Le rive della Bormida nel 1794 - 15

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«Oh! allora dovranno venirla a togliere di qui a forza! sclamò la
signora, lieta di potersi porre a qualche sbarraglio, ora che suo
figlio pericolava a Torino:--di qui Tecla non uscirà più; alla fine
delle fini, baciar la polvere ogni volta che il signor pievano lo
vuole, non è manco da cristiani!
«Ma egli ha smessa l'idea;--aggiunse don Marco--ed anche mi ha
promesso di scrivere a Torino lodando Giuliano.»
Discorsero un altro poco di Tecla, del signorino, del pievano; e
quindi si lasciarono colla buona notte. Don Marco fu accompagnato da
Marta nella camera di Giuliano, dove la signora faceva tenere il letto
sempre rifatto, perchè a vederlo le pareva che il suo figliuolo non
fosse via: ed era una sua dolce illusione. Là il prete vide libri e
schioppi in bell'ordine; e avvicinatosi allo scrittoio trovò su certi
fogli molti visi di donna abbozzati, che tutti somigliavano a Bianca.
«Gran musa l'amore!» disse tra sè, e sedutosi, cominciò a scrivere la
lettera a quella gentildonna di Torino, molto raccomandandole il suo
antico scolaro. Poi si coricò, e don Apollinare, Giuliano, il signor
Fedele, l'Alemanno, Bianca e quella Tecla infelice, forse più di
tutti; gli uni con faccia di scherno, gli altri di dolore, gli
facevano nella fantasia una ridda, che gli metteva la febbre.
Meditando sul fatto di quella sera, e sulle parole dette da Tecla nel
punto in cui era stata trovata; finì per credere che Marta avesse
ragione, e che la fanciulla fosse davvero innamorata del signorino. Il
primo pensiero fu di immischiarsene pel bene di tutti, ma gli parve di
sentirsi negli orecchi una gran risata del padre Anacleto, e la voce
di lui dirgli: «prete, tu trovavi a ridire di me?» Con questo, contro
ogni sua speranza, gli venne il sonno; e in casa la signora Maddalena
tutto fu quiete, come fosse stata non abitata.


CAPITOLO XII.

L'indomani un po' dopo l'alba, don Apollinare stava sotto il
portichetto della chiesa, con parecchie divote che avevano udito la
messa; lo speziale apriva la bottega, e uscito a vedere che tempo
facesse, si mescolava al crocchio: un uomo attempatetto, che era il
cerusico, montato su d'un cavalluccio per avviarsi a visitare i
malati, si fermava a barattar con essi qualche parola, sul fatto della
sera innanzi: parevano l'ultima nuvola d'un temporale notturno,
risolto da un vento benefico, in un mattino quieto.
Marta, che manco per mezzo mondo, non avrebbe lasciata nella propria
vita la lacuna d'una messa perduta, perchè le sarebbe parso di non si
poter più fidare tranquilla all'eternità; aveva penato a non
trattenersi a dire anch'essa la sua; ma si era fatta forza, e
discendeva di castello frettolosa, per giungere a tempo, se la padrona
e don Marco levandosi, bisognassero di nulla. E camminando le pareva
di aver sognato, su quello che le era stato detto dalla signora, che
Tecla, da quel giorno in poi in cambio di andare a pascere il branco,
e a spigolare dietro i mietitori, sarebbe rimasta in casa come una
figliuola. Il villano che per pietà prese la serpe a scaldarsela in
seno; al sentire di Marta non se n'era di certo pentito, come la si
sarebbe di poi la signora, inconscia del capriccio annestatosi in capo
alla figlia di Rocco. Eppure non poteva avvisarla, non poteva dirle
che badasse bene. Perchè don Marco l'aveva consigliata a tacere quel
suo sospetto: e per essa contradire un prete, se proprio non v'era
tirata pei capelli, valeva quanto usare scortesia ad un angelo del
cielo, se l'avesse incontrato per la via, come ai tempi d'Abramo.
Giunta a casa, trovò che la padrona, don Marco e Tecla, facevano
colazione, sebbene non fosse peranco l'ora; e vedendo che la
fanciulla, servito il latte, ed affettato il pane, sedeva a mensa con
essi, assai bene composta; capì con dolore, di non essere necessaria
là dentro; ingelosì, corse in cucina, e forse pianse. Tecla s'era
accorta dell'animo di lei, e dalla confusione manco non aveva osato
levare gli occhi a guardarla. La signora e il prete non badarono ad
esse; occupati l'una a pregar l'altro di rimanere, mentre questi si
schermiva, e persisteva nel voler partire; e alla fine s'accommiatava
che poteva essere un'ora di sole. Passando dinanzi alla casuccia di
Rocco, vide costui che dava dentro nel pestello, a fare un savoretto
d'aglio da spalmarne la polenta; e capì che il pover'uomo, mezzo
scornato la sera innanzi, stava sulla porta a pestare, perchè le donne
del vicinato lo vedessero, e fossero persuase che in casa sua v'era
tutt'altro che guai, che anzi vi si scialava a mangiare. Lo salutò,
senza potersi tenere dal sorridere di quella semplicità; e Rocco e la
sua moglie riconoscenti, per poco non gli chiesero la benedizione,
come ad un monsignore.
Indi a poco Anselmo, fatto chiamare dalla signora Maddalena, giungeva
a cavallo in sul piazzale. Questa afflitta per l'addio di don Marco,
gli diede la lettera di lui da portare in Alba, al gastaldo della
marchesa di G...; coll'incarico di dire a costui, che la mandasse in
gran diligenza alla sua padrona in Torino. Anselmo avute le
raccomandazioni e alcune monete, levò il trotto allegro come il sole
di maggio; e poi che fu sparito, la signora, Tecla e Marta si
ritirarono in casa, ognuna pensando a Giuliano secondo il proprio
cuore; meste come se quella solitudine in cui rimanevano, non avesse
dovuto mai più finire.
E Giuliano? Avveniva di lui come di tanti, che mentre a casa loro si
sta dì e notte in pena per essi; cercano lontano gli spassi e la lieta
vita, badando a fare i magnifici della roba sparagnata dai parenti?
Se fosse stato a D...., sotto gli occhi di sua madre, non avrebbe
potuto essere più raccolto, nè più severo di vita; e dal dì del suo
ritorno a Torino, che facevano appena due mesi, s'era così mutato, da
mostrare qualche anno di più. Seguiva di lui, come di certe fanciulle,
che dall'oggi al domani ti capitano innanzi indonnite: e pareva un
uomo, che già avesse trovato il suo da fare nella vita. Non era
malinconico, sì che altri se ne accorgesse, ma schivava ogni spasso;
taciturno e solitario, invece d'uno scuolare, che non vedeva l'ora di
potersene tornare medico alle sue montagne; lo si avrebbe creduto uno
dei tanti fuorusciti francesi, che di quei giorni, andavano randagi
coi segni in viso di lutti domestici, o di sconfitte toccate alla loro
parte. Faceva le sue passeggiate per le vie più deserte della città;
desinava or qua, or là nelle osterie più basse, per ascoltarvi i
discorsi dei popolani, i quali già osavano sussurrarsi qualche parola,
e mostrarsi vogliosi di vedere i mutamenti del mondo: e il meglio
delle sue giornate, studiava nella camera, che aveva presa a pigione
sui lembi della città, dalla banda della fortezza; luoghi memori
dell'eroismo di Micca, di cui non so se i discendenti rosicchiassero
sin d'allora il tozzo di pane, dato dai re di Sardegna alla schiatta
del prode. Di certo gli accadde più d'una volta, di meditare sul gran
gesto del popolano Canavese, e di vederne l'ombra passare nelle
tenebre, colla face in mano, e coll'anima immortale tutta negli occhi.
E pensando ai Francesi combattuti da lui, e a quelli che adesso si
affacciavano all'Alpi; gli parve che a mutare l'ire dei popoli in
fratellanze durature, non mancasse che un po' più di luce nelle menti
delle moltitudini.
Il mattino e la sera, soleva salire sulla terrazza della casa; e di
lassù pasceva l'animo contemplando la natura, maestra sovrana di chi
sa capirne i divini linguaggi. E talora sprofondava lo sguardo nelle
valli delle Alpi, velate dall'azzurro vaporoso delle lontananze; e
colla fantasia trovava in seno ad esse, i villaggi, sorgenti in mezzo
al verde dei prati irrigui, o fra macchie di pini. Sulle case vedeva
levarsi i campanili delle chiese; e all'ombra di queste, serene figure
di vecchi parrochi, sedere fra i borghigiani, poveri e degni di
riverenza. Ma la memoria di don Apollinare, subito gli guastava nella
testa la dolce visione. «Illusioni, illusioni!--diceva--tali quali si
fanno, i preti sono tutti d'una maniera; noi ce li figuriamo
sacerdoti, e in cambio non sono che uomini, i quali più o meno fanno
un mestiere.» Spingeva allora quello sguardo dalle valli basse alle
altissime vette; e si pregava d'essere un pastore, d'avere lassù sua
madre e Bianca, per vivervi con esse d'amore, di meditazione e di
libertà. Poi si volgeva dalla parte di mezzodì, cercando
nell'orizzonte gli Apennini nativi, sebbene sapesse di non li poter
scoprire; e colla guancia raccolta in una mano rimaneva in quell'atto
sin che facesse notte, e la città e i colli che soggiogano il Po,
cominciassero a brillare d'innumerevoli lumi. Fantasticava su questi,
quali rischiarassero le quiete cene delle famiglie; quali il piacere,
lo studio, il dolore, e quali la morte. Allora lo coglieva un'onda di
pensieri lugubri; e se qualche rintocco di campana gli veniva di lungi
nell'orecchio, provava di quello un'amarezza soave, e pensava alla
religione della sua giovinezza come ad un bel sogno, che non gli era
dato rifare. Altrettanto gli accadeva, passando la sera dinnanzi a
questa o a quella chiesa. I suoni dell'organo gli avevano molte volte
rotto il passo, e si era fermato. L'ombra che piena di misteriosi
inviti, avvolgeva i divoti; la luce tremolante che diffusa dall'altare
si frangeva nel fumo degli incensi; la voglia dei ricordi infantili
serbati nel cuore; tutto gli faceva forza. Ma ecco il ricordo delle
sue vacanze di Pasqua; ecco l'immagine di don Apollinare affacciarsi
di nuovo alla sua mente; ecco quelle di tutti i preti a lui noti; e
sola tra tante la umile, mesta, quasi rifiutata figura di don Marco,
che gli paresse spirare qualcosa della religiosità predicata dal
clero. Allora egli tirava oltre, pensando se mai fosse venuto sulla
terra un sacerdozio veramente cristiano; e finiva ricoverandosi nello
spedale, cercando il letto dell'infermo che fosse più giù della vita;
e medico a un tempo e consolatore, vi stava la notte intera. E se su
quel letto discendeva la morte, le parole «parti o anima
cristiana....» suonavano all'orecchio del moribondo sentite, piene,
feconde; gli infermieri piangevano, e loro pareva di non averle mai
udite, nel modo che quel giovane, selvatico e fantasioso, sapeva
dirle. Egli credeva.
Quelle notti passate fuori di casa, avevano dato nell'occhio alla
vecchia che li appigionava la camera; la quale aveva notato, come
oltre a quelle, si ritirasse anche ogni altra assai al tardi.
Accostumata con giovani pigionali, che i più non si davano pensiero,
se non di far buon tempo; pensava che qualche intrigo di basso amore,
lo tenesse fuori fino a quelle ore insolite; ed era stata più volte a
un pelo di lagnarsi con lui, che non l'aveva posta di mezzo in tali
faccende. Se egli avesse indovinati i contacci, che colei faceva sui
fatti suoi; ne avrebbe preso sdegno, come fanciulla dabbene cui venga
usata villania disonesta; e messo in fascio roba, libri, ogni cosa,
sarebbe tornato di casa altrove. Ma in tutto il tempo che era stato là
dentro, non aveva barattato con essa quattro parole; non le aveva mai
dato appicco di dire più che il buon giorno, o la buona notte; augurio
sibilato tra i denti lerci da quella arpia, mentre gli porgeva la
lucerna, che egli pigliava camminando difilato in camera, senza
badarle. Così ignorava di che tempera essa fosse, e come non avesse
saputo porre gli occhi sopra di lui, giovane e bello, senza bruttarlo
coi suoi pensieri. Quella era una donna, che guardando il cielo
stellato; non vi avrebbe visto più di quello che vi vedono le
giovenche e gli altri animali: e Giuliano, casto come i veri forti, e
pieno di amore per fanciulla lontana, cui si avvicinava col pensiero,
ora per vie ridenti di fiori d'ogni generazione; ora per altre meste
come quelle dei cimiteri; non meritava d'essere giudicato da lei. Ma
questo era il minor male che gli potesse incontrare; perchè, guai a
lui, se essa avesse avuto naso più fino! Persona da saper fare d'ogni
lana un peso, sarebbe andata ad accusarlo al bargello; e una bella
notte avrebbe fatto lume ai birri, venuti a levarlo di quella
cameretta; che allora valeva quanto essere spacciato. Egli s'era
scritto ad una di quelle compagnie d'uomini amatori di cose nuove; e
usava trovarsi con essi ai notturni convegni. Quelle compagnie erano
già numerose, e da quartiere a quartiere, da città a città, si
cercavano, si davano l'intesa, si adunavano di segreto, crescevano
ogni giorno di speranza e d'ardire. In quelle fratellanze misteriose,
egli si vedeva accolto di gran cuore, come giovane di alti pensieri,
d'animo pronto e devoto; stimato dai compagni di studio come uno dei
loro capi. E della scolaresca, i buoni s'ingegnavano di somigliargli;
i chiassosi, diluviatori, sfaccendati, n'avevano soggezione; e nelle
ore pentite pensavano a lui, invidiandogli quella sua bella natura. La
parola di Giuliano suonava in quei convegni, ricca di immagini come
sogliono averla i marinai ed i montanari; si capiva che tutto quello
che egli diceva lo credeva, e sarebbe morto per confermarlo, se fosse
bisognato.
A lui si leggeva in viso qualche segno, come di una potenza che
dall'infuori gli governasse l'animo; ed era un occhio dolce di donna,
che egli si vedeva dinanzi, intento, amico, ispiratore. Quell'occhio
lo accompagnava per tutto, sotto quella vista cresceva nell'arte sua;
s'afforzava nei pensieri di ribellioni generose; s'avezzava sobrio ed
austero; studiava, sperava ed amava: la scienza, la rivoluzione, sua
madre e Bianca, erano i suoi amori. Di questa, in tutto il tempo che
mancava da D...., non aveva avuto nè chieste novelle; non volendo
risicare la ricca illusione, per sapere cose che, delle due l'una, o
erano conformi a quella, o tali da struggerla tutta. Pure gli
incontrava sovente di non si poter levare dal cuore una mestizia, che
gli recava in malaugurio ogni cosa. Il parentado con Bianca gli pareva
stornato da lunga pezza; immaginava che l'Alemanno l'avesse sposata in
quei mesi, o fosse lì per isposarla; voci misteriose lo ammonivano dal
fondo del cuore; di pensiero in pensiero, di dubbio in dubbio, andava
tant'oltre che vedeva il corteo nuziale, l'altare, il frate, i due
felici sorridentisi alla balaustrata della chiesa di C.... là dove fin
dai primi anni che aveva vista Bianca, egli s'era messo a sognare
d'inginocchiarsi con essa, a darle l'anello.
Se ne sentiva al cuore un dolor di morte; ma subito il dolersi, il
piangere, gli parevano uno sfogo dei dappochi, e gli balenava l'idea
del ritorno improvviso. Tornare, sì, a casa; correre a C..., scendere
dal signor Fedele, e sposa o no, portarsi via Bianca. Ma.... «se fosse
già di quell'altro» gli chiedevano quelle voci misteriose; «se la
fortuna ti pigliasse a gabbo, così che tu capitassi laggiù proprio a
vederli in chiesa, a udirli dire di sì...» Allora gli si levava dentro
un fiotto d'ira, e sin che non gli suonassero nella memoria le
promesse di Bianca, portategli da sua madre quando era stata a C... in
quelle vacanze di Pasqua, meditava cose lugubri. Tornata la calma,
ripigliava lena a studiare; affrettava coi voti il giorno in cui
sarebbe partito da Torino colla sua pergamena da dottore in saccoccia;
gli bisognavano poco più che due mesi, e poi il signor Fedele e il suo
Alemanno l'avrebbero visto.
Con questo frequente mutarsi di timori, di dubbi e di speranze, viveva
e scriveva a casa ogni quindici dì, quando la posta correva; e tra
bene e male veniva anche per lui la fine di quel maggio, nel quale
dalle sue parti era accaduta, la spedizione del popolo in armi al
Settepani; la conversione di Bianca; l'assunzione di Tecla a più
nobile vita: quel maggio in cui per amor suo, la signora Maddalena non
s'era manco accorta della bella stagione, nè aveva sentito quegli inni
che il cuore canta anco ai più miseri, e il labbro non sa ridire, nè
il poeta ha mai scritto.
Un di quei giorni, che la lettera di don Marco alla marchesa di G...
era capitata al suo destino, meglio che da una settimana, Giuliano
stava alla finestra di quella sua cameretta, coll'occhio rivolto alla
fortezza, dove era un insolito moto. Vedeva sugli spalti erbosi molti
soldati, e sui vasti piazzali un addensarsi di schiere, un andare e
venire di messaggeri; con quell'aspetto strano che avrebbe un
villaggio dove non fossero nè femmine, nè fanciulli; e gli abitanti
vestissero tutti ad una foggia, e non sapessero camminare se non
armati, allineati in molti, stecchiti ed arcigni. Turbe di popolo
traevano dalla città, e si fermavano a piè delle mura ferrigne; dal
ciglio delle quali sporgevano molti cannoni a guisa d'animali che
posassero, e luccicando al sole, parevano mandare biechi ammiccamenti.
A un tratto comparvero, dentro quelle mura due uomini, accompagnati da
un drappello di fanti sino a mezzo lo spazzo; e là sederono su due
scranne, ciascuno con una persona nera allato, prete o frate.
Giuliano, sentì, come se fosse stato al posto d'un di quei due, il
peso degli sguardi di tutte quelle schiere; capì che erano condannati
a morte, e sentì un rapimento dell'anima in alto; a guisa di aquila,
che turbata od offesa, va a nascondersi tra le nubi. La scena, rimasta
silenziosa un poco, fu mutata da un suon di tamburo; la folla fuori la
fortezza ondeggiò commossa da quel suono; i soldati fecero un gran
moto di braccia e d'armi; le sentinelle uscite dai casotti degli
spalti si atteggiarono a rispetto: qualche cavaliere corse su e giù,
dall'uno all'altro dei gruppi pomposi di pennacchi fluttuanti; poi il
silenzio tornò lugubre. Allora un ufficiale s'appressò ai due
condannati; si vide all'atto che strappava ad essi le assise, mentre
un altro a cavallo pareva leggere un foglio, forse una sentenza:
quindi s'allontanarono e rimasero i preti, i quali bendarono gli occhi
agli infelici, poi se ne staccarono anch'essi; e allora s'udì un
fragore di molti tamburi e uno squillar di trombe, un nembo di fumo
avvolse per un istante quei due; e subito dissipato dal vento, li
lasciò vedere a Giuliano distesi a terra...... Si levò dalla finestra
collo scompiglio nell'animo; e quasi senza avvedersene, sbattè le
imposte e gli scurini in faccia alla luce, che non gli entrasse in
camera; adesso che aveva rischiarato l'orribile scena. Poi si buttò
sul letto bocconi, e colla faccia contro il guanciale, stette
tribolandosi in abissi di fantasmi, di luci stranissime, di deformità
chimeriche. Indi a poco, irrequieto come per bevanda che lo turbasse,
si levò da giacere, riaperse la finestra, provò un altro desiderio;
uscire, andare a una lunga passeggiata, fuori la città: andare, andare
dove che fosse, anco lontano fin dove il vento arrivava a soffiare.
Uscì col fare d'un uomo che preso il broncio in famiglia, vada a
gironzare per isvagarsi; e discendendo trovò per le scale un tale, che
aveva rondinato sulla via, mentre egli era alla finestra a guardare la
scena descritta quassù. Costui soffermatosi a fargli largo, si
scoperse il capo rispettosamente, e domandollo del suo nome.
«Giuliano.... da D....» rispose il giovane che non badava ad andare
sconosciuto; e si fermò anch'egli a figurare quell'uomo, il quale
inchinatosi un'altra volta gli disse:
«S'è tanto mutata, da quando non l'ho più riveduta, che penava a
ravvisarla. Come vede dalla mia livrea, io servo la eccellentissima
marchesa di G...., la quale mi manda a cercare di lei da parecchi
giorni, e questa sera la vuole nel suo palazzo.
«Ditele in mio nome, che non dimenticherò di venire.»
Il servitore fece la sua terza riverenza e s'accommiatò. Giuliano gli
tenne dietro, strologando sull'avventura, e su quello che la marchesa
di G.... poteva volere da lui; non tornato più a rivederla dalla prima
volta ch'era venuto a Torino, due anni innanzi: e come fu sulla via,
si lasciò portare dalle gambe, senza por mente verso dove.
Per chi sa quali varchi, che a noi non importa conoscere, riuscì di là
del Po; dove i margini del fiume reale, le colline, il monte dei
Cappuccini, gli parlarono delle rive modeste ed amene della sua
Bormida, e del castello di D...., al quale il monte ed il convento
somigliavano un poco per le conformità e per la postura. Ma, non
sapendo neanch'egli qual fosse, desiderio suo, o invito che venisse
dall'aria; pigliò la via che saliva lassù, e pareva quella che a
D...., per l'erta del colle, menava al presbiterio di don Apollinare.
L'acciottolato, l'erba delle prode, l'ombra delle quercie, tutto v'era
come a D...; senonchè là si abbatteva in frati che discendevano, in
divote brigate che montavano; il colle pareva un luogo santo di
pellegrinaggio: al castello di D.... in cambio, salvo i dì di festa,
non si vedevano mai che le stesse persone, i signorotti della terra,
che menavano vita allegra e sconclusionata.
Giunto in cima, dove chi s'affaccia al muricciuolo che cinge il
sagrato, può secondo la natura sua accontentarsi di guardare la città
sottoposta; o per quanto gli vale l'occhio, ammirare la vista
sterminata di pianure, di colli, d'acque e d'Alpi, che fantasia umana
non saprebbe trovare più bella; si arrestò, crollò il capo, diede di
volta senza pur badare a quello spettacolo, in cui l'animo suo si
sarebbe ricreato altra volta lungamente. Tornò a valle, infilò la via
lungo la riva destra del fiume, verso Superga; andò su e giù un poco
come smemorato; poi trovato un navicellaio, scese nel burchio e si
fece traghettare all'altra sponda. Di là per campi e per vie traverse,
andò a porsi in un'osteria campestre, vi mangiò vi bevè; s'allontanò
quindi nè tristo nè lieto più di quello che fosse stato tutto il
giorno; e per altra porta da quella che aveva passato ad uscire, tornò
in città che il sole andava sotto.
Ridottosi in camera, si pose in gamba le meglio brache del suo
corredo; indossò un panciotto ed un giubboncello di seta, ornati assai
bene di sopragitti lungo le occhiellature, alle pettine, ai paramani;
calzò un paio di scarpini leggeri; e tornato fuori prese la via verso
il palazzo della Marchesa. Là trovo una turba di servi a terreno, una
turba su per le scale; e in cima a queste gli si fece incontro quel
domestico, che era stato il mattino ad invitarlo. Costui lo mise
dentro ad una vasta sala, illuminata che meglio non poteva essere se
vi fosse stato il sole; popolata come una chiesa in tempo d'uffici; e
lo accompagnò coll'annunzio del suo nome alto e sonoro.
Giuliano si fermò sulla soglia un poco, e le orecchie gli fischiarono
come ad uno che rompendo improvviso in una battaglia, capitasse nel
più fitto grandinare delle palle. Tutti quei crocchi, tutte quelle
teste bianche che non si lasciavano scernere le giovani dalle vecchie
quegli occhi di donne, che si socchiudevano per isbirciare lui; gli
fecero un senso tale, che per poco non diede di volta frettoloso. Ma
la gentildonna padrona di casa gli mosse incontro, lo prese per una
mano, lo trasse in mezzo a quelle beate amicizie; le quali tutte
accennarono garbatamente di non disgradirlo; poi se lo fece sedere
allato, e mentre i crocchi ripigliavano i loro parlari, essa si mise a
discorrere con lui.
Egli era preso in fra due: da una parte lo splendore dei doppieri, la
magnificenza delle arazzerie e delle supellettili, in cui era
sfoggiato lo stile di non so quale Luigi; dall'altra le parole della
gentildonna, che lo assaliva con una procella di domande, e di
rimproveri, sul non essersi egli fatto vivo, da quella prima volta di
due anni innanzi; sicchè essa aveva creduto ch'egli stancatosi di
stare a Torino, e tornato a D...., non fosse più rivenuto. Giuliano a
trovar scuse, a darle contezza di sè, de' propri studi, di D..., di
tutto quello che la marchesa menzionava; e intanto i discorsi dei
crocchi si facevano più caldi, più confusi, più alti, sul fatto
seguito quel giorno nella fortezza, e sulla morte meritata dal
cavaliere di Sant'Amore, e da Mesmer; i quali comandando l'uno la
fortezza di Saorgio nell'Alpi marittime, l'altro quella di Mirabocco
dalla banda di Savoia, le avevano date in mano ai Francesi.
Moschettati per traditori, tutta Torino aveva parlato di loro; ma
adesso in casa alla marchesa se ne parlava ancora, come tra persone
che nelle faccende dello Stato avevano molto a ridire.
Giuliano teneva un orecchio alla gentildonna, l'altro a quei discorsi:
e ad ogni poco il cuore gli si accapricciava. La disputa era venuta
innanzi così calda che già si cominciava a chiedere d'un arbitro, che
sentenziasse fra le due parti; delle quali chi s'accontentava della
morte data col piombo ai due sciagurati, pur che fossero stati
moschettati nelle schiere; chi avrebbe voluto che gli avessero
appiccati alle forche, a guisa di coloro che assassinavano alle
strade. Provò d'essere là dentro uno sgomento indicibile; tutto quello
splendore d'arredi, di vesti, di vezzi scintillanti dalle gole e dai
polsi delle dame, gli parve una cosa tetra; e quando una voce chiamò
giudice lui, quasi per fargli capire che egli solo non essendo nobile,
poteva mostrarsi imparziale; purchè parlasse col dovuto rispetto, e
guardando da sotto in su; egli rispose:
«Di quel che corra tra i diversi modi di morte io non so giudicare:
questo so che sino a quando la morte sarà data in pena a chi fa il
male, essa parrà agli uomini se non una cosa turpe, almeno il maggiore
dei mali. Così se ne oltraggia la santità, si allevano gli uomini
codardi; e si fa della morte quel che si è fatto di tante cose
santissime...! E poi uno sia reo quanto si vuole...; più della colpa
mi stupisce questo, che i più caldi a volerlo morto, sono coloro che
credono esservi un luogo nell'altra vita, dove lo spirito nostro si
purga: ora se là, perchè non si potrà diventare migliori anche
qui...?»
A queste parole si levò un bisbiglio, somigliante al ronzio che
farebbe uno sciame d'api, turbato improvvisamente nella sua pastura: e
fu uno scontento, un volgersi di teste, uno scuotersi di code, uno
scarpiccio irrequieto, da non potersi dire. Giuliano da qual parte
mirasse, vedeva nasi agricciati, menti sporti, sorrisetti schifiltosi;
ma non uno degnò di rimbeccare, come avrebbe meritato, quel plebeo; il
quale aveva osato entrare là con in capo certi pensieri; su per giù
come un villano, che vi fosse venuto colle scarpe inzaccherate.
Egli semplice nell'atto, sereno in viso, e nulla maravigliato, stette
un poco a quella sorta di temporale: poi rivoltosi alla marchesa le
disse, che se nulla avesse a comandargli, gli bisognava partire; e si
levò in piedi. La gentildonna accennò col capo, si levò anch'essa, gli
dette a toccare la punta delle sue dita sottili e fredde; lo guardò
bene, quasi per accertarsi se egli fosse davvero quel Giuliano, di cui
le parlava la lettera di don Marco; e avuto l'ultimo inchino, lo
lasciò che andasse.
I servi stupirono di vederlo partire così in fretta, ed egli quando fu
sulla via, diede una grande rifiatatona. La notte era molto innanzi;
la luce dei fanali pallida e poca; l'aria quieta. Si sentì allora,
come un pesce che sguisciato di mano al pescatore, dà due o tre
saltelloni sulla spiaggia e si rituffa nell'acqua: andò a zonzo una
pezza, e si ritirò che era la mezzanotte. A vedere le pareti della sua
camera, sciolte e senza ornamenti salvo che di alcuni quadri di santi,
effigiati per modo da parere più alla tortura che fra le gioie del
paradiso; fece paragone di quella sua abitazione con la sontuosissima
della marchesa; e coi soffittoni, dove il popolo della città, allora
come oggi, nasceva e moriva, sopra poca paglia, coll'orcio dell'acqua,
e il lumicino sepolcrale, in capo al giaciglio. Gli parve d'essere
agiato sin troppo, e pensando a D...., e alla propria casa, che si
poteva stimare una cosa di mezzo tra un palazzo e una catapecchia
plebea; più che ad abellirla, si sentì tirato a farla modesta.
Disegnando su questo a seconda dei pensieri che gli frullavano pel
capo, si coricò; per destarsi l'indomani a ripigliare la sua vita di
studio, di solitudine, di sogni d'amore: ma in casa la marchesa non
tornò più. Nè questa se ne dolse a lui per imbasciata, o in altra
guisa; solo volle tenerlo guardato per uno dei servi più fidi;
vogliosa di far servizio a quella buona signora Maddalena e a don
Marco. Seppe che nello studio, proseguiva ad essere riputato dei
migliori, sebbene menasse vita selvatica e da uomo di sua testa; ma le
dolse chiarire come nei libri della polizia, il nome di lui fosse
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