Colei che non si deve amare: romanzo - 27

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E poichè non era stato il primo, voleva esser l’ultimo a possederla,
quegli che le darebbe insieme, quasi nello stesso attimo, le due
pressochè simili agonìe del piacere e della morte. Voleva tuttavia
ferirla nella sua carne più viva, con una forza malvagia, e, tenendola
in possessione, vedere come torcerebbe gli occhi sentendosi entrar per
le vene la spasmodica voluttà di quella morte.
Ora finalmente l’odiava; ora, dopo tante catene, si sentiva capace
d’un odio bello, nitido, sicuro di sè. Ed appunto perchè l’odiava,
si compiaceva nel dirle, come per ischerno, le più calde parole
d’amore; appunto perch’era sicuro di poterla uccidere, si dilettava nel
ripeterle cose dolci e lascive, le stesse cose d’un tempo, quand’ella
era perduta come lui nel desiderio di appartenergli, quando la sua
verginità null’altro era che un brivido, una cosa infinitamente
sottile, infinitamente vicina al peccato.
Ecco, e di nuovo era in suo possesso: aveva complice l’ombra, la
solitudine, il silenzio, e quel suo docile sonno, profondo come un
letargo; aveva complice inoltre l’arma vendicatrice, che teneva pronta
per il suo primo sussulto.
Sottovoce le raccontava i suoi giorni di fuga, le lunghe ore notturne
trascorse a possederla inanemente, le voluttà prodigiose di que’ sogni
e la fatica enorme dei risvegli logoranti.
— «Io t’ho date le più lunghe gioie che una donna mai ebbe dall’amore
d’un uomo; io t’ho goduta, — le diceva, — senza numero di volte nella
mia solitudine disperata, come tu stessa non potresti concederti ad
altr’uomo che a me. Ti conoscevo: so come baci quando ami, so il colore
delle tue iridi quando scompaion sotto le palpebre, so come le tue
ginocchia stringono e come fai quando gridi... Ma tu stessa, ora che
ti vedo, sei più bella ancora, e, così addormentata, mi ricordo che
passavi le tue notti nel mio letto, vicino a me. Allora non potevo
toccarti: ora ti tocco. Ora mi metto le tue braccia nude intorno al
collo, perchè tu morrai tenendomi le braccia intorno al collo. E,
vedi? non hai che una vestaglia tenue sul corpo... quasi nulla, un
velo appena, e sento già come sei tepida, come sei dolce... Ma perchè
vestita?... spógliati... io ti spoglio. Anche un semplice velo è di
troppo. Sei bella abbastanza perchè il mantello della morte ti avvolga
nuda. Io ti spoglio per l’ultima volta, e in questa luce, ancora più
candida sembrerai...»
Le correva con la mano per il corpo dolcissimo, la scopriva lentamente,
con indugi febbrili, assaporando a poco a poco il gaudio di vederla
mirabilmente spogliata. E là dove le vesti s’aprivano, il raggio della
luna penetrava, come per stendere una specie di velo glauco su la sua
carne scintillante.
Ed ecco apparve tutta nuda la gola purissima e la sommità un po’
convessa del petto, in cui nascevano ampiamente, dal suo mezzo fin
sotto le oscure ascelle, i due seni robusti, erti, rigogliosi, pieni
d’impudicizia e di splendore, simili a due conocchie straordinarie
gonfie di lana da filare.
Egli si fermò come inebetito, quasi vacillante benchè fosse
inginocchiato, con gli occhi pieni di uno spavento enorme, davanti a
quella nudità che aveva osato guardare. Il senso delle cose presenti
gli tornava a quella vista maravigliosa e peccaminosa, mentre, come
un’eco inafferrabile in fondo all’essere la voce del suo démone gli
andava sempre più sibilando: «Uccídila! uccídila! Sáziati, e falla
morire.»
Poi, di nuovo, sottraendosi a quella specie d’incantesimo, si
rammentava d’essere un uomo, un miserabile uomo brancolante sopra una
femmina seminuda, e questa femmina essere la stessa ch’egli non poteva
toccare, la sua sorella giaciuta nella medesima cuna, colei che portava
nel grembo l’inconsumabile amore.
Ed ebbe uno spavento immenso al pensiero che quegli occhi potevano
aprirsi e guardarlo. Si sentì serrare la fronte come da una mano
d’acciaio, fredda e forte; si sentì per tutto il corpo trafiggere
come da molte lame che gli recidessero i tendini, ad uno ad uno, per
sfibrarlo.
Aveva complice la notte, la solitudine, il silenzio, e quel suo docile
sonno profondo come un letargo, ma non poteva toccarla.
E perchè non potrebbe toccarla? Chi dunque lo condannava a doverla
uccidere senza godere di lei?
«Un nome... — si ricordò ch’ell’aveva detto una volta, — cos’è un
nome?...»
E dentro, il suo démone beffardo gli urlava con una specie
d’implacabile crudeltà: «Sáziati, e falla morire!»
Allora la sua bocca malvagia si tese all’ápice d’uno di que’ seni
rotondi, per suggerne il forte sapore; quella orrenda lussuria lo
istigò a conoscere dappertutto la sua nudità indifesa, e nel baciarla
si sentiva pervadere da un’ebbrezza delirante, come se il suo corpo
fiaccato, arso, rovente, si empisse all’improvviso d’un ristoro
paradisiaco, e, dentro le sue vene lievi, non più sangue scorresse ma
una inconsumabile voluttà.
E la cingeva, e la toccava, e quel corpo stava per essere finalmente
la sua preda sul limitare della morte, nè più sapeva chi ella fosse,
nè per qual modo su l’orlo della tragedia inevitabile egli potesse
conoscere il principio di una così grande felicità.
Anche gli pareva di rammentarsi un’altra notte lontana — quasi dispersa
nel vortice del passato — quando parimenti si era trovato curvo su
quella amata bocca, pallida, ma non così ferma... — e la baciò.
La baciò a lungo, assetatamente, con ira, come si sugge un delizioso
veleno. E gli parve, sotto i suoi baci, ch’ella si agitasse un poco;
udì un sommesso lamento, che gli parve un lamento d’amore. Traverso
il velo di quell’ebbrezza, la memoria del mondo non gli sembrava più
che un oceano infinito, la vita stessa una vacuità immensa, colma
di piacere. La baciava su la bocca e su la fronte, sui capelli e su
gli occhi; e su la bocca e su gli occhi della sorella addormentata
balbettava in delirio le sue parole d’amore.
— Fammi con le braccia intorno al collo un nodo forte... più forte...
Ella aperse gli occhi, e lo guardò. Forse non lo vide, ma lo guardò. E
quegli occhi rimasero sbarrati, fermi, tra le palpebre violette, sotto
l’arco dei grandi sopraccigli, a fissarlo inesorabilmente.
Percosso dal terrore, mentre giungeva per l’ultima volta su l’orlo
del peccato, la volontà gli ricadde nell’anima, tutta d’un colpo,
infranta. E subitamente, nella faccia della sorella svenuta come nello
specchio d’un’acqua senza fondo egli rivide salir la faccia del loro
padre taciturno, la pallida faccia senile, emaciata sino al teschio,
l’incancellabile sembianza del generatore che separava i suoi figli.
Livido, indietreggiò nel buio. La catena delle due braccia inerti si
disfece, ricadde come spezzata, mentre, dal divano dov’ella era stesa,
il fantasma del padre si alzava più preciso contro di lui, divincolando
a fatica da quel sonno le sue membra cariche di squallore.
E rivide, come l’ultima volta nella casa dell’umile occhialaio, questo
bianco suo padre levarsi con una specie di maestà, per minacciare il
figlio primogenito che aveva osato peccare contro la legge sacra delle
famiglie e spingere l’occhio lascivo sotto la coltre della sorella
addormentata.
Ed ora non più lei vedeva; ma soltanto vedeva lo scarno fantasma, vero
di una tragica umanità, sorgere contro il figlio maledetto, contro il
violatore della bellezza ingaudibile, per respingerlo indietro da lei,
fuori dalla casa, fuori dagli uomini, fuori dalla vita...
L’incubo sopraffaceva la coscienza dell’uomo dannato, la follìa latente
scoppiava nel suo cervello tragico, dandogli quella specie di briaco
terrore che invade la bestia accerchiata da un pericolo senza scampo.
La pazzìa liberatrice finalmente soverchiava questo mediocre uomo, che
aveva osato racchiudere nella pavida sua temerità l’amore maraviglioso
d’un dio.
E in fuga, davanti ai fantasmi del suo delirio, si cacciò per la notte
d’estate, briaca e folle come una baccante, che saliva per i culmini
del cielo, tra un’apoteosi di stelle...
. . . . . . .
Lontano qualche miglio di lì, sotto i fuochi già rossi dell’aurora
d’Agosto, un gruppo di terrazzani mattinieri scendeva cantando per
il declivio della collina, ciascuno recando su l’ómero la gran falce
lunata, che il sole nascente incendiava di tremanti arcobaleni.
Andavano a mietitura; la terra pingue di frumenti faceva risplendere di
mattutina ilarità l’anima di quegli adusti mietitori.
A perdita d’occhio, violastri e biondi come un mare sovra il quale
indugino gli ultimi vapori della notte, i campi non mietuti si
stendevan nella immensa pianura, ed ogni cosa pareva oscillasse in una
dorata inquietudine solare, prima che, nell’irrompere del giorno, tutto
bruciasse d’aurora e di fiamma sotto la furia dell’estate.
Ed ecco, nella incendiata serenità, il sole sbocciò dall’oriente, come
da un paonazzo cratere del fuoco sotterraneo, e gli uomini che andavano
per falciare, d’improvviso, lo salutarono col loro canto.
Poichè infatti l’avevano lavorata insieme, quella terra onusta di
raccolti, gli uomini e il sole.
Giunsero al piano, s’incamminarono tra le messi brillanti come un’esca,
ricurve sotto il peso delle pannocchie d’oro, che fra i papaveri di
campo sgranavano dal cartoccio rotto un enorme riso giallo.
Poichè il sentiero fra le due prode facevasi angusto, e di qua, di là,
fra gli alti campi si perdeva, gli uomini con le lor falci si misero in
fila. E cantavano sempre, nell’aurora vittoriosa, l’inno colonico al
sole onnipossente, alla terra libera, fecondata, che dona i raccolti
gloriosi, al vómero tenace che spezza la gleba irta di radici, alla
falce nitida che stride contro i fusti legnosi, e va, e va, traverso la
pazza estate, faticosa ed instancabile...
Ma, giunti verso il termine del sentiero, colui che andava in capo
della fila si fermò di colpo.
— Gesummaria!... — gridò verso i compagni; e con la faccia tutta
bianca, rimase incerto se avanzare.
— Che c’è? — domandarono quelli che stavano ancora dietro la svolta. E
si addossarono a lui, sollevando le brillanti falci, spezzando nella
ressa improvvisa qualche fusto di grano. Ma quel che videro li fece
inorridire.
Lì su la proda, lungo il sentiero nel campo, un uomo giaceva,
immobile, contorto, a metà prono, a metà sopra un fianco, la faccia
bruttata nella terra tutta molle di sangue. Un grosso can da pagliaio,
laido e col pelo irsuto, forse un can sperso, di quelli che van la
notte uggiolando fra campagna e campagna, lasciava pendere dalla
fauce intrisa la lingua bramosa, e accovacciato su le quattro zampe
leccava con una specie d’ingorda sete la pozza di sangue rappresa nel
terriccio, sotto la tempia ferita.
— Un morto... — bisbigliò quello che stava davanti al gruppo. E
raccolta una pietra, la scagliò contro il can errático, dalle orecchie
mozze, dagli occhi notturni ed iniettati come quelli d’una jena.
L’animale, colpito nel fianco, digrignò senz’abbaiare i denti
rossastri, e zoppo sotto il peso del suo ventre gonfio si mise a
correre lungo la proda. Quando fu lontano guaì.
— Coraggio, — disse il mietitore; — forse non è morto ancora.
Però, da solo, non gli bastava il cuore per avvicinarsi.
— Fatevi prima il segno della croce, — suggerì cristianamente il più
vecchio de’ mietitori. E con la dura mano, sacra di antico travaglio,
si toccò la sua fronte rugosa.
Gli uomini, sotto il lampo delle lor falci, si fecero il segno della
croce. Poi, con paura, gomito a gomito, si avvicinarono.
Veduta più da presso, la faccia orrenda li raggelò. Si curvarono.
Stretta nel pugno convulso, la sottile arma luccicava, — il piccolo
meccanismo d’acciaio, gelido, infallibile che aveva data la morte.
Intorno alla tempia bruciacchiata era un grumo di sangue nero; degli
occhi, uno era chiuso e pesto, l’altro sbarrato, vitreo, scoppiante
quasi dall’órbita, come l’occhio d’un uomo che fosse morto in delirio.
Gli sollevarono l’altro braccio, che ricadde come piombo; gli tastaron
la fronte fredda, le gambe stecchite, il cuore fermo.
— Amen... — mormorò il più vecchio dei mietitori. — Che Gesù Cristo,
nostro Signore, raccolga nella sua pace l’anima di questo cristiano.
E recitando a bassa voce la preghiera dei morti, santificarono la proda
empia su cui giaceva un cadavere insepolto.
Poi uno dei falciatori sciorinò il suo fazzoletto di percallo e con
pietà lo distese come un sudario su quegli occhi spenti.
— Non è di queste parti, — osservò un altro, che aveva, lì nel campo,
raccolto un fiore.
— Neanche delle nostre ville; certo veniva dalla città.
— È sempre la città che li ammazza...
— Dal modo com’è vestito sembra uno di quelli che pretendono di saper
godere la vita...
— Così giovine!
— Sì, una trentina d’anni.
— Forse anche di più.
— Trasportiamolo.
— No, — rispose il più vecchio dei mietitori. — Bisogna prima che lo
veda il Sindaco.
E in silenzio, con le fronti curve, tra il sole che nasceva sul mondo
rifecero il cammino.

RICHMOND HILL — _Agosto 1908_.
AIX-LES-BAINS — _Settembre 1909_.

FINE


_DELLO STESSO AUTORE:_

L’amore che torna — 1908
Ultima edizione: dal 101.º al 150.º migliaio _Romanzo_
Colei che non si deve amare — 1910
Ultima ediz.: dal 131.º al 180.º migliaio _Romanzo_
La vita comincia domani — 1912
Ultima ediz. dal 106.º al 155.º migliaio _Romanzo_
Il Cavaliere dello Spirito Santo — 1914
dal 41.º al 70.º migliaio _Storia di una giornata_
La donna che inventò l’amore — 1915
Ultima ediz.: dal 96.º al 145.º migliaio _Romanzo_
Mimi Bluette, fiore del mio giardino — 1915
Ultima ediz.: dal 111.º al 160.º migliaio _Romanzo_
Il libro del mio sogno errante — 1919
Ultima ediz.: dal 51.º al 100.º migliaio
Sciogli la treccia, Maria Maddalena — 1920
Terza ediz.: dal 101.º al 150.º migliaio _Romanzo_
_Le altre opere sono esaurite o fuori commercio e l’A. ne vieta la
ristampa._
NOTA DEGLI EDITORI.
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