanersene tranquillo, pensando solo a far danari.
Non cessò tuttavia di mostrarsi favorevole sempre al partito popolare,
nel quale seppe acquistarsi tanta autorità da far dire al Machiavelli,
«che se fosse stato più ambizioso che buono, poteva, senza alcuno
impedimento, farsi principe della città.»[18] Vieri però conosceva
meglio il suo tempo, e si contentò d'aspettare, agevolando la via
a Giovanni di Bicci, che fu il vero fondatore politico della casa.
Questi vide chiaramente, che trasformare colla violenza il governo
non era possibile in Firenze, e che non avrebbe giovato gran fatto
il salire, anche più volte, al potere, in una repubblica che mutava
ogni due mesi i suoi principali magistrati. Non v'era che un mezzo
solo per ottenere un predominio reale e sicuro: costituire e guidare
un partito che avesse la prudenza e la forza di far continuamente
entrare nei più importanti uffici della Repubblica i propri aderenti.
E gli Albizzi s'avvidero subito che questo disegno cominciava a
riuscire, perchè i loro avversari, nonostante il continuo ammonirli
ed esiliarli, risultavano eletti in numero sempre maggiore. Invano
cercarono di controminare l'opera di Giovanni de' Medici, col proporre
inopportunamente leggi intese ad indebolire le Arti minori, perchè
essi non potevano farle approvare nei Consigli senza l'aiuto del loro
avversario, che invece le combatteva apertamente, e ne diveniva così
sempre più potente appresso il popolo (1426). Egli, come afferma
il Machiavelli, sostenne la legge del Catasto,[19] con la quale si
ordinava che fosse riconosciuta e scritta la fortuna di ciascun
cittadino, il che impediva che i potenti, tassando ad arbitrio,
gravassero senza misura i più deboli. La legge fu vinta, l'autorità
dei Medici ne crebbe sempre di più, e mentre essi salivano volando al
principato, pareva invece che dessero solo una forma più popolare alla
Repubblica. Questa fu allora e sempre la loro arte.
Quando nel 1429 Cosimo dei Medici, in età di quarant'anni, succedeva
al padre, egli, che era per sè stesso uomo di grande autorità e
fortuna, trovava la via già spianata dinanzi a sè. Aveva col commercio
aumentato assai il ricco patrimonio avìto, e ne usava così largamente,
imprestando o donando, che non v'era quasi uomo autorevole in Firenze,
che, nei suoi bisogni, non ricorresse a lui e non lo trovasse pronto.
Onde è che, senza mai uscire, in apparenza almeno, dalla modestia di
privato cittadino, vedeva ogni giorno aumentare la sua potenza, e se
ne valeva a demolire gli ultimi avanzi del potere degli Albizzi e de'
loro amici. Il che li fece montare in tanto furore, che, levatisi a
tumulto, lo cacciarono in esilio, non osando fare di peggio (1433).
Ma Cosimo neppure allora perdette la sua calma prudente. Se ne andò
a Venezia come un benefattore ripagato d'ingratitudine, e fu da per
tutto accolto come un principe. L'anno seguente un tumulto popolare,
favorito dal numero infinito di coloro che aveva beneficati o che
speravano benefizi, cacciati gli Albizzi, lo richiamò a Firenze, dove
essendo partito potente, tornò potentissimo, coll'animo irritato
dal desiderio della vendetta. Abbandonò allora l'antica riserva,
per mettere a profitto il momento opportuno. Senza spargere molto
sangue, colle persecuzioni e gli esilî disfece addirittura il partito
avverso, abbassando i potenti, tirando su uomini «bassi e di vile
condizione.»[20] Ed a chi lo accusava di trascendere, rovinando troppi
cittadini, soleva rispondere: coi paternostri non si governano gli
Stati, e con poche canne di panno rosato si fanno nuovi cittadini e
uomini da bene.[21]
Cosimo de' Medici era adesso di fatto il padrone della Città; ma
legalmente restava sempre un privato, il cui potere, fondato tutto e
solo sulla propria autorità personale, poteva da un momento all'altro
svanire. Si pose quindi a consolidarlo, dando un passo nuovo e assai
accorto. Fece creare una Balìa con facoltà d'eleggere per cinque anni
i principali magistrati. Composta di cittadini a lui devoti, essa lo
rendeva sicuro per lungo tempo; e facendola ogni quinquennio rinnovare
nel medesimo modo, Cosimo potè risolvere questo singolare problema:
essere, per tutto il resto della sua vita, principe e padrone assoluto
in una repubblica, senza mai entrare negli ufficî, conservando anzi
le apparenze di privato cittadino. Ciò per altro non gl'impedì, a suo
tempo, di ricorrere anche al sangue. Quando vide sorgere ogni giorno
più potente nella Città Neri di Gino Capponi, che, politico accorto e
valoroso soldato, aveva anche l'aiuto di Baldaccio d'Anghiari capitano
delle fanterie, non potendo assalirlo di fronte, pensò disfarlo,
abbattendone gli amici. Infatti, appena che fu eletto gonfaloniere un
nemico personale di Baldaccio, questi venne in un improvviso tumulto
gettato dalle finestre di Palazzo Vecchio; e molti sospettarono,
sebbene nessuno potesse provarlo, che Cosimo fosse stato il principale
istigatore del delitto.[22] Ma dopo uno di tali fatti, egli tornava
subito a governare con quelli che chiamavano allora i _modi civili_, e
che costituirono sempre l'arte dei Medici. Questo accorto e poco dotto
mercante, che non lasciò mai il banco; questo politico senza scrupoli,
si circondò di letterati ed artisti: parchissimo nello spendere per
sè, profuse tesori nel proteggere le arti belle, costruire chiese,
biblioteche ed altri pubblici edificii; passò le ore più felici della
sua vita facendosi leggere e comentare i _Dialoghi_ di Platone; fondò
l'Accademia Platonica. Così in parte non piccola si deve a lui, se
Firenze divenne allora il centro principale della cultura in Europa.
Egli aveva capito che le arti, le lettere e le scienze divenivano
nella nuova società una potenza, su cui ogni governo doveva fare
assegnamento.
Nè fu meno accorto nella politica estera. Avendo protetto e soccorso
di danari Niccolò V, quando era cardinale, lo ebbe amicissimo quando
fu papa; e così gli affari della Curia vennero affidati al banco
de' Medici in Roma, con loro grande guadagno. Aveva anche prima di
tutti presentito il futuro destino di Francesco Sforza, e gli s'era
perciò fatto amicissimo; onde questi, divenuto signore di Milano, gli
fu alleato potente e fido. Cessarono allora le guerre continue fra
Milano e Firenze, che si tenne debitrice a Cosimo della lunga pace.
Non è quindi da maravigliare se, dopo la morte, continuando sempre a
governare i Medici, lo chiamarono _Padre della patria_. Il Machiavelli
dice, che egli fu il più riputato cittadino «d'uomo disarmato,» che
avesse mai non solo Firenze, ma qualunque altra città. Secondo lui,
nessuno lo raggiunse nella intelligenza delle cose politiche, perchè
vedeva i mali discosto, e vi provvedeva in tempo; e solo così potè
tenere lo Stato trentun anno, «in tanta varietà di fortuna, in sì varia
città e volubile cittadinanza.»[23] Nè diversa è in ciò l'opinione, del
pari autorevole, del Guicciardini. Pure, con questa politica, tutte le
antiche istituzioni della Città furono ridotte ad un nome vano, senza
che si riuscisse a crearne delle nuove; ed una continua accortezza, una
serie inesauribile di sempre nuovi ripieghi fu necessaria a reggere il
timone dello Stato.
Gli ultimi anni della vita di Cosimo furono assai tristi per Firenze,
perchè i partigiani dei Medici, non moderati più dalla prudenza del
loro capo, divenuto per l'età impotente, si diedero a parteggiare,
e così crebbero a dismisura le persecuzioni e gli esilî. Nè mutarono
le cose quando, per breve tempo, gli successe il figlio Piero. Alla
costui morte però (1469) compaiono sulla scena Lorenzo e Giuliano,
il primo dei quali, sebbene avesse solo ventun anno, era già assai
autorevole. Educato dai principali letterati del secolo, s'era
dimostrato uguale a molti di essi per ingegno e dottrina; viaggiando
l'Italia, per conoscere le Corti ed acquistare esperienza degli uomini,
aveva dovunque lasciato grande opinione di sè. Egli afferrò subito con
animo deliberato le redini del governo, ed avvistosi che la elezione
della nuova Balìa non era d'esito sicuro nel Consiglio dei Cento,
fece, con l'aiuto dei più fidi, e come per sorpresa, votare che i
Signori in ufficio, insieme con la vecchia Balìa, eleggessero la nuova.
Assicuratosi così il potere per cinque anni, si mise all'opera assai
più tranquillo.
Lorenzo, simile all'avo per accortezza politica, lo superava di
gran lunga per ingegno e cultura letteraria. In molte cose era però
assai diverso da lui. Cosimo non lasciò mai il suo banco; Lorenzo
lo trascurava, ed era così poco adatto al commercio, che dovette
ritirarsi dagli affari, per non mandare a rovina il ricco patrimonio
avìto. Cosimo era parco nello spendere per sè, ed imprestava largamente
agli altri; Lorenzo amava il vivere splendido, e fu perciò chiamato
il _Magnifico_; spendeva fuor di misura nel proteggere i letterati;
si perdeva negli amori più che la sua debole salute non comportasse,
tanto che abbreviò i suoi giorni. Questo suo vivere lo ridusse a tali
strettezze, che dovette vendere alcuni de' suoi possessi, e ricorrere
agli amici per danari. Nè ciò bastando, s'indusse anche a mettere
la mani nel pubblico danaro, cosa che non era seguìta mai a Cosimo.
Più volte, per avidità d'illeciti guadagni, fece pagare gli eserciti
fiorentini dal suo proprio banco; profittò ancora delle somme raccolte
nel Monte Comune o cassa del debito pubblico, e di quelle raccolte
nel Monte delle Fanciulle, dove erano le doti accumulate dai privati
risparmî, danari fino allora rispettati da tutti come sacri. Fu
opinione assai generale de' suoi contemporanei, che egli, mosso sempre
dalla stessa avidità di guadagno, entrasse l'anno 1471 a parte dei
guadagni delle ricche miniere d'allume in Volterra, nel momento in cui
quel Comune voleva sciogliersi da un contratto tenuto eccessivamente
oneroso. Ed avrebbe allora, colla sua autorità, spinto le cose a tale,
che ne seguì nel 1472 prima la guerra, e poi il sacco crudelissimo
dell'infelice città, cosa affatto insolita in Toscana.[24] Di tutto
ciò fu sempre universalmente biasimato in Firenze. Ma egli era oltre
misura superbo, e non si curava d'alcuno; non tollerava uguali; voleva
essere il primo sempre ed in tutto, anche nei giuochi. Nell'abbattere
i potenti e nel sollevare gli uomini di bassa condizione, non usava
nessuno di quei riguardi, di quelle cautele tanto osservate da Cosimo.
Non è quindi da far maraviglia, se i nemici crebbero a segno tale che
ne scoppiò la terribile Congiura dei Pazzi, il 26 aprile del 1478.
Tramata nel Vaticano stesso, dove Sisto IV era nemico di Lorenzo, vi
presero parte molti delle più potenti famiglie fiorentine. In duomo,
nel momento in cui s'elevava l'ostia consacrata, si sguainarono i
pugnali, e Giuliano de' Medici venne ucciso; ma Lorenzo si difese
colla spada, e potè salvarsi. Fu un tumulto tale che pareva ne
crollasse il tempio. La plebe si sollevò al grido di _palle, palle_;
i nemici de' Medici furono scannati per le vie, o impiccati alle
finestre di Palazzo Vecchio. Ivi si videro fra gli altri sospesi i
cadaveri dell'arcivescovo Salviati e di Francesco de' Pazzi, che nella
convulsione della morte, s'erano addentati fra loro, e così restarono
un pezzo. Da settanta persone perirono in quel giorno, e Lorenzo,
profittando del momento, spinse le cose agli estremi con le confische,
gli esilî, le condanne. La sua potenza ne sarebbe stata infinitamente
accresciuta, se papa Sisto IV, accecato dall'ira, non si fosse indotto
a scomunicare la Città, ed a muoverle guerra insieme con Ferdinando
d'Aragona. Ma Lorenzo allora, senza esitare, andò a Napoli, e fece
capire al Re, come a lui convenisse molto meglio avere in Firenze il
governo d'un solo, piuttosto che una repubblica, mutabile sempre, e che
certo non gli sarebbe stata mai amica. Così tornò con la pace conclusa,
e con un'autorità e popolarità senza limiti. Ora egli poteva dirsi
davvero signore della Città, e facile doveva sembrargli distruggere
affatto il governo repubblicano. Ambizioso e superbo come era, il
desiderio di rendersi uguale agli altri principi e tiranni italiani
fu certo in lui vivissimo, tanto più che il riuscirvi pareva allora
dipendere solo da lui. Ma Lorenzo mostrò invece che la sua accortezza
politica non si lasciava accecare dai prosperi successi, e conoscendo
bene la sua Città, non deviò dalla politica tradizionale dei Medici:
dominare la Repubblica di fatto, rispettandola in apparenza. Pensò bene
a rendere saldo e duraturo il suo potere; ma per ciò fare ricorse ad
una riforma accortissima, con cui, senza abbandonare la vecchia strada,
ottenne mirabilmente lo scopo.
Invece della solita Balìa quinquennale, istituì nel 1480 il Consiglio
dei Settanta, che si rinnovava da sè, e fu come una Balìa permanente
con poteri ancora più larghi. Composto d'uomini tutti a lui devoti,
gli assicurò per sempre il governo. Con esso, dicono i cronisti del
tempo, la libertà fu in tutto sotterrata e perduta;[25] ma con esso
ancora gli affari più importanti dello Stato furono condotti da uomini
intelligenti e colti, che ne promossero grandemente la prosperità
materiale. Firenze si chiamava ancora una repubblica, i nomi delle
antiche istituzioni duravano ancora; ma tutto ciò sembrava ed era solo
un'ironia. Lorenzo, padrone assoluto di tutto, si poteva veramente
dire un tiranno: circondato da staffieri e da cortigiani, che spesso
ricompensava coll'affidar loro l'amministrazione delle opere pie;
scandaloso pe' suoi amori, teneva uno spionaggio generale e continuo,
ingerendosi anche negli affari privati; non permetteva i matrimonî
di qualche importanza, se non gli piacevano; e gli uomini più vili,
saliti ai maggiori uffici, erano, come dice il Guicciardini, divenuti i
«signori del giuoco.»[26] Pure abbagliava tutti col suo ingegno, collo
splendore del suo governo; onde lo stesso scrittore osserva, che era un
tiranno, ma sarebbe stato impossibile immaginare «un tiranno migliore e
più piacevole.»
L'industria, il commercio, le opere pubbliche erano fiorenti.
L'uguaglianza civile, propria degli Stati moderni, non aveva allora
in alcuna città del mondo raggiunto il grado, a cui era pervenuta
non solo in Firenze, ma nel suo contado ed in quasi tutta la Toscana.
L'amministrazione, la giustizia civile procedevano nei casi ordinarî
assai regolarmente; i delitti comuni scemavano. Soprattutto poi la
cultura letteraria era divenuta un elemento sostanziale del nuovo
Stato; gli uomini dotti entravano facilmente nei pubblici ufficî, e
da Firenze irradiava una luce che illuminava il mondo. Lorenzo, che
aveva un intelletto vario ed universale, con una grande penetrazione,
un giusto criterio in tutte le parti dello scibile, era un Mecenate
che proteggeva, ed era anche egli stesso fra i primi letterati del
secolo; partecipava attivamente al lavoro che promoveva non solo per
arte di governo, ma anche per un bisogno sincero e reale del proprio
spirito. Tuttavia, per far servire le lettere a scopo politico, cercò
co' suoi Canti carnascialeschi e colle feste d'infiacchire, corrompere
il popolo, e pur troppo vi riuscì. Così senza un esercito, senza un
ufficio con cui potesse legalmente comandare, era di fatto non solo
il padrone di Firenze e di gran parte della Toscana, ma esercitava un
predominio immenso su tutti i potentati italiani. Morto il suo nemico
Sisto IV, papa Innocenzo VIII che successe, non solo gli fu amico ma
s'imparentò con lui, ne nominò cardinale il figlio Giovanni ancora
fanciullo, e si volgeva sempre a lui per consiglio. L'antagonismo che
era nato tra Lodovico il Moro e Ferdinando d'Aragona, e minacciava
di porre a soqquadro tutta Italia, fu raffrenato da Lorenzo, il quale
venne perciò giustamente chiamato l'ago della bilancia d'Italia, e solo
dopo la morte di lui si videro le funeste conseguenze di quell'odio. Le
sue lettere politiche, che sono spesso monumenti di politica sapienza
e d'eleganza, vennero dallo storico Guicciardini dichiarate fra le più
eloquenti del secolo.
Ma neppure questa politica poteva riuscire a fondar nulla di stabile.
Modello impareggiabile d'accortezza e prudenza, essa promosse e svolse
in Firenze tutti quanti i nuovi elementi, di cui la società moderna
doveva comporsi, senza riuscir mai a costituirla definitivamente,
perchè era una politica di equivoco e d'inganno, diretta da un uomo di
molto ingegno, che in sostanza aveva di mira il suo interesse personale
e quello della propria famiglia, ai quali era sempre disposto a
sacrificare i veri interessi del popolo e dello Stato.

3. — VENEZIA.
La storia di Venezia sembra essere in diretta contradizione con quella
di Firenze. Questa, infatti, ci presenta una serie di rivoluzioni
che, partendo da un governo aristocratico, arrivano alla più grande
uguaglianza democratica, per cadere poi nel dispotismo d'un solo;
Venezia, invece, procede con ordine e fermezza alla costituzione di
un'aristocrazia sempre più forte. Firenze cerca invano salvare la
libertà, mutando sempre più spesso i suoi magistrati; Venezia crea
il Doge a vita, rende ereditario il Maggior Consiglio, consolida la
repubblica, diviene potentissima e riman libera per molti secoli. Una
così grande divergenza però, non solamente si spiega, ma apparisce ai
nostri occhi assai minore, se esaminiamo le speciali condizioni, tra
cui s'andò formando la repubblica veneta.
Fondata dai rifugiati italiani che popolarono la laguna, sulla quale
non arrivarono le invasioni barbariche, non ebbe, o assai poco, il
feudalismo nè le altre istituzioni e leggi germaniche, che penetrarono
largamente nel resto d'Italia. Così a Venezia, fin dal principio si
trovarono di fronte il popolo dato all'industria ed al commercio, e
le antiche famiglie italiane, che, non avendo l'aiuto dell'Impero, nè
la forza dell'ordinamento feudale, vennero facilmente domate e vinte.
E si formò subito l'aristocrazia del danaro o del popolo grasso, cui
fu molto facile impadronirsi del governo e tenerlo per secoli. Questo
trionfo, che a Firenze fu lento, che seguì dopo molte lotte, dopo
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