Le rive della Bormida nel 1794 - 16

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notato assai nero: di che stette tutta occhi, perchè da quella parte
non gli seguisse niun male. Egli poi, nulla sapendo delle cure che la
gentildonna pigliava di lui; diventava ogni dì più assiduo ai ritrovi
misteriosi, che ho rammentato; e cogli uomini, che di quel tempo erano
tenuti in sospetto, di voler un giorno dar dentro a rivoltare il
mondo, stringeva amicizia, ricambiava promesse; attirando sopra sè
stesso i tanti pericoli, da cui coloro erano minacciati.
Di questo andare entravano giugno e luglio, colle loro giornate noiose
e mai più finite; e Giuliano si vide di più di manco, alla vigilia di
fare i fardelli, per tornarsi medico a quel suo D.... sospirato. Di
sua madre ebbe in quel tempo due lettere, mute su Bianca, e però di
cattivo presagio. Se ne doleva, fantasticando su quel silenzio; ma ne
scusava la madre, come donna prudente, che non voleva mandar attorno
il nome della fanciulla, confidato alla carta: e gli erano di qualche
conforto le notizie che essa gli dava di sè, della vita che menava
rassegnata, dello spasso preso in quelle sue lezioni date a Tecla,
della quale diceva, come se la fosse tirata in casa, e quanto ne fosse
lieta, crescendo questa di gentilezza ogni giorno, sicchè egli nel
tornare non l'avrebbe più ravvisata. Queste cose piacevano al giovane,
perchè s'accordavano coi suoi pensieri; e perchè Tecla gli era sempre
paruta degna di vita men dura di quella, che pel suo stato, doveva
condurre: faceva conto di assecondare quel pietoso lavoro di sua
madre, una volta che avesse sposato Bianca; e godeva, al pensiero di
poterle dare questa villanella, che se la tenesse per compagna, e
proseguisse a tirarla su creanzata.
Venuto così in sugli ultimi di quel luglio, tornava una sera per
chiudersi a studiare e prepararsi all'esame; e sulla porta della casa
dove abitava, trovò uno staffiere che teneva pronto un cavallo
bellissimo, vigoroso, sellato, come in attesa di chi v'avesse a montar
su, per qualche viaggio non corto. Appena Giuliano gli fu accosto, lo
staffiere si scoperse, e gli diede un biglietto della marchesa di
G..., cui il giovane lesse in un baleno, facendosi in viso come un
panno lavato.
«Vostra madre è morente;--diceva la scrittura--partite su questo
cavallo, ma subito: alla mia villa di B.... troverete altri cavalli.
Servitevi, partite, chi sa se farete a tempo....
«Un momento! sclamò Giuliano col cuore alla gola; e volato in camera,
si pose in gamba un paio di stivali armati di sproni; poi così
com'era, senza badare a robe, a libri, a nulla di quel che lasciava;
discese e montò in sella.
«Badi--gli disse lo staffiere--appena fuori B.... a man destra, in
quella palazzina, troverà il gastaldo della signora marchesa....
«Mi rammenterò di voi--rispose egli mettendo in mano a colui qualche
moneta: dite alla signora marchesa che io terrò la vita per lei:
addio.»
E spronando dalla parte di mezzogiorno, trovò la via del suo destino,
e si mise su quella di trotto chiuso.
Lo staffiere pensando alle spalle riquadre, al corpo snello, alle
gambe di ferro del giovane; tornò a casa la marchesa, a dirle che
questi era partito come un razzo; e la gentildonna, ringraziò il
cielo, e pregò che Dio tenesse la sua santa mano sul capo a Giuliano,
per tutta la via.
E in verità il giovane ne aveva bisogno, perchè egli spronava di
maniera, che quanti s'imbattevano in lui, fossero a cavallo o a piedi,
penavano a scansarsi, e gli davano dietro di basilisco e di peggio. E
forse avrà trovato di tali, cui sarebbe piaciuto movergli contesa per
quella furia; ma la bellezza del cavallo, dava a pensare all'alto
stato del cavaliere; e di quei tempi si avevano in grande reverenza i
signori e le loro soperchierie. Fu soltanto in un piccolo borgo, che
si udì gridar dietro: «fermatelo! fermatelo!» ma una voce aveva
quetato la folla, dicendo che forse egli era una staffetta del Re, e
le grida erano cessate. Oh s'egli avesse potuto conoscere colui che
con quelle parole l'aveva salvato, se non da altro, dall'essere
fermato, indugiato, sì che forse non sarebbe più stato padrone di sè,
per correre dove lo chiamavano le ultime voci materne! L'avrebbe
ringraziato in ginocchio; avrebbe chiesto perdono a quel popolo
d'essere passato fendendo l'aria come una saetta, risicando
schiacciargli i bambini; ma con tutto questo non rimise dal correre, e
buon per lui, che fattasi notte, potè tirare innanzi senz'altri
incontri.
Giunse a B.... a mezza via tra Torino ed Alba, che rompeva l'aurora; e
ai coloni che già a quell'ora si avviavano ai campi, chiese del
gastaldo della marchesa per mutare il cavallo. Quello che aveva sotto
non poteva più reggere. Gli fu additato una sorta di maniero, lontano
pochi passi dalla via maestra, dove un uomo stava sulla soglia, quasi
avesse saputo di dovervi aspettare qualcuno. Costui era appunto il
gastaldo, il quale ravvisando il cavallo, si fece incontro al
cavaliero; e mentre guardava con occhio pietoso la povera bestia
com'era conciata; udiva da Giuliano che gli aveva a dare un'altra
cavalcatura. Smontare, togliere l'arnese di dosso al cavallo stanco, e
sellarne un altro, zaino, accapucciato, di collo scarico e all'aspetto
buon corridore; fu lavoro di poco tempo. I due animali barattarono tra
loro un nitrito, come se il nuovo chiedesse allo stanco, se il
cavaliero fosse forte in arcioni; Giuliano già in sella spronò, e
forse senza salutare il gastaldo, ripigliò la via.
E tornò a traversare borghi e castelli, non provando molestia di fame
o di stanchezza. Più camminava più gli pareva di diventar forte e
fresco; al sole non badava nè al polverio, nè ad altro: arrivare a
D.... ecco lo sprone che gli si era fitto nell'anima, più acuto, più
tormentoso di quello, con cui egli insanguinava i fianchi al cavallo;
il quale se gli fosse bastata la lena, quel giorno di certo non
avrebbe odorato biada nè fieno, prima d'essere a D.... Ma alla fine se
non la compassione del cavaliero, potè la stanchezza; e il povero
animale rallentò da sè la gran corsa. Allora Giuliano si trovò come
riscosso da un sogno, che stesse facendo; e alzato il capo si vide in
faccia e poco discoste le torri di Alba. La voce del Tanaro gli suonò
all'orecchio, come quella d'un amico che gli parlasse, con dialetto
somigliante a quello dei suoi monti; e guardando la propria ombra
sulla via, gli parve sì corta, che stimò il mezzogiorno molto vicino.
Passando il ponte di legno che metteva nella città, pensò come quelle
acque verdastre, spumanti, rumorose contro le barche; sarebbero scese
più basso, a mescolarsi con quelle della sua Bormida; sentì l'aria
della sua terra; diede un'ultima occhiata dietro di sè alla pianura,
all'Alpi lontane, in quell'ora non tinte come a sera, di colori che
paiono dell'altro mondo; poi messosi dentro, badò innanzi la via per
dove andava.
Sott'essi i porticati, che in Alba, come in quasi tutte le cittadette
di quelle parti, sembrano essere stati fatti apposta per i signori;
stavano i maggiorenti aspettando l'ora del desinare; altri in
brigatelle allegre passeggiando, altri gomitoni sugli sporti delle
officine a chiacchierarsela cogli artieri alla buona. L'aspetto della
città, era allora più severo, e le torri brune parevano stare là
ritte, quasi per ammonire i cittadini, che dove non avessero atteso a
procacciarsi ogni anno miglior ventura e vivere più civile; il passato
con tutto il diavolio di baroni, di bravi, e di foderi medioevali,
avrebbe rifatto capolino dalle loro balestriere, e dai loro merli, sto
per dire, imbronciati.
Giuliano attraversò la città, e andò a smontare all'altro capo di
essa, a quell'osteria chiamata una volta dello scudo di Francia,
adesso dei tre Re; quasi per far le cilecche ai francesi, che l'anno
prima n'avevano tolto uno dal mondo.
«Questo cavallo ha fatto più di venti miglia!» sclamò lo stalliere cui
Giuliano diede le briglie, smontando nel cortile dell'osteria.
«Potete dire anche trenta--rispose questi--abbiategli cura» e
lasciando a colui l'animale, passò dal cortile ad una sala terrena,
dove si dava da mangiare ai viaggiatori.
Di quei tempi era un bel vivere! dicono i vecchi; e in verità in
quelle cittadette mezze nascoste, e quasi dimenticate si stava in
apolline. Si desinava nelle osterie semplici e disadorne: e se il
viandante, seduto a mensa, levando il capo di sul piatto, non dava
dell'occhio in ampio specchio, a vedervi sè stesso sfigurato dai moti
plebei del biascicare; in cambio di queste magnificenze, gli era messo
in tavola gran bene di Dio, per poca moneta. I vigneti fruttavano a
dovizia; e se avesse usato lavare i piedi agli ospiti in
sull'arrivare, come ai tempi antichi; lo si avrebbe potuto fare col
vino, tanto ve n'era d'avanzo. I prati nudrivano le fienaie, per modo
che carne e pane, stavano tra loro a spesa poco diversa; epperò lo
osterie erano formicai di gente paesana e di viandanti, sui quali
l'occhio materno dell'ostessa seduta al focolare, spandeva il dolce
ricordo domestico; e l'ospite si stimava in casa sua.
Giuliano andò diritto all'oste, il quale era un ometto tondo della
persona, lucente nelle guance, e tenuto in sussiego da tre o quattro
giogaie, che dal mento gli si digradavano alla sommità del petto;
donde tra lo sparato della camicia, uscivano petulanti velli grigi, a
guisa di gale. Nelle sue pupille pareva vi fossero due birri
appiattati; a mirarne il naso vergolato di mille venuzze accovate
sulla punta, si sarebbe detto che da uomo di coscienza, ei non
lasciasse uscire dalle sue botti un bicchiero di vino, senza averlo
assaggiato. Del rimanente era uomo avvisato molto, ma da mettersi a
brani per fare servigio.
«Oste,--gli disse il giovane--la marchesa di G.... ha poderi qua in
Alba?
«Poderoni!--sclamò l'oste, maravigliando come altri avesse mestieri di
chiedere cosa, che doveva essere nota a mezzo il mondo.
«Ebbene--soggiunse Giuliano--ho un suo cavallo, che voi, se vi fa
comodo, manderete al suo gastaldo, appena sia riposato nelle vostre
stalle: poi se me ne troverete uno per un paio di giorni, saremo
d'accordo sul prezzo con pochi discorsi.
«L'oste dei tre Re serve chi lo comanda; e pel signorino ci ho un
cavallo morello, sfacciato, con quattro gambe da cervo...
«Appunto quello che mi occorre tra mezz'ora. Adesso vorrei
mangiare....
«Vuol salire di sopra...?
«No..., starò qui.»
L'oste s'inchinò, affilando l'uno contro l'altro due coltellacci da
affettare le carni; e Giuliano andò a sedersi ad un deschetto,
nell'angolo più solitario di quella sala.
La quale era vasta, e vi stavano mangiando a diversi tavolini, brigate
di mulattieri, dagli aspetti robusti; gente che soleva fare buon
tempo, quando le accadeva di trovarsi sicura dai gabellieri, coi
quali, su per gli alpestri confini tra il regno e la repubblica
genovese, faceva sovente a chi più ne toccasse; barattando anche
qualche schioppettata, per amor del danaro che guadagnava a manate.
Il giovane diede un'occhiata fra quei commensali, se ve ne fosse
qualcuno del suo borgo, o delle terre vicine, per chiedergli di sua
madre; ma non v'era faccia che gli tornasse nota. Stette gomitoni
aspettando il suo pasto, e pensava che se egli fosse stato in quel
luogo a mal fare, di cento volte novanta vi sarebbe stato un
testimonio delle sue parti; quando l'oste venne oltre, portando alto
un pollo lesso di tal fragranza, che avrebbe fatto gola ad uno,
tornato allora allora da un pranzo di nozze. Lo mise innanzi a
Giuliano, vicino ad una caraffa di vino paesano, e versatogli di
questo, additandogli il bicchiere gli disse:
«Questo le parrà sulla lingua il taglio di un rasoio. Se non fossi
importuno, vorrei chiederle una cosa. Ella è quel signore, smontato al
mio albergo questa pasqua, o giù di lì, con un suo servitore?
«Appunto.
«Ah! lo diceva pure io, che le fisionomie dei signori i quali mi fanno
onore, non le dimentico! Anzi, ricordo che il suo servitore mi disse,
che lei andava a Torino per farsi medico....
«Avete buona memoria:--disse Giuliano mangiucchiando; e l'oste
inchinatolo rispettoso, fece le viste di correre a un tintinnio di
bicchieri, che veniva dall'altra mensa.
Ma in cambio andò a parlare con un tale, vestito a modo; che subito
venuto a Giuliano lo salutò con certa dimestichezza, e facendo un
segno come per farsi conoscere. Il giovane si levò da sedere, rispose
cortese a quel saluto, e a quel segno; al quale ne seguirono due o tre
altri barattati rapidamente; poi si strinsero la mano, si riconobbero
per essersi visti altra volta, sedettero e cominciarono a parlare
basso tra loro.
Erano già molto innanzi coi loro discorsi, ma niuno ne avrebbe potuto
raccogliere parola, tanto badavano a non farsi udire: quando colui,
che ai portamenti sarebbe paruto a chicchessia un vecchio amico di
Giuliano, si mostrò stupito, e guardandolo negli occhi, gli disse:
«Come? Eppure da ieri in qua non si parla d'altro fra noi...! La
retata di scolari e dei nostri fu fatta, o la polizia di Torino, sta
per farla.--Via, pensate che io voglia rimproverarvi d'esservi posto
in salvo?
«Ma io--sclamò Giuliano balzando in piedi, avvampando nel viso, a
guisa d'uomo oltraggiato, per modo che tutti i mulattieri che
mangiavano là dentro si volsero a guardarlo:--io non so nulla! Io
partii ieri sera, e vado a D.... a vedere mia madre morente. Leggete.»
Così dicendo frugava per le tasche del giubboncello e cavato il
biglietto della marchesa di G.... lo dava a leggere a quello strano
amico,
«Saranno state false nuove!--disse costui, letto d'un'occhiata il
foglio, e stretta la mano al giovane nel ridarglielo:--andate diritto
al vostro destino; finchè uno ha la mamma non sospiri, dice il
proverbio... Ma... via..., poichè non sapete nulla, nulla deve essere
seguito; non vi lasciate cogliere dalla malinconia, e bevete alla
salute di vostra madre.»
E gli mescè che bevesse, come fosse stato un suo ospite.
Giuliano posto da quella novità, in gran pensiero, non bevve nè parlò.
La sua persona sedeva a quel desco, ma l'anima sua, lo si vedeva
chiaro dalla pupilla che pareva spenta, era altrove. Forse a Torino,
forse a D...; forse pensava a tornare addietro, chiarirsi se davvero
tanti giovani fossero stati carcerati come colui diceva; e poi rifar
la via una terza volta, per correre al suo borgo nativo. E la marchesa
di G..., e la brigata che le aveva visto in casa, e quel biglietto, e
sua madre morente e forse già morta; erano immagini accozzate nella
sua mente, a dargli un travaglio da non potersi patire. In somiglianti
scompigli dell'animo, l'uomo si lascia governare dal consiglio
dell'amicizia, docile come destriero generoso in mezzo alla mischia,
che risponde ad ogni cenno del cavaliero: e Giuliano si mostrò pronto
a dar retta al suo vicino, tosto che questi ripigliò, parlando basso
più di prima:
«Animo, amico, la sventura è madre dei forti; se vi è cara la libertà,
se vostra madre volete vederla ancora una volta, su a cavallo! e via
in buona ventura.
«Sì,--rispose il giovane levandosi con piglio risoluto--a cavallo!
Oste...»
L'oste accorse, ebbe lo scotto, e il nolo che volle del cavallo; e
Giuliano uscì, accompagnato nel cortile dall'amico. Dette con lui
altre poche parole di congedo, montò in sella; e mentre partiva udissi
dire, con voce impressa d'affetto:
«Tornando, rammentate che la casa di Ranza è casa vostra. Addio!»
Codesto Ranza, era della città d'Alba, caldo amatore di libertà e
delle cose di Francia, e molto addentro nelle cospirazioni, che si
formavano di quella stagione. Egli si scoprì di là ad un paio d'anni,
quando i repubblicani condotti da Buonaparte, furono nelle valli della
Bormida e del Tanaro, dopo aver vinto a Montenotte e a Cosseria; e
diede lena a molti di chiarirsi contro il re. Di lui fa cenno il Botta
nelle sue storie, e sebbene lo stimi cervello disordinato, e _capace
del pari di far perire la realtà per la ribellione, e la libertà per
l'anarchia_; è giusto alla sua memoria; lo chiama _uomo dabbene nè
senza lettere_; e di certo non disse troppo.
Giuliano l'aveva incontrato a Torino alcune volte, a quei convegni
notturni; ai quali di quando in quando, si recavano gli amici delle
città piemontesi, a fare accordi, a pigliar novelle, a conoscere nuovi
compagni. Ora cavalcando e divorando colla mente, quelle altre sei od
otto ore di cammino, che gli rimanevano a fare per giungere a D...;
sentendo in cuore la voce di Ranza suonare con qualcosa di paterno;
credeva che per tutta la vallata fossero uomini di quella sorta e di
quel pensare. Sicchè l'aria gli pareva piena di spiriti generosi;
tutto gli tornava più bello a vedersi in quei luoghi noti: e sin quel
dolore domestico, verso il quale correva, gli si faceva più mite.
Man mano che s'avvicinava a' suoi monti; l'aspetto della campagna, era
come se la mano dell'uomo avesse affrettato l'opera della natura. I
fieni erano stati falciati; la mietitura fatta anco nei luoghi, ove le
messi solevano venire più tardive; dovunque era un casolare, s'udiva
un rumore di correggiati, si vedeva un ventolar di biade, e nugoli di
pula che andavano all'aria lontani. Appariva, per tutto, la furia di
tirarsi in casa i raccolti, anco immaturi; dalla tema dei Francesi,
dei quali si diceva che usassero predare, incendiare, struggere ogni
cosa. Chiese novelle del paese, e di grosse come quelle che gli davano
i montanari, non ne aveva inteso mai. Seppe che di quei giorni erano
arrivati in Val di Bormida molti Alemanni, dicevano più di centomila,
ma che i Francesi erano molti più. Taluno osava chiedere a lui dove
andasse; e sentito che a D..., compiangeva il povero signorino, perchè
i repubblicani erano di là a poche miglia. Giuliano non badava a
quelle rustiche paure, e tirava innanzi bevendo a petto pieno l'aria
delle montagne native.


CAPITOLO XIII.

Sul vespro di quel giorno, mentre Giuliano cavalcando già vicino a
D..., scopriva tra il verde del castello il campanile, che pareva un
amico acquattato, per dar voce del suo ritorno; sul piazzale di casa
sua sedevano alcune donne del vicinato, intente a rammendare camicie,
a filare, a fare ognuna qualcosa, ascoltando i racconti di Marta. La
quale, pigliate le mosse dai molti Alemanni giunti di quei giorni;
parlava delle guerre degli Spagnuoli, venuti sul principio di quel
secolo, pochi anni prima che essa nascesse, a devastare le valli della
Bormida; dove erano passati come la maledizione di Dio. Dai racconti
di guerra, era caduta in quelli della fame e della peste; e ne aveva
sballate di quelle così grosse, che le povere contadine si pregavano
di morire, piuttosto che star al mondo a vedere altrettanto. Una delle
uditrici era Tecla, che alle parole della vecchia badava poco o punto.
Perchè i suoi pensieri erano lontani di là molto: e vi avesse anche
badato, la sua mente aveva fatto, in quei due mesi, così lungo
cammino; che le cose strane dette da Marta, non potevano più nulla
sull'anima sua. Si era in tutto mutata e tanto, da non si ravvisare a
prima giunta; e a poco a poco aveva pigliato nei portamenti e nel
viso, l'aspetto di fanciulla nata in istato migliore di quello, donde
era uscita. La signora l'aveva sin da principio vestita de' panni più
fini; e sebbene la villanella si fosse trovata in sulle prime un poco
impacciata, nelle foggie nuove di quelli; vi si era presto avvezzata,
con gran maraviglia di Marta; che ormai non sapeva più sgridarla nè
tenerle il broncio, e parlava di essa benignamente. Nessuno del borgo,
neanche lo stesso pievano, aveva più osato menzionare il fatto della
scappata notturna di lei; e sapendo che viveva raccolta, sempre alle
gonne della signora Maddalena, tutti la chiamavano fortunata; a tutti
pareva uno di quei fiori, che dopo una fiera ventata, da cui siano
stati quasi divelti, crescono di bellezza, più desiderati quanto più
s'ascondono nella siepe. Le donne del vicinato, che la vedevano
qualche volta alle finestre di quella casa, le si cominciavano a
mostrar rispettose; le fanciulle ne avevano invidia; suo padre e sua
madre si stimavano qualcosa da più di due o tre mesi prima, ma quasi
si peritavano a chiamarla loro figliuola. Essa, punto insuperbita,
diveniva ogni dì più dolce; e sebbene paresse che essendo giunta a
quella fortuna, dovesse stare allegra; una malinconia diffusa sul suo
viso, rivelava che il cuore piangeva dentro; e il pensiero del suo
destino, e la tema d'una caduta, che forse sarebbe stata più dolorosa,
quanto più essa saliva, cominciavano a nascere in lei; sicchè
l'avvicinarsi del giorno, in cui Giuliano sarebbe tornato da Torino,
le pareva una montagna che fosse lì per franarle addosso a
schiacciarla.
Quel giorno, seduta in quel crocchio di donne, all'ombra del
pergolato, da cui pendevano i grappoli di lugliatica, già matura, che
la signora voleva serbati intatti per Giuliano; badava poco o punto,
come ho detto, ai racconti di Marta; e questa che dal gran dire si
sentiva la gola di pomice, essendo in sul finire, sclamava:
«Oh! le mie care benedette, i flagelli di cui vi parlo li manda il
Signore; guerra, fame e peste, gli avremo tutti, uno dopo l'altro. E
ancora bisognerà ringraziare, se si morirà di due uno, come ho veduto
io nella mia gioventù. Ma se avvenisse come centocinquant'anni or
sono, quando da queste parti, i rimasti vivi erano come le mosche
bianche? Quella fu una morìa! Io ho conosciuti due signori di C...,
che venivano qualche volta a desinare qua, dal padrone buon'anima, ma
quello vecchio. Essi erano i figli dei figli d'uno dei soli quattro
uomini, che la peste d'allora lasciò vivi, in quel borgo di tremila
anime. Eh! se gli aveste intesi! raccontavano le cose udite dai loro
padri i quali le avevano avute dal nonno; e solo a rammentarle non mi
sta in capo il fazzoletto, tanto mi si rizzano i capelli! E anche
allora si era detto che la peste nascesse dai tanti soldati morti in
guerra... Baie! Io so che a C..., l'avevano formata tre scellerate
sorelle coi loro unti..., una notte di sabato, in un loro podere, dove
solevano trovarsi col diavolo... (qui Marta si segnò per l'ubbia che
menzionando il demonio, questi le facesse tre salti d'allegrezza
dinanzi). Ammanirono l'unto infernale, e tornate la domenica all'alba
nel borgo, unsero le porte delle case e le panche in chiesa, e sin da
quel giorno cominciò a morir gente per certi tumoracci tanto fatti...
«No, Marta, non fate segni colle mani!--sclamarono quelle donne, che
credevano di malaugurio il mostrare col gesto la grossezza di tumori,
di biscie, di piaghe e d'altre cose cattive.
«Le tre sorelle,--continuò Marta--allegre del fatto loro, partirono
per andarsi in casa a un loro parente del Genovesato; ma il podestà di
C..., fece dar loro dietro coi corni marini, e furono colte dalle
parti di Savona, là dove la Vergine Maria era comparsa al Beato
Antonio. Legate, battute, menate a C... furono bruciate vive al
cospetto del popolo, tutte e tre insieme, come anime dannate... e io
ho visto dove.»
A questo punto, dando un'occhiata intorno; Marta si avvide di Tecla,
che aveva sulle labbra un certo sorriso, come di compatimento a
qualche baggianeria, uscita di bocca a lei. Si sentì punta nel vivo,
da quel sorriso di incredulità, che in mezzo a tante credenzone pareva
il simbolo dei tempi nuovi, e «già!--sclamò--quei dai vent'anni in
giù, ridono delle streghe, del diavolo, di tutto! Chi non crede al
diavolo, non crede bene neanche a Dio, dice il signor pievano; me l'ho
appiccata all'orecchio, e penso anch'io come lui che se si va di
questa gamba, fra un altro po' d'anni, pioverà zolfo acceso. Per me
avvenga che può, e rida chi vuole, io sto col signor pievano, chi ha
da salvarmi è lui...»
Le donne non guardarono che viso facesse Tecla alle parole di Marta;
ma pensarono alla profezia del zolfo, udita lanciare di sul pulpito
dal pievano. E cominciarono a parlare di lui, e a dirne tante lodi;
che se davvero uno si sente fischiar le orecchie quando è menzionato
in qualche luogo, don Apollinare dovè sentirvisi dentro le centinaia
di grilli.
Ma la bisogna in cui egli era occupato in quel momento, non gli
concedeva di badare a queste minuzie; e aveva la testa intronata da
ben altri rumori; suon di stoviglie, tintinnio di bicchieri, voci
alte, un'allegrezza chiassosa. Sedeva a convito nel presbiterio, una
grossa brigata d'ufficiali delle genti Alemanne, venute a spalleggiare
l'altre della loro nazione, che in primavera ne avevano toccate dalle
bande di Nizza, in parecchi combattimenti. Quelle genti, sebbene non
fossero centomila, come Giuliano aveva inteso dire tra via, pure
ingombravano la valle da D... sino alle sorgenti della Bormida; e
villaggi e casali ne erano zeppi. I popoli di quelle terre ne avevano
gran disagio pei molti alloggi, pei viveri di che dovevano fornirle, e
più per quel che esse si pigliavano, a mò di predoni; e fra i guai che
pativano dagli Alemanni amici, e la paura dei Francesi, che calassero
a far battaglia con essi di qua dei monti; vivevano col cuore tra due
sassi. Nè quella paura poteva chiamarsi ubbía, perchè dalle cime
dell'Apennino, a San Giacomo, al Settepani, dove avevano poste le
grosse guardie, i Francesi parevano spiare l'ora acconcia a ferire
qualche gran colpo; e a sera si vedevano tanti dei loro fuochi, che su
quei monti pareva sempre la vigilia di San Giovanni. Don Apollinare si
sentiva scottare da tutti quei fuochi; e l'idea della calata dei
Francesi, tornava ad essere per lui come un ariete di bronzo, che gli
desse le gran capate nel petto. Sull'imbrunire, sempre chiudeva le
finestre del presbiterio, che guardava a mezzogiorno, non volendo
vedere quei monti d'amaro ricordo, coronati di quei fuochi maluriosi e
maledetti: nè solo o accompagnato s'era mai più fatto sino al
muricciolo, che chiudeva il sagrato da quella parte. Anzi, se gli
accadeva di dover discendere di castello pei suoi affari, pigliava un
sentiero a ridosso del colle, per non sentirsi in viso neanco l'aria
di quelle montagne; punto badando alla natura selvaggia di quel
sentiero, che pareva fatto per menare i cristiani a rovina.
Ma a mezzo luglio, venute quelle nuove schiere d'Alemanni, aveva
ricominciato a tornare in essere, come un lume che in sullo spegnersi
venga riempiuto d'olio. Si mise di nuovo a pigliare i suoi pasti, a
dormire un po' più tranquillo; e quando potè farlo, dopo quindici dì
d'apparecchi, si condusse in casa, a banchettare, gli officiali
rimasti a campo nella sua pieve.
Donna Placidia, la quale aveva così in uggia la gente d'arme, che solo
a vedere l'elsa d'una spada si segnava spaurita; s'era sfogata a
brontolare tutti quei giorni; e la vigilia del banchetto, pianse.
Perchè il fratello aveva tirato il collo a tanti capponi, che la stia
era rimasta vuota; quella stia consapevole, dove nelle sue noie essa
era certa di trovare un popolo devoto, al quale volgeva la parola
eloquente, quanto quella del pievano, quando parla dal pergamo ai suoi
parrocchiani. Ma da quella donna che penava poco a rassegnarsi,
perdonò al fratello lo strazio fatto; e badò che il desinare riuscisse
a modo. Essa in cucina, essa in cantina, essa a dar in tavola le
vivande, facendo da scalco, faticò per sette: paga di non essere
conosciuta per sorella del pievano; perchè (questo senso d'orgoglio
l'aveva), l'essere in letto ammalata a morte, le sarebbe riuscito men
duro che l'apparire agli occhi di tanti gentiluomini, in quel suo
stato di fantesca. Di tanti affanni patiti durante il banchetto, si
ricattò alfine, quando fu tempo di porre al fuoco la caffettiera; chè
messo il naso sopra quell'arnese, l'animo suo si rifaceva sereno. Il
fumo della preziosa bevanda, poteva su di lei, come la musica su certi
animi iracondi; e per dire a modo qual gusto vi ebbe anco quel giorno,
bisognerebbe averla veduta farsi oltre nella sala portando il bricco
lucente, in cui specchiandosi la sua e le faccie rubiconde dei
convitati, parevano, a misura che essa avanzava, fare una ridda.
Avevano mangiato gagliardamente, e bevuto da far raccapricciare le
viti della pievania; e chiacchieravano de' fatti loro fumando,
annuvolando la sala, scoppiando in risa ai motti di qualche compagno
che avrà canzonato l'ospite, perchè senza Tersite la compagnia non
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