Le rive della Bormida nel 1794 - 20

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che tra balcone e balcone, formando bellissimi tralciati, toccavano
colle vette le gronde del palazzo, a recarvi chi sa se noia o diletto
alle rondini, che vi appiccavano i nidi. Bell'e in mezzo al cortile
v'era una cupoletta leggiadra, assiepata da gelsomini rigogliosi; ma i
fiori d'alcune aiuole ben disposte qua e là negli angoli, perchè il
sole vi poteva poco, erano pallidi come visi di monachelle, che se
anco belline hanno sempre sulle guance i segni dell'aria morta del
chiostro. Di là dall'atrio si pigliavano le scale, che mettevano ad un
ampio ambulacro, e più oltre ad un uscio, i cui stipiti e l'architrave
erano stati condotti con gran maestria in marmo persichino, cavato
dalle montagne di quelle parti. E l'uscio poneva in una di quelle sale
vaste, le quali, ad entrarvi da soli, danno un po' di sgomento; e
l'uomo vi si trova piccino e così leggero di panni, che per istarvi
bene avrebbe proprio mestieri d'essere vestito di ferro. L'altezza
della volta era molta sfogata, e aveva nel mezzo uno stemma recante
aquila bicipite, carro e cimiero, ad alto rilievo; e quando la sala
era illuminata scarsamente, e il venticello delle finestre faceva
ondeggiare le fiamme, alla luce ricevuta di sotto in su, quell'aquila
dai rostri e dagli artigli dorati, pareva muoversi come cosa viva e
pronta a spiccare il volo. Di là da questa v'erano due altre sale, ed
oltre e sopra per lunghi giri, stanze e corridoi d'ogni conformità; di
chè il volgo accostumato a vivere ammucchiato nelle sue catapecchie,
aveva mille ubbìe su quell'edificio così vasto, e lo guardava quasi
con paura. Le femminette compativano i poveri soldati, costretti ad
abitare in quel luogo malurioso; e quando fu accesa la guerra in su
quel di Nizza, e le milizie lo lasciarono vuoto; parve a quelle
semplicione, che l'andare ai patimenti dei campi, e forse a morire per
man dei Francesi feroci, fosse meno peggio dello stare là dentro, a
farsi guardare nei sonni dagli occhi ardenti dei fantasmi, uscenti la
notte dai trabocchetti.
Gli uffiziali Alemanni, volendo far onore alla sposa ed al loro
compagno d'armi; avevano stimato che il palazzo fosse il luogo più
acconcio ad una festa da ballo; perchè vi si poteva invitare quanta
gente per bene viveva nel borgo e nei dintorni. E già alla una di
notte ne erano piene le stanze. Chi giocava, chi conversava, chi si
confortava ad una copiosa credenza: mentre nella sala grande si
ballava così di voglia, che non pareva d'estate.
Le pareti di quella sala, quasi coverte di quadri antichissimi,
rappresentanti caccie e tornei; erano a tratti adorne di specchi
posati su certi arpioni, che reggevano doppieri formati di molte
torce. E la luce riverberata dalle spere, si diffondeva in ogni lato
sì vivida, che si sarebbe potuto raccattare di terra una spilla; e i
cavalieri e le dame vedute e moltiplicate in quelle, parevano
migliaia. Qual festa per gli spiriti folletti, abitatori di quel
palazzo! Che sì, che quella notte delle burlette ne avranno fatte di
belle, alle madri sedute a vedere le figlie ballare, o passeggiare di
su di giù con quegli Alemanni, vestiti di magnifiche assise! Le
donnicciole delle casette vicine, potevano quella notte dormire tra
due guanciali se gli avessero avuti, chè nessuno di questi spiritelli
si sarebbe tolto da tanta delizia d'acconciature, di gale, di code,
per venirle a fastidire; nè i mulattieri discesi all'alba ad arnesare,
avranno trovato i bardotti o le mule colle criniere intrecciate da
doverne ammattire. O che avranno detto i ritratti dei due Monarchi
Carlo VI d'Austria e Filippo V di Spagna, incorniciati sopra gli
architravi di due usci, l'uno di faccia all'altro, e posti in modo che
parevano sbirciare le donne e i cavalieri, quali fossero le più belle
ed i più cortesi? Quei due ritratti erano fattura d'un pittore del
borgo, che gli aveva dipinti dal vivo l'anno 1702; e si vedeva dalla
scritta che i due sovrani avevano dormito dai Marchesi Scarampi
proprio in quel palazzo. Un figlio del pittore, divenuto musico
riputato molto, sedeva quella sera sul palco a dirigere i suonatori: e
rammentando d'avere udito dal proprio padre le meraviglie dei due
monarchi; guardava, suonando, i loro ritratti, come se aspettasse di
vederli sorridere, cavar di sotto le corazze una pizzicata di monete
d'oro, e chiedere a lui notizie del babbo che gli aveva dipinti,
pover'uomo morto da lunga pezza.
Chi fosse stato a quella ed a qualunque festa da ballo di quei tempi;
e volesse farne paragone con quelle dei nostri, direbbe che gli avi si
accontentavano di cose, alle quali noi piglieremmo gusto, proprio come
a dormire su d'un monte a bocca aperta quando tira vento. Eppure
ballavano i nostri vecchi meglio di noi: ballavano gagliardamente, per
mantenere agile la persona e l'animo lieto; e passi di terza e di
sesta erano segni di buona gamba. Più era stimato chi sapeva meglio
trinciar cavriolette, fare riprese, roteare a battuta: si ballassero
monferrine, furlane, gagliarde o correnti, bisognava aver petto sano
per non trafelare; e smettere prima dell'ultima nota dei suonatori,
sarebbe stato farsi canzonare da donne e da fanciulle. Le quali a
vederle reggersi colla punta delle dita un po' di gonna, tanto che i
piedi ne uscissero scoperti fin sopra la noce; e col capo chino
vezzosamente, strisciarne uno innanzi e l'altro volgere di lato,
modeste, agili, rapidissime a fare da un lato all'altro le sale,
dovevano essere un desìo; e quello era ballare davvero.
Di balli a C... dopo la venuta degli Alemanni, se ne erano visti
molti; ma niuno si rammentava d'aver ballato con estro, come in quella
sera. La mezzanotte era passata da un pezzo; e a quest'ora Giuliano e
i quattro giovani, scampati all'ira del padre Anacleto, giunsero alla
porta del palazzo, e si misero dentro.
Giuliano combattuto da desideri e da paura, si fermò peritoso
nell'atrio; lasciando che i compagni salissero quelle scale,
echeggianti di festoso bisbiglio. E forse pentito, avrebbe dato di
volta, per ripigliare la via che aveva a fare; ma sul muricciolo del
cortile stavano cavalcioni alcuni giovani popolani: i discorsi dei
quali si mescolarono, come già tante altre cose strane, nei fatti
suoi. Essi godevano accidiosi quel po' di festa che potevano vedere
attraverso i balconi aperti; parevano anime del Limbo tormentate dalla
vista d'un lembo di cielo; e alla luce che loro pioveva addosso,
parlavano basso, quasi timorosi d'essere colti a godere di cosa non
fatta per loro. Ed uno diceva:
«E vedi la sposa, la sposa! Ci ho badato, e dei balli non ne ha
tralasciato neanco uno!
«Sfido io!--rispondeva un altro:--o che vuoi che si mostri di gamba
malata?
«E chi s'era mai accorto,--entrava a dire un terzo--chi s'era mai
accorto che fosse così bella! Quando noi si tornava da far legna, e la
si incontrava con la sua zia, mi pareva un digiuno comandato.
«Hai a dire, che ne' suoi panni d'allora, pareva una santa che
parlasse cogli occhi! Così rinfronzita somiglia una di quelle statue
che portiamo in processione, tutte trine, nastri, oro e che non dicono
nulla.»
A queste parole, dette da quel popolano, Giuliano si mosse e salì le
scale con passo sicuro. Rocco che nulla si curava di quegli
spettacoli, e forse voleva andare sconosciuto anche a C...; vedendo
che il padrone saliva di sopra, si sdraiò nell'atrio e si appisolò un
tantino.
«Dov'è questa sposa?--chiese Giuliano ai compagni, i quali s'erano
fermati sull'uscio della sala, aspettando che fosse finita una gavotta
gaia, spedita, vorticosa, che pareva un visibilio: e sfolgorante di
bellezza, di sdegno, di dolore, guardò. I suoi occhi videro, il suo
cuore provò uno squasso, e le mani gli si contrassero fieramente.
Vestita di raso candido, cangiante in un azzurro oltremarino
leggerissimo, che le rialzava la carnagione; Bianca ballava in mezzo a
quella folla d'ebbri felici, più ebbra di tutti. Una bustina color di
rosa le stringeva la vita, e le reggeva il seno tumido, voluttuoso,
appena coperto d'una modestina a trafori, che ne velava e non ne
velava la sommità. Le braccia ignude fino più in su del gomito,
agitavano le trine cadenti in moltissime pieghe dagli sgonfietti delle
ascelle; e le smaniglie ai polsi, e il monile di gemme, mostravano
come quella fanciulla sapesse d'essere bella, e quanto fosse venuta
innanzi nella via delle vanità. I geni della innocente e timida
adolescenza si erano tutti partiti da lei; e gli occhi e le labbra
avevano già appreso l'arte dei sorrisi vezzosi. Che cosa erano quei
capelli acconciati in falsi cirri, e impolverati come di donna
invecchiata nei festini? E quel diadema scintillante in cima della
fronte; e quella penna candida, che innestata alle trecce insieme al
velo aereo diffuso sulle spalle, le ondeggiava superbamente sul capo?
Colei dunque era Bianca?»
Giuliano arrossì; sentì dentro un rimescolamento, come se qualcosa vi
si struggesse, qualcosa vi si ricomponesse; ma gli parve di aver più
sciolto il respiro, e potè reggere a guardare quella donna a lungo.
Il signor Fedele, che aveva visto il giovane apparire sulla soglia
improvviso, mentre che egli era lungi cent'anni dal pensarvi; tremò
che fosse per accadere del torbido: e date di qua di là colla mente
parecchie capate, cercava modo di parare qualche gran colpo. Non trovò
nulla di meglio che avvicinarsi ai musici, e accennare che suonassero
con quella già incominciata l'ultima danza. Lo sposo di Bianca,
sebbene fosse coll'animo in luogo sì alto, da non poter badare a tutte
le cose che avvenivano; tuttavia vide il turbamento del suocero, e
fattoglisi vicino a chiedergli che avesse, potè indovinare che
l'apparizione del giovane forastiero gli metteva addosso la smania. Le
occhiate che colui dava alla sua sposa, gli fecero corrugare la
fronte, e fu lì per andargli a domandare che cosa avesse a vedere in
quella signora; ma appunto allora i musici mutarono la gavotta in una
monferrina rapida e clamorosa, che doveva metter fine alla festa.
La monferrina era stimata per quei tempi una danza forastiera e di
gala; ma qualunque si fosse all'ultima suonata, si soleva mutarla in
una ridda, nella quale tutti venivano travolti come foglie in un
vortice, anche coloro che stavano a vedere, giovani e vecchi. E quasi
a mostrare che non si smetteva dalla stanchezza, ognuno badava a
strepitare per sette; dond'avveniva uno scambiarsi di danzatori e di
danzatrici, un passar come razzi da un capo all'altro, un turbine, un
tramestio, da far tremare le volte, e da schiantar i pavimenti.
Giuliano non ebbe tempo d'accorgersi di quella bufera, che agguantato
coi quattro amici, fu trascinato nel ballo, spinto, rapito da catena a
catena; finchè, quasi lo si avesse voluto schernire, gli fu posta
nella sua la mano di Bianca.
Era la prima volta che quelle due mani si toccavano ma ohimè! in qual
guisa, e quanto diversa da quella vagheggiata dal giovane sventurato!
E Bianca come fosse invasa dal genio d'una baccante, non si avvedeva
di lui, se a sentirlo restio, non gli avesse dato uno sguardo. Parve
alla bella donna, di sentirsi una fiamma accesa tra ciglio e ciglio; e
un sorriso arido, amaro, spuntò sulle labra di Giuliano. Il quale non
mosse piede; si tenne ritto e severo: e come l'ultime note dei clarini
scompigliarono quella ridda finale; fuggì frettoloso, scese a
precipizio le scale; e passando vicino a Rocco che subito levandosi
gli tenne dietro, uscì in sul piazzale.
«Signorino--gli disse Rocco vedendolo uscir di là dentro come ne lo
avessero scacciato--se le hanno fatto qualche torto, sono qua io...
«O Rocco!»--rispose Giuliano, stringendosi al collo del contadino; e
forse avrebbe detto qualcosa, ma un bisbiglio, un rumore di passi
veniva giù dalle scale del palazzo; tutta quella gente lieta del
festino, a coppie, a brigate, si versava nel piazzale; e là auguri, e
risa, e promesse; cortesie infinite che accompagnarono gli sposi sino
alla casa del signor Fedele.
«Va--pensò il giovane guardando dietro al corteo:--va pure..., tu, le
tue nozze, le tue gioie, tutte cose funebri da scolpirsi sopra i
sepolcri bugiardi...! O madre, amor mio, tu hai detto il vero; questi
sono luoghi da fuggirli per sempre!»
Così dicendo si mosse; e Rocco dietro di lui, andava non più come un
servitore devoto, ma come uomo messo a guardia d'un infelice, cui
stesse per dar volta il cervello. Credeva che il signorino si avviasse
per uscire dal borgo, ma stupì vedendolo pigliare per un vicolo che
menava proprio nel mezzo di questo. E tuttavia non osò dirgli che
forse sbagliava la via. Giuliano non la sbagliava punto; ma camminava
diritto per andare in casa a Don Marco, dirgli addio, forse parlargli
di quel che aveva visto, e averne conforto di quelle parole di cui
soltanto il buon prete conosceva il segreto. Giunto a quella porta,
agguantò il martello e fu lì per battere; ma si sentì rimordere di
venire a destare un vecchio a quell'ora, e non lo fece. Intanto gli
fuggì un'occhiata in su alla casa del signor Fedele, ch'era di contro;
e vide illuminarsi la finestra di Bianca, quella finestra ch'egli non
aveva mai osato di varcare colla fantasia, dalla tema d'offendere la
fanciulla che vi dormiva dentro. Ed ora...? Ebbe uno schianto di cuore
non mai provato; mai neanche quando aveva inteso che Bianca s'era
sposata: lasciò il martello, e senza dir nulla, ripigliò la via per
allontanarsi. E a questa volta uscì davvero dal borgo, e sarebbe
andato innanzi chi sa quanto muto; se Rocco mosso da grande curiosità,
non gli fosse entrato della via che voleva tenere, e a poco a poco
anche del padrone di quella casa, cui aveva voluto battere poco prima.
A tutte le dimande del colono, Giuliano rispondeva breve come chi ha
altro da pensare; ma a quest'ultima il suo cuore si aperse, e quasi
provando un gran sollievo a pronunciare il nome di cui Rocco chiedeva,
rispose:
«Oh... quella è la casa d'un giusto... è la casa di Don Marco...!
«Don Marco! Lo conosco, è un santo che ha fatto tanto bene alla mia
Tecla.
«A Tecla?--disse Giuliano mostrandosi ora voglioso di udire i discorsi
di Rocco.
«Appunto,--rispose questi--una sera di questa state, quasi mi vergogno
a dirlo, essa ci era sparita di casa...: uno spavento! si figuri...! e
chi la voleva morta, chi rapita dagli Alemanni, chi annegata... ma
coll'aiuto di Dio la trovammo laggiù al passo del guai, proprio a piè
della croce, sa...?
«E dove voleva andare?
«Ma...! quel giorno il pievano era venuto a dire a sua mamma, che ella
era stata messa in prigione a Torino.
«E Tecla che c'entrava...?
«Ma... voleva venire a Torino a liberare lei: teste piccine di
donne...!
«Narratemi ogni cosa, Rocco;--disse Giuliano pigliando lena--perchè
non mi avete mai detto questi fatti...?
«Ma...»--rispose Rocco; e cominciò la storia di quella notte, che se
non era Don Marco poteva costare a Tecla assai più lacrime che essa
non aveva versate. Giuliano ascoltava camminando a capo chino, ora
tocco nel vivo del cuore dalla pietà; ora sdegnato, come quando udì
che Don Apollinare voleva che Tecla fosse stregata. E così pei
sentieri più foresti, un tratto in riva alla Bormida, un tratto in
mezzo ai campi, cansando le pattuglie Alemanne; s'affrettarono verso
il confine.
In un punto dove quattro mura mozze paiono ruine, e invece sono d'una
cappella rimasta costrutta a mezzo, forse perchè fu chiarito che la
Madonna, cui si voleva dedicare, e che si diceva comparsa in quel
sito, non era stata che qualche villanella vestita da festa; il
giovane si fermò, e voltosi a Rocco, parlò in guisa che a costui parve
di non aver più a fare col padrone, ma con un figliuolo.
«Rocco, fa giorno e potete tornare. Dite a mia madre che io sono
uscito dalla terra libero, tranquillo, e desideroso di trovar presto
quella casetta, nella quale vivremo con essa tutta la vita. Direte a
Marta che abbia cura di mia madre; e voi se mi volete bene, andate a
Santa G...: riconducete subito la vostra Tecla a casa; meglio che
sotto i vostri occhi, non istarà in niun luogo. Ve la raccomando... ma
tanto...»
E data una stretta di mano e alcune monete al pover'uomo, lo piantò
sulla via e tirò innanzi.
Rocco, strologando su quel pensiero che il signorino si pigliava di
Tecla, stette a guardarlo sin che gli uscì di vista, poi tornò
addietro. Di là ad un'ora ripassava per C..., dove la gente era già
fuori per le vie, con quella gaiezza mattutina che i giorni di festa
fa belli i villaggi. Le donne scopavano dinanzi alle case; gli uomini
s'affacciavano allacciandosi al collo la camicia di bucato, e
chiedendosi da finestra a finestra, a qual'ora fosse finito il ballo
degli sposi; su certi balconi le madri pettinavano i bimbi per
mandarli netti a messa; e su certi altri le fanciulle spiccavano
garofani dal vaso, per farne un mazzolino al damo.
Il buon uomo vide queste cose, traversando il borgo, e di là dal ponte
trovò che gli Alemanni in sull'armi, ascoltavano devotamente la messa;
celebrata sopra un poggiolino in mezzo ad un prato. Egli avrebbe
voluto fermarsi a sentirla; ma oltre che la era già innanzi di molto,
detta così all'aperto gli parve cosa troppo da soldati; e tirò diritto
col proposito di udirne una al Convento dei Minori Osservanti, dove
per andare a Santa G.... a pigliar la figliuola, aveva a passare.
Colà era giorno di grandi preghiere e di grande solazzo, in onore
della Madonna degli Angeli; e se dall'architrave della porta maggiore
della chiesa, pendeva la tabella dell'indulgenza plenaria; nella selva
e nei prati intorno v'erano ridotti e baracche da potervi mangiare,
cioncare, fare alle pugna, dopo aver data una ripulita all'anima, con
un po' di perdonanza e un po' d'elemosina fatta al convento.
La via che menava a quella volta, era tutta una processione; e più
s'avvicinava più uno stupiva delle numerose brigate, che facevano pei
campi e pei colli un pittoresco vedere. Rocco si lodò d'essere partito
da casa vestito da festa; perchè quanti incontrava avevano indosso i
meglio panni del loro vestiario. Le donne giovani o vecchie, se
maritate portavano la veste di sposa; che allora, bell'usanza,
serbavano per le festività di tutta la vita: le zitelle, quasi tutte,
costumavano gonne d'indiana azzurra carica, che davano un po' più
sotto della mezza gamba; e questa si vedeva chiusa in calzette grigie,
o il piede calzato di scarponcini, cui niuno badava se fossero o no
grossolani, perchè le fanciulle s'aveva a guardarle modestamente in
viso. Un casacchino di tela casereccia stretto alla vita, ornato alle
ascelle di crespe o sgonfietti; un fazzoletto in capo, rosso o giallo;
un grembialetto anch'esso d'uno di questi colori; era tutto il loro
vestire. Vezzi non usavano portarne, oltre un par di campanelline agli
orecchi; contente delle perle che avevano in bocca, e delle sincere e
copiose capigliature. Belle su tutte erano le boscaiuole della riva
destra della Bormida, che si vedevano qua e là guadare il torrente ai
varchi più agevoli, per andare alla sagra. Erano e sono tuttavia il
miglior sangue di quei monti; bianche come latte, e ben colorite,
spigliate di forme, e in tutto da non parere gente povera e mal
pasciuta. Ma le sono mattiniere, e visitando le selve a palmo a palmo,
e non per diletto; trovano forse il fiore misterioso di cui si
tingono, come nessun pittore saprebbe fare alle donne delle città.
Degli uomini poi, non accade dire quali fossero le fogge dei loro
panni; ma si vuol lodare chi fu primo a smettere quei codini, quei
giubboncelli, quelle brache corte: sebbene queste sarebbero da
ritornarsi un tratto in onore, tanto che la gioventù badasse a
crescere a modo e men molle, per non andare derisa di troppo povere
polpe.
Tanta adunque era quel giorno la folla, che la sagra pareva un
giubileo; e sott'essi i pergolati del convento, già sin dal mattino
era una briga di mercanti d'ogni generazione, i quali si davano
attorno a porre i loro banchi, bisticciandosi alla buona tra loro. Nel
piazzale della chiesa, giocolieri, storiai, vinai, contendevano per un
posticino; ed il cerretano che ogni anno soleva venirvi, già faceva
gente strombazzando di su un tavolino, avuto a presto dal frate
dentista del convento, il quale si mostrava pronto a fargli servizio
per non parere invidioso. Più in là, dietro l'edificio, nel prato che
sembrava fatto a posta, avevano formata una sorta di lizza, e ad un
palo pendevano guanti e palle di cuoio di parecchie grandezze, segni
di sfida tra i giuocatori dei contorni. Poco discosto, su
d'un'impalcatura, all'ombra d'una quercia, i suonatori d'un ballo
campestre cominciavano ad accordare gli strumenti. In fondo al prato
poi sorgevano le baracche, formate di lenzuola e di frasche; e gli
osti stavano a certi fornelletti cuocendo i polli, che le loro
fantesche sbuzzavano, pelavano, abbrustiavano, frettolose e tuttavia
bestemmiate per pigre. Fra tanta folla, che cresceva ognor più, i
frati andavano colle labbra e colle tabacchiere aperte a dar pizzicate
e sorrisi: per taluno avevano parolette d'invito a farsi vedere in
cucina o in refettorio, e il fortunato era di certo un benefattore
campagnuolo; o tale su cui la frateria, aveva messo gli occhi e le
speranze.
Rocco fattosi via fino alla porta della chiesa potè entrare e udir la
messa. E pagato così il suo debito al Signore, tornò fuori colle mani
nelle saccoccie delle brache, tastando le monete avute da Giuliano.
Accortosi d'aver fame, tirò il conto delle miglia che gli sarebbe
bisognato fare per giungere a Santa G.... e non gli tornando bene al
ventre nè alle gambe, s'avviò passo passo ad una baracca.
Ivi, si davano spasso bevendo e chiacchierando parecchi avventori; i
quali dopo aver mangiato non facevano segno nè di voler pagare nè
d'andarsene. L'oste non osava dir loro nulla, essendo essi miliziotti
e soldati. I primi (armati di lunghi schioppi, che alle canne e ai
fregi apparivano di fattura spagnuola, raccattati forse sui campi di
battaglia di quelle parti, meglio che mezzo secolo prima); erano stati
di quello stormo levatosi in armi il maggio di quell'anno. E avendo
pigliato diletto di vivere randagi, si soffriva dal magistrato che
andassero armati; perchè bisognando, facevano ufficio di guide agli
Alemanni, e campavano di questa professione e di picciole rapine. I
soldati poi erano gente dei vecchi reggimenti Sardi, pronti di maniere
e soverchiatori, ma rispettabili par ferite delle quali portavano i
segni ancor freschi, e stavano a guarirsi nel borgo. Essi avevano
combattuto contro i Francesi più d'una volta, sull'Alpi marittime;
adesso colle gomita sulla mensa bevevano alla salute dei vivi e alla
memoria dei morti; giurando clamorosamente sugli scapolari che avevano
di sotto i panni, molli di sudore e anneriti. E colle dita intrise di
vino, descrivevano sulla tovaglia i campi e le ordinanze in cui
avevano combattuto. A udirli, questo era il colle di Raus, quest'altro
quello di Milleforche; qui il capitano Zin co' suoi cannoni, aveva
mandati i sanculotti ruzzoloni giù pei dirupi come sacca di carbone;
là era caduto il capitano Maulandi, venerato da quei valorosi che
l'avevano veduto morire, e ne cantavano i versi scritti da lui sulle
montagne ove cadde, poeta e soldato. S'accendevano in viso parlando di
lui, come si sarà acceso il Botta scrivendone le lodi in una mesta
pagina della sua storia: rammentavano le rive del Tanarello e della
Saccarda, di Colle Ardente e di Saorgio, i vili e i traditori: e qui
uno di que' soldati trovandosi ritto nella foga del dire, data una
vigorosa palmata sulla mensa, e guardando a cera prepotente quanti
erano nella baracca; giurava che il Re era tradito, e che se i
Francesi trovavano la via men aspra dell'anno prima, sebbene le valli
fossero zeppe d'Alemanni; accadeva perchè da Torino insino all'ultimo
villaggio del regno, v'era in ogni casa un traditore.
«Lo giuro!--sclamava egli invelenito su quell'idea, e si rimboccava,
dicendo, la manica fino all'ascella, scoprendo un viluppo di muscoli
poderosi:--questo braccio fu ferito, ma è forte ancora, e se mi
capitasse innanzi un Giacobino lo spaccerei con questo, fosse mio
padre. Chi è quà dentro che non vuol gridare viva il Re?
«Evviva il Re!--urlarono quaranta o cinquanta gole mezzo ingozzate di
lasagne: e all'urlo tenne dietro un rompere di tossi, di sternuti, di
singhiozzi per contrazione; mentre il soldato sorridendo a tutti,
chiamando tutti amici, andava attorno toccando col suo gli altrui
boccali. Giunto a Rocco, che mangiava rincantucciato in fondo alla
baracca, e si sentiva tremare il cuore; il soldato gli si piantò
dinanzi: «E voi--gli disse--che fate costì solo, che mi parete un
volpone sotto una cesta? venite qua in buona compagnia!»--E pigliato
il piatto, i pani, il boccale del poveretto; lo tirò a quella mensa
dov'egli e i suoi facevano quel tanto baccano. Là Rocco dovè
rimettersi in loro; mangiò e bevve come essi vollero; chiese licenza
d'andarsene parecchie volte, ma gli tocco fare più di mezzogiorno; ora
in cui potè uscire libero, pagando lo scotto di quei soldati, e ancora
gli parve una grazia.
Quando fu fuori di quel passo, trovò che la folla era divenuta così
fitta, da non potersi muovere, uno che avesse fretta, a suo agio. Il
ballo campestre ferveva sotto la sferza del sole, e le foresi danzando
coi loro dami gighe e gavotte, si struggevano in sudore. Ma al caldo
ci badavano punto. E bisognava vedere quei garzoni, come finita una
danza, facevano a chi fosse più spedito a ripigliar il posto sullo
spazzo, affollando il festaiuolo, empiendogli di spiccioli le mani. Ed
egli pigliava e ringraziava per sè e pel convento, cui doveva pagare
la decima; poi diceva ai musici che tornassero a suonare, e
significava ammiccando che egli voleva suonate corte e frequenti.
La vista di quel ballo era la cosa più ghiotta della sagra, e i
signori vi si disfacevano dalle risa. Essi vi adocchiavano le belle
campagnuole, imparando a conoscere i loro amori. Onde accadeva
sovente, che dopo quella e altre feste compagne, qualcuno di essi si
mettesse di mezzo a far parentadi, tra giovani veduti appassionarsi in
quegli strani convegni: e allora il più delle volte, virtù addio!
Mosso da curiosità, Rocco volle avvicinarsi a quello spettacolo; e a
forza di gomiti fattosi un po' di passo, ecco a quale incontro
inatteso egli riusciva.
Il zio di Tecla, che non era giunto a cavare a questa quattro parole,
in ventiquatt'ore dacchè l'aveva in casa; messosi in testa di darle un
po' di svago, s'era accompagnato con essa ad alcuni vicini, uomini e
donne; capitando al convento, forse un po' prima, forse un po' dopo di
Rocco. Fatte le divozioni e pigliati anch'essi i ristori, in una delle
tante baracche; i montanini avevano finito per mescolarsi alla folla
che faceva corona al ballo; e alcune giovinette della comitiva presero
a danzare, mentre alcune altre, modeste e quasi mortificate, stavano a
vedere; e tra queste Tecla.
Essa si teneva in mezzo alla calca, colle mani alla vita, una
sull'altra, guardando co' suoi grandi occhi l'agitarsi delle
danzatrici; e si sarebbe detto che ne provasse compassione. Ed era là
forse da mezz'ora, stretta, pigiata; ma non si avvedeva di non aver
più allato nè le compagne, nè il zio col quale era venuta in quel
luogo. E neppure aveva badato al mutar di piedi che le era bisognato
fare, spinta lentamente ora indietro, ora di lato; sicchè discostata a
poco a poco anche dai danzatori, non ne scopriva più che le teste. Ma
badavano bene ad essa due giovani signori del borgo di C..., i quali,
avendole posti gli occhi addosso sin da principio, s'ingegnavano a
quel modo, per trarla fuori della sua compagnia; di certo coi disegni
che sanno fare i vili fortunati, che un tempo della loro vita spendono
a svergognar donne; un altro tempo a rifare gli averi ponendo le mani
nella roba altrui; e vecchi finiscono in chiesa a biascicare i salmi
penitenziali. I due avevano la fanciulla in mezzo, e sebbene giovani,
un pittore avrebbe potuto fare dei loro visi i due vecchioni cotticci
di Susanna. Già si rallegravano colle occhiate del buon termine cui
speravano condurre chi sa che ribalderia; quando s'udì un grido tra la
folla, un grido come d'uomo che tastandosi sotto i panni si trovi
rubato.
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