Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I - 15

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A morte e struggimento de' tiranni,
Che consumati ci hanno già è più anni.
E quando il Duca d'Atene venne a furor di popolo cacciato, egli
scriveva una sua ballata, in cui, pieno di gioia, esclamava:
Viva la libertà
Ch'ha rinfrancato il Comun di Fiorenza![240]
Di questa libertà, che andava ad irreparabile rovina, importava assai
poco al poeta cortigiano Pistoia.
Ma anche nel secolo XV assai diverso da lui fu Matteo Maria Boiardo,
che nacque poco dopo di Luigi Pulci, e del quale tre città si contesero
l'onore d'essere state la culla. Questa disputa sorse probabilmente
perchè egli, di famiglia reggiana, nacque a Scandiano, e fu educato a
Ferrara.[241] Scrittore erudito di egloghe latine, di liriche italiane
affettuose e gentili, traduttore dal greco, era un nobile signore ed un
nobile carattere; viveva presso gli Este, ma non amava punto la vita di
Corte, perchè, come egli stesso scriveva,
Ogni servir di cortigiano
La sera è grato e la mattina è vano.
Fu governatore di Modena e poi di Reggio-Emilia; ebbe altri ufficî
importanti; ma sebbene li adempiesse tutti con onore, la sua testa,
più che alla politica o all'amministrazione, era vòlta a pensare, a
fantasticare di eroi e di racconti cavallereschi. Narrano che, vagando
un giorno pei campi, si stillasse il cervello cercando il nome da
dare ad uno de' suoi eroi, quando a un tratto gli venne in pensiero
di chiamarlo Rodomonte, e la sua allegrezza allora fu tale, che tornò
correndo a Scandiano, per farvi sonare a distesa tutte le campane.
Credeva sinceramente nella cavalleria, e sperava vederla di nuovo
fiorire in Italia. Compose la tela del suo poema, valendosi di racconti
che appartenevano a cicli diversi. Grande ammiratore della _Tavola
Rotonda_, cogli eroi di Carlo Magno mescolò quelli di Artù, che secondo
il Boiardo, era più grande, perchè non aveva come Carlo il cuore
chiuso alla passione d'amore, sorgente d'ogni grandezza. Il suo Orlando
infatti è l'eroe d'una virtù che trova nell'amore la prima origine e
l'ultimo compenso. Molti episodi sono di sana pianta creati da lui, che
ingenuamente credeva e viveva nel mondo evocato dalla propria fantasia,
il che forma ad un tempo il suo pregio ed il suo difetto. Egli riesce
più sincero e più affettuoso; ma il raccontare seriamente e senza
alcuna ironia, avventure impossibili, lo rende necessariamente meno
moderno del Pulci. Questi scolpisce assai meglio la individualità de'
suoi personaggi; il Boiardo invece descrive meglio il turbinìo generale
dei fantastici eventi, con i quali però i suoi eroi s'immedesimano per
modo da annebbiare qualche volta la precisione de' loro lineamenti.
Troppo spesso bevande incantate ridestano o spengono l'amore, armi
incantate dànno la vittoria o la morte. Il Pulci cerca la realtà
psicologica anche in mezzo agl'incantesimi; il Boiardo anche in mezzo
alla realtà invoca il fantastico ed il soprannaturale. Ma in compenso
di ciò v'è sempre ne' suoi eroi e nel suo poema qualche cosa di nobile
e di generoso, che manca negli altri. Egli loda ed ammira sinceramente
la virtù, esalta il conforto che viene agli animi nobili dall'amicizia:
Potendo palesar l'un l'altro il core,
E ogni dubbio che accada raro o spesso,
Poterlo ad altrui dir come a sè stesso.[242]
Non mancano certo neppur qui sensualità e scherzi osceni; son cose che
si trovano nel poema, perchè sono nella vita. E il dare una importanza
eccessiva all'amore, come sorgente d'ogni virtù, è prova del secolo
in cui il poema fu scritto. In questo è però sempre un fondo di
serietà morale, che dà una singolare elevatezza alla nobile parola del
Boiardo, massime se si pone a confronto col continuo ridere e sorridere
di tutto, che domina negli altri. È un mondo pieno di varietà,
d'immaginazione, di affetto; ed in esso il poeta vive e s'illude. Ma
pur troppo questa illusione doveva durar poco. Invano egli diceva:
E torna il mondo di virtù fiorito;
chè invece ogni cosa precipitava a rovina. Ben presto dovette
avvedersene egli stesso; ed alla fine del secondo libro, la sua
malinconia si tradisce:
Sentendo Italia di lamenti piena,
Non che ora canti, ma sospiro appena.
Ripigliò di nuovo il lavoro, e giunse al punto in cui per l'arrivo
d'Orlando viene impedito ai Saraceni d'entrare in Parigi. Allora, poco
prima della sua morte, che seguì la notte dal 20 al 21 dicembre 1491,
i Francesi passarono le Alpi, e la penna gli cadde per sempre di mano,
restando interrotto il filo del racconto con quella celebre ottava che
comincia:
Mentre ch'io canto, oh Dio redentore!
Vedo la Italia tutta a fiamma, a foco.
Per questi Galli che con gran furore
Vengon per disertar non so che loco....
Sebbene i pregi dell'_Orlando Innamorato_ sieno molti, tali in fatti
che il Berni si pose a riscriverlo sotto altra forma, e l'Ariosto
lo continuò nel suo _Orlando Furioso_; pure la mancanza di lima, e
quindi una lingua non sempre correttissima, spesso troppo ferrarese,
impedirono che divenisse popolare davvero, ed acquistasse quella fama
che pur meritavano l'ingegno ed il carattere dell'autore, a cui faceva
difetto l'atticismo toscano. Egli era un erudito così profondamente
immerso nel suo mondo fantastico, che quando si presentavano a lui
le immagini e gli eroi dell'antichità, per renderli più evidenti, li
paragonava a quelli della Cavalleria, nella quale si sentiva come più a
casa sua.
L'Ariosto, nato a Ferrara dove il Bojardo era stato educato, fu il
primo che sapesse superare tutte quante le difficoltà del non essere
toscano, e con lui la nostra lingua potò dirsi finalmente italiana.
Con una lima paziente, dotato veramente del genio della forma, giunse
con l'arte ad una spontaneità meravigliosa, ed aprì la via a coloro
che lo seguirono. Non erudito com'era il Boiardo, ignaro del greco,
aveva però molto più vivo il sentimento della bellezza classica. Al
contrario di ciò che soleva fare il suo predecessore, aveva bisogno
di paragonare gli eroi cavallereschi ai personaggi del mondo pagano. I
suoi cavalieri erranti hanno il senno di Nestore, l'astuzia d'Ulisse,
il coraggio d'Achille; le loro donne son belle come se Fidia le
avesse scolpite, hanno la voluttà di Venere, il senno di Minerva. Egli
torna di continuo al suo Virgilio ed al suo Ovidio; ma, come osserva
il Ranke, sembra tornarvi per ricondurli, colla potenza della sua
fantasia, al primitivo Omero. Simile assai più al Pulci che al Boiardo,
non si occupa molto di cercare l'intreccio, l'insieme, l'unità degli
avvenimenti; ma vuol ritrarre invece i fuggevoli momenti della mutabile
realtà, e descrivere le passioni individuali. I fatti della sua vita e
del suo tempo s'introducono nel poema sotto forme abbastanza visibili,
e qualche volta si crede vederli anche là dove non sono, tale e tanta
è l'evidenza che il poeta sa ritrovare. Perciò se l'_Orlando Furioso_
continua il racconto dell'_Orlando Innamorato_, letterariamente si
connette invece col _Morgante_ del Pulci, che si può chiamare il
creatore del genere, quantunque tanto si giovasse de' suoi precursori.
Ma l'Ariosto è già fuori del periodo di cui ci siamo finora occupati:
dobbiamo dunque fermarci. Osserveremo tuttavia per concludere, che sino
dai tempi della _Divina Commedia_ e del _Decamerone_, la letteratura
italiana aveva cominciato col liberare lo spirito umano dalle nebbie
medievali, riconducendolo alla realtà. Nella poesia e nella prosa
aveva sempre cercato l'uomo e la natura. Fermatasi nel suo cammino, a
cagione del disordine politico e della decadenza sociale, che sovvertì
ogni cosa nel secolo XIV, essa chiese aiuto all'antichità, per poter
continuare nell'antica sua strada. E così, dopo la metà del secolo
XV, noi vediamo ricomparire anche più chiaro lo stesso realismo, non
solamente nelle lettere, ma nelle scienze, nella società, nell'uomo.
Il bisogno infatti di studiare e conoscere il mondo, liberandosi
dai vincoli di ogni autorità, di ogni pregiudizio, creò la nuova
letteratura e la nuova scienza, iniziò il metodo sperimentale, spinse
ai più arditi viaggi, rianimò quasi di una seconda vita tutto quanto
lo spirito italiano. Fatto meraviglioso, perchè seguiva in mezzo al
più profondo sconvolgimento della società, la quale, corrompendosi e
decadendo, faceva germogliare i grandi elementi della cultura moderna.
Allora, come fu giustamente osservato, sembrava che fosse nella società
italiana scomparso ogni distinzione di classe e di sesso: i Mecenati e
i loro cortigiani, discorrendo di lettere o di scienze, si trattavano
come uguali, e si davano del tu; la donna studiava il latino, il greco,
la filosofia, e qualche volta governava gli Stati, accompagnava,
armata, in campo i capitani di ventura. A noi oggi reca grande
meraviglia, quasi profondo disgusto, quando sentiamo i più osceni
discorsi fatti in quel secolo alla presenza, non solo di culte matrone,
ma anche d'ingenue fanciulle; quando sentiamo ragionar di politica come
se la coscienza non esistesse. Ma l'uomo del Rinascimento credeva che
si potesse dire, esaminare e descrivere senza scrupoli, tutto quello
che si osava fare. E ciò non era sempre effetto della sua corruzione,
ma spesso invece conseguenza del suo realismo, bisogno di uno spirito
osservatore ed indagatore. Egli sembrava vivere in una calma olimpica,
sempre padrone di sè, sempre col sorriso ironico sulle labbra; ma
era una calma apparente. Egli in realtà soffriva per la disarmonia
interiore del suo animo, per la mancanza d'ogni equilibrio fra il vuoto
del cuore e l'attività febbrile della mente, la quale pareva qualche
volta che delirasse come in una ebbrezza inconsapevole. I rottami del
mondo medievale che l'uomo del Rinascimento aveva distrutto, e quelli
dell'antichità che aveva disseppellita, cadevano intorno a lui e su di
lui prima che egli avesse trovato il principio generatore d'un mondo
nuovo, e potesse convertire in propria ed organica sostanza tutti gli
avanzi del passato.
Sia che gl'Italiani, dopo aver create le grandi unità dell'Impero
romano e del Cattolicismo, fossero divenuti incapaci di creare una
società nuova, fondata solo sul libero individualismo moderno, a cui
pure avevano aperto la via, anzi lo avevano con l'opera loro formato;
sia che le invasioni straniere li avessero fermati nel mezzo del
cammino, certo è che paiono spesso come smarriti e incerti di loro
medesimi. Abbandonano ogni fede in Dio, ma credono nel fato e nella
fortuna;[243] disprezzano la religione, e studiano con ardore le
scienze occulte. Quasi ogni repubblica, ogni principe, ogni capitano
di ventura aveva il suo astrologo, a cui chiedeva l'ora propizia per
firmare un trattato, cominciare una battaglia. Cristoforo Landino e
Battista Mantovano tiravano l'oroscopo delle religioni; il Guicciardini
ed il Machiavelli credevano negli spiriti aerei; Lodovico il Moro, che
aveva una fede illimitata nella propria prudenza, non osava muovere
passo senza consultare l'astrologo. La ragione che voleva tutto
spiegare, si trovava invece di fronte alla propria impotenza.
Il sentimento del bello si direbbe che fosse allora l'unica e più
sicura guida della vita umana, la quale sembrava cercasse immedesimarsi
coll'arte. Nel _Cortegiano_ del Castiglione vediamo fino a qual punto
il gentiluomo del secolo XVI poteva, per questa via, ingentilire e
nobilitare sè stesso; ma vediamo ancora che debole fondamento aveva
la sua morale coscienza. La virtù, quando non risulta in lui da un
felice temperamento, viene cercata solo perchè gentile e graziosa ed
elegante, come dice il Pandolfini. Grandi, invero, dovettero essere
le qualità dell'ingegno e anche del carattere degl'Italiani, se in
mezzo a così profonda incertezza, essi non solamente non rovinarono
affatto, ma spinsero poderosamente innanzi la scienza, l'arte, la
società umana. Del resto, fu quello un periodo di transizione, che mal
si può giudicare nella sua irrequieta mutabilità, se non si esamina
come conseguenza del passato, e preparazione necessaria dell'avvenire.
Ad un tratto le invasioni straniere soffocarono ogni vita politica
fra noi, ed il Rinascimento italiano restò come istantaneamente
petrificato dinanzi ai nostri occhi, con tutte le sue incertezze, le
sue contradizioni. E forse perciò appunto riesce materia di grande
insegnamento per noi. In esso vediamo infatti assai chiara la notomia
del passato che si trasforma, scorgiamo le origini della società
moderna, impariamo a conoscere i primi germi di molti fra i nostri
presenti difetti nazionali.

IV.
CONDIZIONI POLITICHE DELL'ITALIA ALLA FINE DEL SECOLO XV

1. — ELEZIONE DI PAPA ALESSANDRO VI.
Più il secolo XV s'avvicinava alla sua fine, e più si vedeva
inevitabile la catastrofe da molti anni già preveduta. Quando Galeazzo
Maria Sforza fu pugnalato a Milano (1476), il figlio Giovan Galeazzo
non aveva che otto anni, e però la madre Bona di Savoia assunse la
reggenza. Ma i fratelli del marito defunto cospiravano contro di lei,
e finalmente Lodovico il Moro, che aveva titolo di duca di Bari, ed
era il più furbo ed ambizioso di essi, s'impadronì del governo. Prima
separò la Duchessa dal suo fedel consigliere Cicco Simonetta, che fu
messo a morte;[244] poi separò la madre dal figlio, che aveva solo
12 anni, e che s'indusse ad eleggere per suo tutore, con pubblico
strumento, il proprio usurpatore (1480). La Duchessa andò via, ed
il Moro restò di fatto signore di Milano; ma sempre in mezzo a mille
pericoli, perchè non riconosciuto da nessuno. Nel 1485 sfuggì a mala
pena al pericolo minacciato di una congiura ordita contro di lui.
Nel 1489 Giovan Galeazzo, che aveva già ventun anno, sposò Isabella
d'Aragona, figlia d'Alfonso duca di Calabria; e così in parte per la
cresciuta età, in parte per le impazienze della moglie, che cercava e
sperava aiuti dal re di Napoli suo avo, lo stato delle cose diveniva
assai pericoloso. Nel 1491 Lodovico il Moro sposava Beatrice d'Este,
ed allora le gelosie donnesche inasprirono sempre più gli animi,
alimentando i rancori. Tormentato dalla paura, non è dicibile quanti
disegni mulinasse l'irrequieto animo di lui, pronto sempre a mettere
l'Italia intera a soqquadro, pur di conservare la male usurpata
signoria. Il pensiero su cui da un pezzo ritornava, era quello di
chiamare i Francesi contro il re di Napoli, sperando così di sollevare
una guerra generale, in mezzo alla quale, con la sua accortezza,
nella quale, come dicemmo, riponeva una fede illimitata, sperava
d'aggiustare le proprie cose a danno di nemici e di amici. Che tutto
ciò gli riuscisse, era molto difficile; ma invece era assai facile
che scoppiasse una guerra generale e venissero gli stranieri a danno
comune. Infatti solamente Lorenzo dei Medici, con una grandissima
accortezza e perseveranza, sapeva tenere le cose in equilibrio, ed
impedire l'irrompere improvviso della catastrofe.
Per queste ragioni l'anno 1492 fu un anno infausto all'Italia. Il dì
8 aprile Lorenzo moriva, ed a lui succedeva il figlio Piero, assai
presuntuoso, leggero e vano, che perdeva il tempo nel giuoco della
palla e del calcio, incapacissimo a governare la Toscana, nonchè ad
esercitare alcuna autorità in Italia. E come se ciò non bastasse, il 25
luglio moriva Innocenzo VIII, e gli succedeva il più tristo di quanti
pontefici sedessero mai sulla cattedra di San Pietro, un uomo tale da
sconvolgere co' suoi delitti qualunque umana società.
Radunato appena che fu il Conclave (6 agosto), pareva non si trattasse
già dell'elezione d'un Papa; ma d'un giuoco di borsa, tale e così
manifesto era il mercato che si faceva dei voti. Il danaro era accorso
presso i banchieri di Roma da ogni parte d'Europa, per favorire l'uno
o l'altro dei tre candidati alla tiara. La Francia favoriva Giuliano
della Rovere, Lodovico il Moro favoriva suo fratello Ascanio, e questi
due parevano i più vicini a toccare la mèta. Ma Roderigo Borgia,
valendosi delle sue grandi ricchezze e delle sue più grandi promesse,
potè, quando Ascanio parve messo fuori di combattimento, guadagnare
per sè anche i voti promessi a questo, che era stato dapprima il più
temibile competitore, e che ora votò anch'egli pel Borgia, il quale
così riuscì finalmente eletto. La notte dal 10 all'11 agosto, egli
gridava fuori di sè per la gioia: «Io son Papa, Pontefice, Vicario di
Cristo!» Ed il cardinale Giovanni dei Medici, accostandosi all'orecchio
del suo vicino, il Cardinal Cibo, diceva: «Siamo in bocca al lupo,
che ci mangerà, se non fuggiamo in tempo.» Il giorno dopo tutta Roma
ripeteva che s'erano visti quattro muli carichi d'oro portare a casa
del cardinale Ascanio il prezzo del voto. Certo è che nel giorno
stesso della consacrazione (26 agosto), il nuovo Papa, preso il nome
di Alessandro VI, lo nominava vice-cancelliere della Chiesa, ufficio
ricchissimo, e gli dava anche il proprio palazzo, ora Sforza-Cesarini,
con ciò che vi si trovava. Feudi, ufficî, rendite ragguardevoli dètte
agli altri cardinali; giacchè tutti i voti del Conclave, meno cinque,
erano stati da lui comprati.
Alessandro VI ha una così gran parte nella storia d'Italia; il nome
dei Borgia desta tanto orrore, ricorda tante tragedie, si trova così
spesso mescolato col soggetto principale di questo libro, che dobbiamo
qui fermarci a parlare di lui e de' suoi figli. Ora i figli dei Papi
non si chiamano più nipoti. Roderigo Borgia, nato il 1º gennaio 1431
in Xativa presso Valenza, era nipote di Calisto III, che lo aveva
nominato vescovo, cardinale, vice-cancelliere della Chiesa con 8000
fiorini l'anno. Egli aveva studiato legge a Bologna, era pratico degli
affari, e sebbene non riuscisse sempre a dominare le sue passioni,
lasciando troppo facilmente vedere quel che pensava, sapeva pure a
tempo essere simulatore e dissimulatore impenetrabile. Non era uomo
di molta energia, nè di propositi deliberati; tergiversava per natura
e per sistema, e gli ambasciatori italiani più d'una volta lo dicono
«di natura vile.»[245] La fermezza e l'energia che mancavano al suo
carattere, venivano però supplite spesso dalla costanza delle sue
cattive passioni, che quasi lo accecavano. Sorridente e tranquillo
sempre, con l'aria d'un uomo espansivo ed ingenuo, amava il lieto
vivere, era sobrio, anzi frugale a tavola, e forse perciò coll'andare
degli anni si mantenne sempre assai vegeto. Avidissimo del danaro,
lo cercava con ogni mezzo e lo spendeva con ogni profusa larghezza.
La passione per le donne era quella che lo dominava sopra tutto; i
figli che ebbe da esse amava perdutamente, e voleva in ogni modo fare
potentissimi. Di qui la sorgente prima de' suoi delitti, che commetteva
con animo tranquillo, senza scrupoli, senza rimorsi, facendone quasi
pompa, non perdendo un'ora sola la calma, nè cessando mai di godere
la vita. Era già cardinale, sebbene assai giovane, quando Pio II
dovette a Siena, con una lettera molto severa, rimproverarlo, perchè
passava le notti nelle feste, ballando colle signore, come un laico
o peggio. Ma non valse a nulla, chè egli non sapeva, nè voleva vivere
altrimenti.[246]
Fra i molti amori del Cardinale, durò assai costante quello che ebbe
per Giovanna, chiamata Vannozza de' Cattani (_de Cataneis_), la quale,
nata nel 1442, era fin dal 1470 in relazione con lui, e gli diè molti
figli. Per nascondere lo scandalo, il Borgia più volte le trovò marito,
ed ai mariti dette ufficî e danari. L'ultimo di essi fu un erudito,
Carlo Canale, mantovano, cui il Poliziano dedicò il suo _Orfeo_.[247]
Non faceva però alcun mistero circa i figli, che anzi pubblicamente
riconosceva. Erano senza dubbio figli della Vannozza e di lui Giovanni,
poi duca di Gandia (n. 1474); Cesare, ben noto col nome di Duca
Valentino (n. 1476); Lucrezia (n. 1480); Goffredo o Giuffrè (n. 1481
o 82).[248] Oltre di questi aveva ancora altri tre figli di maggiore
età, Girolamo, Isabella e Pier Luigi, dei quali si sa assai poco, e
solo può dirsi molto probabile, che l'ultimo di essi fosse figlio della
Vannozza. Comunque sia di ciò, dopo la nascita di Giuffrè, cioè poco
prima della propria elezione, papa Alessandro, avendo la Vannozza già
passato i quaranta anni, sentì raffreddare l'antica passione per lei,
trattandola però sempre come madre de' suoi figli, sui quali accumulava
danari, ufficî, benefizî quanti poteva. Così ella resta d'ora in
poi nel fondo del quadro, e non piglierà parte ai tragici eventi che
avverranno fra non molto. Il Papa aveva affidato la figlia prediletta,
Lucrezia, alle cure di Adriana De Mila, sua parente,[249] che era anche
la più intima confidente de' suoi intrighi scandalosi. Sino dal 1489
vedova di Lodovico Orsini, ella aveva circa il medesimo tempo sposato
suo figlio Orsino Orsini con la famosa Giulia Farnese, bionda come la
Lucrezia, e per la grande bellezza chiamata Giulia Bella. Questa aveva
appena quindici anni, ed era già ammirata dal cardinale Borgia, che ne
divenne poi l'amante riconosciuto, quando s'allontanò dalla Vannozza.
Ed anche in ciò egli veniva secondato dall'Adriana.[250]
Tale era lo stato delle cose, quando egli fu eletto. Il 26 agosto venne
celebrata con insolita festa la sua consacrazione, e la Città Eterna
fu piena di fiori, di arazzi, archi di trionfo, statue allegoriche e
mitologiche, iscrizioni, una delle quali diceva:
_Caesare magna fuit, nunc Roma est maxima, Sextus_
_Regnat Alexander, ille vir, iste Deus._
Di questa elezione si spaventarono solamente coloro che avevano
conosciuto personalmente e da vicino il Borgia, come il cardinale dei
Medici e Ferrante d'Aragona, principe accortissimo, che rammentava
l'ingratitudine di Calisto III verso gli Aragonesi:[251] gli altri non
temevano o anche speravano. La vita scandalosa del nuovo Papa era nota
in parte; ma quali erano allora i prelati che non avessero intrighi
amorosi e figli? I primi giorni non annunziavano male, giacchè le paghe
cominciarono a correre regolarmente; l'amministrazione pareva avviarsi
con ordine; il prezzo delle derrate scemava; anche nella giustizia si
dimostrò un rigore, di cui eravi sommo bisogno, perchè nel breve tempo
corso dalla malattia d'Innocenzo VIII alla incoronazione d'Alessandro
VI, erano, si afferma, seguìte 220 uccisioni.
Ben presto però la fiera cominciò a metter fuori le unghie. La passione
d'ingrandire i parenti, specialmente i figli, alcuni dei quali il Papa
amava con delirio, divenne quasi cieco furore, e non si poteva più
prevedere dove dovesse trascinarlo. Nel primo concistoro (1º settembre)
il nipote Giovanni Borgia, vescovo di Monreale, fu nominato cardinale
di Santa Susanna. Il figlio prediletto Cesare, di 16 anni, che studiava
a Pisa ed era già corso a Roma, aveva avuto nel giorno stesso della
consacrazione l'arcivescovado di Valenza. Quanto a Giovanni, duca
di Gandia, ed a Giuffrè, più giovane di tutti, il Papa faceva vasti
disegni nel reame di Napoli, e voleva dare al primo i feudi di Cervetri
e d'Anguillara. Ma qui incominciarono subito gravissime complicazioni,
le quali inasprirono fieramente l'animo d'Alessandro VI.
Non era appena morto Innocenzo VIII, che il figlio Franceschetto Cibo,
conoscendo la sua mutata condizione, se n'era fuggito a Firenze, presso
il cognato Piero de' Medici, ed aveva per 40,000 ducati venduto appunto
i feudi di Cervetri e d'Anguillara a Gentil Virginio Orsini, capo della
famiglia, potentissimo e superbo a segno che aveva minacciato una volta
di gettare lo stesso Innocenzo VIII nel Tevere. Asserivasi inoltre
che Ferrante d'Aragona aveva anticipato il danaro. Di qui un odio
inestinguibile del Papa contro Ferrante, e più ancora contro l'Orsini.
In mezzo a tutti questi pericolosi disordini, Lodovico il Moro, per
conoscer meglio chi gli era amico e chi gli era nemico, propose che
i suoi ambasciatori andassero a congratularsi col nuovo Papa, insieme
con quelli di Napoli, Firenze e Venezia. La proposta non fu accettata,
perchè Piero de' Medici, così almeno dicevasi, per la vanità di mandare
un'ambasciata in suo proprio nome, indusse Ferrante a mettere innanzi
dei pretesti. Al Moro parve allora d'essere isolato in Italia, e si
volse disperatamente al partito di chiamare i Francesi.
Mentre così l'orizzonte già nero, diveniva ancora più tetro, il Santo
Padre non pigliava alcun partito, ma tergiversava con tutti, aspettando
a decidersi quando fosse possibile farlo con sicuro vantaggio per sè
e per i figli. E intanto profittava del tempo per darsi tutto, vecchio
com'era, ai piaceri. La Vannozza era ormai lontana dal Vaticano, ed il
Papa si abbandonava sempre più all'amore, cominciato già fin dal 1491,
con la Giulia Bella, che aveva allora 17 anni. La figlia Lucrezia, più
giovane di quattro anni, continuava a vivere in casa dell'Adriana, ed
in mezzo a questi scandali riceveva la sua prima educazione. Può ognuno
immaginar facilmente, se le era possibile ricevere quella coltura, che
alcuni pretesero attribuirle perchè imparò facilmente a parlar molte
lingue.[252] Ella, infatti, conosceva non solo l'italiano, il francese
e lo spagnuolo, che era la lingua propria dei Borgia; ma capiva il
latino, e qualche cosa pare che avesse praticamente appreso anche del
greco, forse dagli emigrati di Costantinopoli che frequentavano il
Vaticano. Pure le lettere che abbiamo di lei, le quali sono quasi tutte
di poca importanza, non valgono a dar prova di questa vantata cultura.
Quanto al suo misterioso carattere sarà meglio aspettare a giudicarlo
dai fatti; per ora l'aria che ella respira è avvelenata non meno del
sangue che scorre nelle sue vene.
Nel 1491, in età di soli undici anni, era stata con regolare contratto
promessa sposa ad uno Spagnuolo, e poi, sciolto il contratto, promessa
contemporaneamente a due altri Spagnuoli, con uno dei quali, don
Gasparo conte d'Aversa, tutto fu concluso. Ma salito sulla cattedra di
San Pietro Alessandro VI, la figlia del Papa non poteva più contentarsi
di un tal matrimonio. Difatti venne sciolto il contratto con danaro,
ed il 2 febbraio 1493 Lucrezia Borgia, _virgo incorrupta, aetatis iam
nubilis existens_, sposò Giovanni Sforza, signore di Pesaro.[253] Le
nozze furono celebrate il 12 giugno in Vaticano, con grandi e ricchi
donativi alla sposa, che portava una dote di 31,000 ducati; con
splendida festa, cui intervennero da 150 signore; con una cena data
agli sposi dal Papa, alla quale presero parte Ascanio Sforza, parecchi
cardinali e alcune signore, fra cui primeggiavano, come racconta
l'ambasciatore di Ferrara, «Madonna Iulia Farnese _de qua est tantus
sermo..._,[254] e Madonna Adriana Ursina, la quale è socera de la
dicta madonna Iulia.» Si attese l'intera notte a danzare, a recitar
commedie con canti e suoni, e furono presentati ricchi donativi. Il
Papa, conchiude l'ambasciatore, assistè a tutto, e sarebbe troppo lungo
descrivere ogni cosa: _Totam noctem consunpsimus, indicet modo Exc.
Dominatio Vestra si bene_ o _male_.[255]
Il duca di Gandia s'apparecchiava ad andare nella Spagna, per contrarre
un ricco matrimonio. L'altro figlio del Papa, Cesare, sebbene,
giovane come era, avesse un vescovado col benefizio di 16,000 ducati
l'anno, pure si mostrava assai insofferente della vita ecclesiastica;
andavasene a caccia vestito da laico; aveva passioni violenti ed
irrefrenabili; esercitava sull'animo del padre un ascendente quasi
magnetico. Quanto a Giuffrè, si facevano sempre nuovi disegni di
matrimonio.[256] Roma era intanto piena di assassini e di delitti,
di preti, di Spagnuoli e di donne perdute. Ogni giorno arrivavano
Musulmani ed Ebrei cacciati dalla Spagna, i quali trovavano facile
accoglienza, perchè il Papa, imponendo loro gravi tasse, si faceva
largamente pagare la sua cristiana tolleranza. Egli stesso andava a
caccia o al passeggio, circondato d'armati, in mezzo a Gemme ed al duca
di Gandia, vestiti ambedue alla turca. Qualche volta fu visto ancora
fra le sue donne, con abiti alla spagnuola, con stivali, pugnale ed un
berretto di velluto assai elegante.[257]
Da un pezzo i Papi del Rinascimento s'erano abbandonati alla vita
mondana ed ai vizî: ma solo il Borgia, perduto ogni pudore, ne menava
vanto e ne faceva pompa cinicamente. Fino allora non s'era visto,
nè poi si vide mai, la religione tanto profanata dal Santo Padre,
in mezzo al sorriso ironico ed ai più spudorati baccanali, tutto ciò
accompagnato da un'aria d'ingenua bonarietà![258]

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