Colei che non si deve amare: romanzo - 16

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rideranno quando finalmente vi cadrò.
— Povero amore mio... senti, senti... non devi dire queste cose. A
tutto si rimedia. Io...
— No, tu no! Tu sei stata sempre troppo buona con me.
Ella trasse un profondo sospiro:
— Oh, se mi ascoltassi un poco!... se tu mi volessi ancora un po’ di
bene!...
— Te ne voglio, Clara, lo sai...
— No, no... — E c’era nel suo viso l’espressione d’una rinunzia
inconsolabile.
— Non piangere dunque. Sii buona, guárdami. Se tu sapessi quanto mi
ha fatto bene venire qui. Ero come un pazzo. Ma non piangere, via, non
piangere!
Con un fazzolettino minuscolo ella si rasciugò gli occhi; ma più li
tergeva, e più eran lacrime nuove. Allora egli la baciò su la bocca,
su gli occhi, su la fronte. Quella bontà e quel dolore lo vincevano
insieme, senza simulazione. Ella, incoraggiata, insinuò le dita fra
i suoi capelli folti. Era in lei un gesto abituale; quelle sue lunghe
dita sottili vi entravan come un pettine.
— Se fossi ancor ricca come una volta... — ella disse. Ma vedendo
ch’egli si turbava, súbito corresse: — No, non sei stato tu: siamo
stati un po’ noi, tutt’e due insieme... Bisognerà mettere un sesto
a tutte queste cose. Ho molte gioie ancora, ho la casa... Dovresti
aiutarmi.
— Sì, Clara, vi penseremo.
— C’è anche un po’ di denaro alla Banca, ma quello...
— Non voglio, non voglio, Clara!
Con una carezza ella gli impose di tacere.
— Quello è di Adelina, e non dovrei toccarlo. Ma, insomma... lo
renderò. Certo: noi venderemo la casa, perchè Lela non ci deve perder
nulla, è vero? Ma anche tu non devi soffrire. Io non posso vederti
così. Va presto, va e ripósati. Non pensare più a nulla. Dormi qualche
ora. Io telefonerò súbito all’amministratore. Mi farà certo una
scenata... ma non importa.
— No, Clara, non voglio! non è possibile! non posso più accettare!
— egli esclamava con sincera veemenza. — Sono venuto da te perchè mi
sentivo solo e perduto... ma non voglio rovinarti ancora. Potrò forse
trovare altrove quel che mi abbisogna; lasciami cercare almeno.
Ella strisciò contro di lui, lo avvolse nelle sue braccia deboli,
sorrise con fedeltà, vicino alla sua bocca.
— No, amore, tu devi solo dormire, fare un buon sonno; vedi come sei
stanco? Prima di sera tutto sarà in ordine. Non pensarvi più.
— Come sei buona! come sei buona!... — egli balbettava, un poco
tremando. E con un atto di vera ribellione contro se stesso:
— Ah, che vigliacco sono io! — esclamò.
— Taci, taci... — ella disse chiudendogli la bocca. — Va e dormi.
Riposa tranquillo fino a sera. Verrò a svegliarti io, se vuoi... —
Fece una pausa, le si gonfiaron un po’ le vene del collo, gli occhi le
brillarono; — Vuoi?...
Egli vide in un baleno il gran letto su cui s’era seduta Lora... Una
terribile ombra gli si addensò nella fronte.
— Vuoi?... — fece ancora l’amante.
— Sì, vieni, — diss’egli con una voce opaca. E non la guardò.
Lela riprendeva la canzone di Grieg, tristissima e tormentosa, dolce ma
inguaribile, come un dolore che non abbia fine, come un amore che non
dia pace.


IX

Qualche giorno dopo era la Domenica del Gran Premio. Un ippodromo
sfavillante attendeva la maggior prova dell’anno. Il prato, invaso da
una moltitudine tumultuosa come un mare, spariva sotto l’ondeggiare
degli ombrellini aperti e dei cappelli chiari, che luccicavan nella
vampa del sole. Lungo gli steccati s’eran disposte in triplice fila
le vetture stracariche di gente, che, ritta sui sedili, trepidava e si
agitava nell’attesa della prova solenne. Sotto le tettoie vampanti gli
scommettitori urlavano le quote, cinti a tracolla d’una borsa gonfia
di denaro, e dall’alto scanno dominavano la folla come forsennati
arringatori.
Dall’altro lato della pista le tribune parevano immensi alveari umani,
gremite le scalinate, gli spalti, i terrazzi; maraviglia di colori tra
il verdeggiare degli alberi, sotto il limpidissimo cielo.
Tutta la città era uscita dalle sue mura per invadere l’ippodromo:
gente latina, memore de’ suoi circhi romani, applauditrice d’aurighi,
amatrice di competizioni, partigiana d’un colore. Dalla tribuna
reale assisteva un Principe con la sua corte; intorno a lui, dame
e gentiluomini occupavano le gradinate. Tra le rose rampicanti, che
assalivano le ringhiere e i terrazzi delle tribune, pendevan grappoli
di belle donne, uscite in abito primaverile con la primavera nel
viso; nascosti gioielli che raramente la città operosa può raccogliere
insieme.
Abbasso era un correre, un ondeggiare, uno scambiarsi frettoloso
di saluti e di pronostici. Gentiluomini gravi, con l’abito grigio a
lunghe falde, il cappello a tuba, il canocchiale a tracolla, radunati
in crocchio a discutere animatamente; bellimbusti e Mammagnúccoli,
veri signori della pista, che affettavano volentieri, secondo la moda
inglese, di giungere a quel solenne convegno in abito da mattina;
giovani patrizi, attillati, composti come ad un ricevimento, al séguito
d’una o di più nobildonne, dispensando sorrisi, avanzando i loro
pronostici raccogliticci, offrendo di giocare in società; giovinottini
di primo pelo, incerti ancora se scegliere a modello della propria
vita Lord Brummel o don Giovanni Tenorio, che andavano in giro a
saettar d’occhiate irresistibili tutte le belle ragazze, con la tessera
di soci bene in mostra all’occhiello, un binoccolo enorme, e certe
pose ancor dubbie fra il «dandy» e l’allenatore; vecchi scapoli, dai
calzoni a quadrettini bianchi e neri, le marsine fuor di moda, la
tuba d’altri tempi, che trascinavan dietro qualche sottana il passo un
po’ spinitico, parlando dei Grandi Premi di tanti anni fa, quando non
c’erano ancora l’automobili disadorne, ma si contavano a decine i tiri
a quattro, i tiri a sei...
Giuocatori accaniti che odiano la folla, vorrebbero l’ippodromo
tramutato in una bisca, vanno, vengono, si consultano, contano
denaro, si bisticcian coi pubblici scommettitori o cavano l’oroscopo
della corsa dopo averne escogitate tutte le possibilità. Proprietari
di scuderia che si dànno un gran da fare; poi si lascian carpire
qualche misteriosa informazione da qualche bella signora, passeggiano
con l’allenatore parlando inglese, un inglese molto stretto, e
irreprensibilmente vestiti vanno prima della corsa a carezzare il muso
del proprio cavallo e rivederne l’imboccatura. Fantini amenissimi nella
loro piccolezza, nutriti di carni sanguigne, arsi dal wisky, cinti già
dei loro colori, con un soprabito cortissimo color nocciuola, simili
un poco ai pagliacci dei circhi equestri, quando, già infarinati e
dipinti, s’infilano la giubba e màsticano un mozzicone di sigaro, fra
un numero e l’altro dello spettacolo in cui dovranno far ridere.
Ufficiali di cavalleria che sperano in questa come in ogni altra
occasione per innamorare una ragazza ricca o debellare una bellezza
restìa; negozianti arricchiti, venuti con lucidi equipaggi,
studiosi d’accedere per mezzo di lente insidie ai chiusi olimpi
mondani; cortigiane un po’ sciupate dalla notte di vigilia del Gran
Premio, notte in genere assai clamorosa ed irrigata di Sciampagna;
cortigianelle di minor conto, vestite dalle sarte dei quarti piani, che
han rinfrescato alla meglio un cappellone da sera, si son comprate un
ombrellino nuovo, e molestan d’importune familiarità chi non vorrebbe
affatto ricordarsi d’averle per caso conosciute una sera. Cortigiane
libere, venute sole, con una certa spigliatezza di «sportswoman», in
abito di taglio inglese, armate di binoccolo, con il programma ed una
matita nella mano inguantata. Allegre, ciarliere, adorne di ricchi
gioielli che portano con semplicità, noncuranti di sciuparsi l’abito,
passano e ripassano come palafrenieri tra i cavalli sellati, giocano
pacchi di biglietti, commentano le partenze, salgono in piedi su le
seggiole per seguire la corsa, riconoscono i cavalli a tutte le curve,
sanno gli ordini di scuderia, vedono chi trattiene e chi taglia la
strada, bestemmiano qualchevolta agli arrivi, e traversano i crocchi di
signore con una certa millanteria, contente d’avere in comune con esse
la medesima sarta e le stesse avventure d’amore.
Fra tutta questa gente, quelle povere bestie che ne fanno le spese: i
cavalli da corsa, malcontentissimi d’essere puri sangue, cioè d’aver
perduto a poco a poco, in una lenta evoluzione, tutto quello che li
faceva somigliare ad equini, per chiudere in una pelle succinta la lor
sottile carcassa di spartiventi e mettersi a galoppare come dannati
sotto la frusta e lo sprone, portando su la groppa, rannicchiata, una
piccola scimmia curva e leggera.
Per lo sterrato ch’era intorno alle tribune Loretta passeggiava
insieme col fratello, divertendosi d’ogni piccola cosa, domandandogli
un’infinità di spiegazioni. Arrigo le aveva scelto un abito ch’era un
piccolo capolavoro di grazia e di rarità, d’un colore quasi biondo,
quel colore che ha talvolta nel bicchiere il vin del Reno sotto la luce
d’un paralume rosso, e che pure han talvolta certe rose, nell’aprirsi,
fra il giallo della rosa tea e l’incarnato della rosa di Francia; un
colore che somigliava a lei, poich’era voluttuoso, morbido e leggero.
Portava un gran cappello di paglia, fiorito, leggiadrissimo, con
l’ala da un lato curva su l’orecchio e sul viso, dall’altro ripiegata
spavaldamente alla carabiniera; portava un ombrellino alto di manico,
intonato con il colore dell’abito. Da quella seta e tra quei fiori
la sua personcina un po’ frivola, piena di irrequietezze, bella di
naturali armonie, traspariva come una statuetta ben modellata, che
fosse appena ravvolta in una carta velina. Camminava di qua, di là
curiosamente; tutto la interessava, ogni cosa le piaceva.
Ella era nata per essere tra quei lussi, per divertirsi di quegli
svaghi, per vedersi dagli occhi altrui desiderata con una certa
insolenza. La bottega paterna era già così lontana da lei e dalla sua
immaginazione, che le pareva di non esserne mai stata prigioniera. Per
un istinto femineo, svegliatissimo in lei, aveva osservate le donne
eleganti nei loro abiti e nei loro atteggiamenti, sicchè le riusciva
molto facile imitarle; non le invidiava già più; sapeva di possedere
nella sua giovinezza, nella sua freschezza, un valore inestimabile.
Portava un ciuffo di riccioli rimessi, dietro, su la nuca; e ciò le
stava bene; aveva raccolto il biondo peso de’ suoi capelli sul lato
che rimaneva scoperto per la rovesciatura dell’ala, e così parevano più
voluminosi ancora.
Vicino a lei Arrigo si sentiva triste; una tristezza profonda, quasi
un male, assaliva il suo cuore colpevole; poichè la sua bellezza
insidiosamente lo pungeva, come una rosa dallo stelo irto di spine.
Lo pungeva con la sua voce troppo chiara, che talvolta si velava di
suoni torbidi nel parlare a lui, con lo sguardo lieve de’ suoi occhi
ridenti, che avevan di continuo sotto le ciglia un fuoco nascosto; con
la forma del suo corpo femminile, ch’era troppo agile, troppo arcato,
troppo desideroso d’offrirsi al piacere degli uomini.
Gli pareva che tutti indovinassero la sua sofferenza inconfessabile,
vedessero in lui palesemente la colpa mostruosa, e dietro le sue
spalle ne parlassero, piano, ma continuamente. Una specie di oscura
gelosia cominciava a nascergli nel cuore, nei sensi torbidi, e guardava
talvolta gli ammiratori della sorella con una irritazione d’amante
sospettoso.
Avrebbe voluto condurla via, per sè solo, in una casa nascosta, in una
terra lontana, e là, forse, osare... osare quel grande inconsumabile
peccato.
— Dimmi, Arrigo: dove partono i cavalli?
— Non vedi? Partono laggiù.
Erano su la tribuna, ritti, vicini, fra la gente che assiepava. Egli
additò verso il fondo della dirittura i nastri abbassati, là dove il
giudice di partenza ordinava i competitori.
— Come si chiama il nostro cavallo?
— Dómino.
— Lo abbiamo vincente o piazzato?
— Uno e l’altro.
— Che colori porta?
— Giubba rossa, tracolla nera. È il terzo, vicino allo steccato.
— Dammi il canocchiale.
Per guardare si protese innanzi, afferrandosi al suo braccio.
— Non vuol star fermo, — disse.
— È un cavallo bizzarro: se parte bene vince, se no...
— Sono partiti!... — ella esclamò, stringendo il suo braccio. — Dómino
è davanti!
— C’è tempo, — egli fece; e si mise a guardare.
Passarono in gruppo serrato, levando su dal terreno un rimbombo veloce;
alla curva si piegarono come un sol corpo su lo steccato.
— Dómino cede, — disse Loretta che li seguiva palpitante.
— No, è tenuto, — rispose Arrigo. — La corsa per lui è ottima.
Si confusero laggiù, tra gli alberi. Ogni tanto, nel folto, un po’ di
bianco, di giallo, di rosso, e qualche criniera. Comparvero lontani,
all’ultima curva, già distanziati l’un dall’altro, e bassi, appiattiti
sul terreno, fra un saettar di scudisci, sbucarono in dirittura.
— Sono tre, mi pare, insieme, — disse Loretta.
— No, Dómino è sempre in testa, ma per poco, — fece Arrigo, attento al
canocchiale.
Giungevano. Da la folla si levava qualche clamore, qualche nome
indistinto:
— Dómino! Dómino! Canopic! Smallah!....
— Vince! vince! — esclamava Loretta, stringendo nervosamente il braccio
del fratello.
Erano alle tribune, in quattro, lottando, vicini. E la folla
pareva spingere col suo fiato, con la sua forza, il cavallo per cui
parteggiava.
— Smallah!... Smallah!... — fu da più parti un grido.
— Al diavolo! — esclamò Arrigo. — Dómino è battuto.
A pochi metri dal traguardo la piccola morella montata in giubba verde,
era scattata fuori, per una corta incollatura, e vinceva.
— Smallah! Smallah! — si urlò da più parti, applaudendo. E nell’aria
oscillò quella specie di pausa che segue le prolungate concitazioni,
come avvien nel mare dopo l’ondata.
— Che peccato! — fece Loretta. — Hai perduto allora?
— Ho Dómino piazzato e non perdo nulla; ma credevo di vincere.
— Ti secca molto? — ella domandò al fratello, vedendolo un po’
rabbuiato.
— Bah! sono sciocchezze! Andiamo.
Scesero. A piè della scalinata s’incontrarono viso a viso con Rafa.
Tutti e tre, per un moto istintivo, rimasero perplessi.
— Addio, Giuliani, — disse Arrigo seccamente.
— Buon giorno, Ferrante, — rispose l’altro, molto impacciato, levandosi
il cappello con un saluto cerimonioso. Loretta, ch’era più padrona
di sè, gli mandò un rapido sorriso. Arrigo fece atto di proseguir
oltre, ma Rafa, superata la prima confusione, mostrò di non volerli
abbandonare. Dopo lungo riflettere aveva concluso fra sè che il miglior
espediente fosse quello di farsi presentare a Loretta dallo stesso
fratello, e ne spiava l’occasione.
— Hai vinto, Arrigo? — gli domandò.
Stava di fronte a loro, fra le due ringhiere della scalinata, ed
impediva il passaggio.
— Ho Dómino piazzato, — questi rispose, non potendo farne a meno.
— Ed ora che giuochi? Dammi un buon pronostico.
— Nel Gran Premio ho già presa Arianna: ma voglio coprirmi sul cavallo
francese.
— Quale? Fontenay?
— No, Gabriel. Fontenay non può far nulla. Ho visto i galoppi.
Loretta era rimasta un passo lontano, quasi nascosta nel cespo di
rose che s’arrampicava su le colonne della tribuna. Disegnava qualche
arabesco nella ghiaia con la punta dell’ombrellino ed ascoltava i
discorsi dei due con un’aria indifferente.
— Ho inteso dire che Missolungi può vincere, — ella fece d’un tratto,
levando il viso, con l’aria più naturale del mondo.
— Vuoi presentarmi a tua sorella? — domandò Rafa, con voce titubante,
arrossendo un poco.
Arrigo esitò un attimo, impercettibilmente.
— Volentieri, — disse. E fece la presentazione:
— Il conte Raffaele Giuliani; mia sorella Anna Laura.
Loretta gli tese la mano, garbatamente, con la maggiore tranquillità;
egli s’inchinò profondamente, per nascondere la commozione che lo
turbava.
In quel momento il viso di Arrigo si oscurò, divenne perfido e
minaccioso.
— Andiamo a vedere le quote, — disse con asprezza.
— Dunque lei crede in Missolungi, signorina? — domandò Rafa, che
intanto le si era messo a lato.
— Io non me ne intendo affatto, sa!... Ma ho inteso dire che questo
cavallo possa vincere.
— Missolungi ha senza dubbio molte probabilità in suo favore; sopra
tutto il peso — affermò il Giuliani.
— Missolungi è un ronzino! — disse Arrigo aspramente. — Sarà finito a
mezzo il percorso.
— Scusa, ha pur vinto il Derby lo scorso anno, — osservò Rafa.
— Già... un caso! Missolungi, qui, non può far nulla. Questa corsa è
fra tre cavalli: Arianna, Gabriel e Bloomy Boy. Li vedo arrivare in
quest’ordine.
— Voialtri intenditori di corse — disse Rafa — vedete spesso il
rovescio di quello che poi accade.
— Bah!... e tu cosa vedi, se è lecito?
— Io per solito gioco un «outsider». Scelgo il nome che mi piace di
più, e, se guadagno, mi pagan molto.
— Un bel sistema, non faccio per dire! E qui cosa scegli allora?
— Sono incerto fra Eglantine e Thermosiphon.
— Per bacco! non c’è da esitare: scegli Thermosiphon.
— Sono anch’io di questo parere, — disse Loretta ridendo.
— Infatti lo dànno a venti: è una buona quota.
Si avvicinaron allo scommettitore; Rafa si tolse di tasca due biglietti
da cento e li tese al «bookmaker».
— Thermosiphon vincente, — disse forte, per far ridere alcuni amici
ch’erano intorno.
— Quattromila per duecento Termosiphon vincente! — rispose lo
scommettitore, firmando la tessera.
E urlava:
— Due e mezzo Arianna! Gabriel a due... Quattro Bloomy Boy!....
— Il francese parte favorito, — osservò Arrigo. — Tre giorni fa lo
davano a cinque.
— Bloomy Boy a quattro quinti piazzato... Gabriel piazzato a mezzo... —
annunziava lo scommettitore.
Arrigo si fece innanzi tra la folla, con un biglietto da cinquecento in
mano, e domandò piano allo scommettitore:
— Bloomy pari piazzato?
— Non posso.
— Via!... cinquecento lire....
— Vanno!
Rafa, rimasto un momento solo con Loretta, ne aveva profittato per
dirle:
— Venite domani, vi prego! Da tanti giorni non vi rivedo più... Cosa
mai succede?
— Silenzio, silenzio, per carità!
— Ditemi almeno cos’è accaduto? Non so più nulla, non mi scrivete....
— Per l’amore di Dio, Rafa...
— Promettimi almeno che scriverai.
— Scriverò, scriverò, ma tacete ora. — E aggiunse forte: — Sarebbe una
bella sorpresa se arrivasse Thermosiphon!
— Se arriva, tu mi avrai portato fortuna, — egli osservò amorosamente,
piegandosi un poco verso di lei. E sottovoce le disse: — Come sei
bella!
— Oh, insomma... cos’è questo?! — ella esclamò, battendo l’ombrellino a
terra con súbita irritazione.
Rafa prese un atteggiamento assai corretto, poichè il fratello tornava.
— Cos’hai giocato ancora? — domandò Loretta.
— Bloomy Boy piazzato.
— E Gabriel?
— Gabriel no. Non posso giocare tutti i cavalli, ti pare?
— Me lo avevi detto prima tu stesso... — ella osservò, intimidita di
quel tono aspro.
— Certo; ma non sapevo che partisse favorito. Se poi arriva, tanto
peggio per me!
— Posso offrirvi un bicchiere di Sciampagna? — propose Rafa.
— Vuoi bere, Loretta? — domandò Arrigo.
— Sì, volentieri: ho sete.
— E allora beviamo.
Loretta notò che il fratello era di cattivo umore; camminando appoggiò
la mano sovra il suo braccio, lo strinse furtivamente.
— Che hai? — gli domandò sottovoce.
Egli scrollò il capo senza rispondere.
Passarono davanti alle tribune, per il largo recinto, che
nell’imminenza della gran corsa era ingombro d’una folla irrequieta e
mutevole.
Il cielo s’era coperto un poco; certi grevi nuvoloni, d’un color di
piombo e d’oro, salivano sopra la città lontana, oscurando il sole.
Simili a grosse nari cariche, avanzavano su per il cielo da più lati
e cozzavano insieme, inglobandosi; oppure il vento li divideva,
li strappava a fiocchi, come enormi cumuli d’ovatta. Gli alberi
dell’ippodromo cominciavano a scapigliarsi; la folla umana, che come le
mandrie d’animali non ama l’acqua, si atteggiava tutta insieme a quella
paura sorridente che dà, sotto il cielo scoperto, l’imminenza d’un
temporale.
Una folata impetuosa di vento scompigliò le gonne delle signore,
minacciò di spezzare i loro esili ombrellini e fece volare in aria
qualche cappello d’uomo. Si udirono le risa argentine delle investite
squillare sopra il fragore della moltitudine.
— Speriamo non piova, — disse Rafa, entrando nella sala della
bottiglieria; — un acquazzone guasterebbe il ritorno.
— Pazienza! — disse Arrigo; — ci bagneremo un poco.
— Come siete venuti alle corse?
— Col mio tilburi.
— Caso mai, — fece Rafa — la mia automobile si può chiudere. Se volete
profittarne....
— Grazie, grazie; forse non pioverà.
Il sole tornava, spariva, tra nuvole di piombo e d’oro; il vento
infuriava negli alberi antichi.
In piedi, vicino al banco, si fecero servire lo Sciampagna, ch’era
mesciuto con una scodella da un gran vassoio, nel quale raggelava,
misto a neve e spicchi di frutte.
— Bisogna far presto per vedere la corsa, — disse Loretta.
— Lei s’interessa molto de’ cavalli, signorina?
— Me ne interesso molto; però vengo alle corse assai di rado.
— Male! Spero che d’ora innanzi divenga un’assidua.
Arrigo leggeva attentamente un giornale di pronostici, sorbendo con
lentezza la bevanda raggellata. E l’uno e l’altro, mentr’erano così
vicini, Loretta li osservava.
Suo fratello era un poco più alto di Rafa; aveva una persona meglio
costrutta, e più agile, pur essendo più forte. Il viso di Rafa,
sbarbato, liscio, simile a tanti altri che i parrucchieri e la moda
riducono a parer quasi gli stessi, contrastava e impallidiva davanti
alla vivace bellezza di Arrigo. Ella osservava il viso del fratello,
intento a leggere: i baffi leggeri, sul labbro ben disegnato,
accentuavano la bianchezza della sua bella dentatura; gli occhi
nerissimi, splendenti, con quello sguardo che poteva essere freddo
come una lama o dolce come una carezza, la capigliatura compatta,
morbida, per cui solcava un’onda lucentissima, il colorito sano,
quell’espressione ch’egli aveva insieme di virilità e di baldanza,
erano in singolare contrasto con la bocca un po’ sciupata dell’altro,
con i suoi occhi d’un colore smorto, con i suoi capelli troppo
ubbidienti al pettine.
Ma (una cosa che forse Loretta non poteva ben valutare) in tutta la
persona di Rafa, ne’ suoi lineamenti meno precisi, nelle sue membra
meno belle, v’era una delicatezza che all’altro mancava, un segno di
antica signorilità, che il figlio dell’occhialaio aveva malamente
potuto imitare. Ella tuttavia, ch’era della medesima sua razza, si
sentiva attratta verso quella robusta e bella statua, perchè il suo
corpo femineo sentiva in lui vibrare più veemente la forza imperiosa
del maschio.
— Andiamo a cercare un buon angolo su le tribune, — disse Arrigo.
— Vi dispiace se rimango un po’ con voi? — domandò Rafa cortesemente.
— Tutt’altro, — rispose Loretta. — Venite.
— Vieni, vieni, — soggiunse Arrigo, non più corrucciato.
Salirono su la tribuna, cacciandosi tra la folla, ed a gran stento
trovaron posto in una delle prime gradinate.
Metà del cielo era ingombro di nuvole, tutto il resto era una zona di
sole. Il prato, spesso di gente come un immenso mercato, brulicante
come un formicaio, ondeggiava di teste umane, levava un grande
frastuono di voci confuse. Dagli alberi qua e là disseminati pendevano
grappoli di ragazzaglia; le alte carrozze, in fila, come un lungo
bastione, eran cariche di gente salitavi sopra, ritta in piedi sui
cassetti, fra i cocchieri che s’eran tolta la livrea, mentre i cavalli
pazienti agitavan le code con un movimento ritmico, per liberarsi dalle
mosche importune.
Suonò la campana del buttasella. Un lungo mormorìo percorse la folla,
si vide gente accorrere da ogni parte. Le tribune, come immense
finestre spalancate, riboccarono di spettatori; gli steccati ed i
cancelli parvero piegare sotto il peso delle persone che vi poggiavan
contro.
Sopra quella grande aspettazione, il vento, cavalcatore di nuvole,
accendeva e spegneva la gloria del sol di primavera. I due giudici di
partenza usciron nella pista, ed a galoppo la risalirono per recarsi
verso il mezzo della dirittura. Un’altra campana squillò, ed i cavalli
entraron in campo, condotti a mano dagli allenatori, per la sfilata.
Erano quattordici competitori, spugnati, lustrati, bellissimi,
quasi consci della solenne prova che stavano per disputarsi; alcuni
mansueti alla mano che li frenava, altri impazienti, con le belle
code al vento, il collo inarcato, l’occhio irrequieto, già bianchi di
schiuma. I fantini impassibili parevano annoiarsi mortalmente di quella
passeggiata.
In quelle facce dure, arse dal vento, use alla sferzata della velocità,
curve su le criniere, tra gli spruzzi di bava, in quegli occhi sempre
attenti ad una meta, non era possibile indovinare un turbamento
qualsiasi. Erano la piccola macchina umana, fragile e pur forte, su
quel fascio di muscoli equini; non parevano rappresentare altra cosa
che una sottile frusta, un fino sprone, un volante colore; e tuttavia
non era il cavallo sovente, ma lui, quel nano, che in una furia
disperata di rivalità, per un più lungo respiro, stupendamente vinceva.
Arrigo conosceva i cavalli e li nominava per ordine.
— Brenno, il primo; è figlio di Marcus: farà il gioco della sua
compagna di scuderia, Versilia, la quinta. Il secondo è Moloch, veloce
ma senza fondo; il terzo è Fontenay, il quarto Gabriel. Un bel cavallo,
il più bello di tutti. La sesta è Samaritana, una bestia generosissima;
può fare una sorpresa; credo piuttosto in lei che in Missolungi, quello
che vien dopo. È un cavallino misero, ma ben fatto. Ecco Bloomy Boy;
lo monta Symson, il miglior fantino che sia oggi in Italia. Ecco, vedi
Arianna: è l’ultima.
Era una saura alta calzata di bianco ad una delle estremità anteriori,
leggiadrissima e capricciosa in ogni sua movenza, che saltellando
s’arrabbiava con l’imboccatura e con la mano di chi la conduceva.
Nei salti, la criniera le si sfioccava sul collo arcato, come una
capigliatura di donna bionda. Era montata in bianco, con due fasce nere
a tracolla, incrociate.
— È piccina, — disse Loretta.
— Vicino a Gabriel sì, per esempio; ma non è una cavalla piccola; poi
non vedi com’è fatta?
— Dov’è il mio Thermosiphon? — domandò Rafa.
— Eccolo là, vicino allo steccato, con una giubba a pallottole rosse.
— Quel nero? — domandò Loretta?
— Sì, quel baio scuro, — corresse Arrigo.
— Ma è un bel cavallo sai! — esclamò Loretta.
— Per le vetture di piazza... non c’è male!
— Oh, non me lo disprezzare!... — sospirò Rafa. — Ho tutta la mia
fiducia in lui.
Compiuto il giro davanti alle tribune, ad uno ad uno si mettevano di
galoppo per recarsi al palo di partenza. La folla del prato man mano
acclamava i suoi favoriti. Quando Gabriel prese il galoppo, fu un
clamore d’invidiosa ammirazione. Si stendeva su la terra come una lunga
molla elastica, in un galoppo facile, e pareva nettamente il più forte.
— Che bel cavallo quel Gabriel! — esclamò Arrigo.
— Perchè non hai giocato Gabriel allora? — ripetè Loretta.
— Credo in Arianna, — questi asserì, con un tono fermo e caparbio.
Bloomy Boy, che apparteneva alla scuderia italiana preferita
dal pubblico, era partito a galoppo serrato, sollevando applausi
d’ammirazione.
Arianna, nervosissima, e Missolungi vicino a lei, cercavan di
svincolarsi dall’allenatore lanciando falcate. Partiron insieme, di
scatto, fra uno scroscio d’applausi.
— Guarda Arianna! che azione maravigliosa! — esclamò Arrigo.
— Io vedo — cantilenò Rafa — che anche Missolungi va molto bene.
— La corsa è di Missolungi, — sentenziò uno di quegli interlocutori
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