Colei che non si deve amare: romanzo - 12

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ella teneva le braccia alzate; un’ombra oscura le appariva nel cavo
delle ascelle. In quell’atto ella sorprese gli occhi di lui che la
fissavano, intenti e lucidi. Allora, per un pudor naturale, abbassò le
braccia, se le strinse al petto, e si fece rossa.
— Non guardarmi così... — disse a volto chino; — mi costringi ad
arrossire...
Egli girò sui talloni, battendo il pavimento con un moto nervoso.
— Véstiti, véstiti! — disse bruscamente. — Non ti guardo.
Se ne andò a sedere in un angolo, e, poggiando i gomiti su le
ginocchia, si prese tra le mani la fronte avvampata.
— Sei in collera? — ella fece.
— No, Lora, perchè?
— Non mi parli...
— Siccome non vuoi che ti guardi...
— Ma guardami pure, se ti piace! Me ne vergognavo il primo momento;
adesso più.
E rise, mentre s’alzava per andarsi a mettere le scarpine.
— Se potessimo abitare insieme, come sarei felice! — disse Loretta. —
Non ti darei nessuna noia, ti lascerei tutta la tua libertà. Cosa ne
pensi?
— Nulla penso, piccola mia... — egli rispose con lentezza.
— Non vorresti avermi con te, Rigo?
— Sì, forse vorrei... ma sarebbe anche pericoloso...
E fece tosto una risata, quasi volesse celare il senso ambiguo delle
sue parole.
Ella guardò su dal letto, dietro il quale stava curva per infilarsi le
calze di seta.
— Pericoloso, dici?... Be’, tanto meglio!
E súbito si chinò di nuovo, si nascose tutta.
Rimasero un istante in silenzio; poi ella domandò:
— Non hai un corno per le scarpe? Mi rompo le dita.
Egli l’andò a cercare; le disse:
— Lascia fare a me; t’aiuterò io.
Appoggiò un ginocchio a terra, davanti la sedia ov’ella sedeva; su
l’altro suo ginocchio le fece posare la gamba semiscoverta e con
delicatezza si mise a calzarla.
— Oh, come sei bravo! — ella esclamò. — Devi certo averne l’abitudine.
— Sì?... ti pare?... E pensa che non amo far questo per nessuno... Mi
credi? — E non si moveva di lì, battendole il corno leggermente su la
caviglia calzata di seta.
— Vedi che piedino piccolo? — ella disse movendolo. — È più piccolo il
mio o quello della tua amante?
— Il tuo.
— Ora ti sarai impolverato; álzati.
Si levò in piedi e le rimase vicino, come un uomo che si sentisse
prendere da uno stordimento. Vedeva que’ due seni, troppo forti per
la sua verginità, que’ due seni divisi da un incavo profondo, che
rompevano fuor dal busto come pannocchie dal cartoccio; li vedeva,
oscuri e gonfi, traverso la scollatura del copribusto. E la sua
tentazione fu così forte che non seppe resistere: una mano gli corse
involontariamente a carezzare la sua gola nuda. Ma disse, a mo’ di
scusa:
— Guarda, v’è un po’ di cipria...
Ella non rise, non si mosse; qualcosa, come un brivido che le prendesse
tutta la persona, si propagò, si moltiplicò in lei. Con ebbrezza, in
quell’attimo, si sarebbe lasciata baciare.
Una pendola nell’altra stanza battè l’ora. In quel silenzio torbido i
rintocchi parvero quasi un avvertimento.
— Le otto e mezzo, — disse Arrigo scotendosi. — Fa presto, se ci tieni
ad arrivare in principio.
— Sì, passami l’abito.
Egli lo prese dal letto, con una esperienza che pareva singolare in
lui, lo aperse in guisa da non guastare la sua bella pettinatura e
glielo fece passare sovra il capo senza scomporle un ricciolo.
— Vòlgiti, che t’allacci, Lora.
E andarono davanti allo specchio. Era un abito color di malva, con
guarnizioni di color viola cupo, trasparente intorno al collo. Non
era che un velo, di quella garza morbida e lieve che i francesi
chiamano «crêpe de Chine»; ma la fasciava strettamente, come una
guaina, drappeggiandosi appena intorno alla ricchezza del petto e
nella sinuosità del grembo, sopra le ginocchia. Quando l’ebbe indosso,
Loretta si mise a ridere per la gioia di sentirsi così bella, e tutta
una vita nuova le si schiuse dinanzi, con quell’abito nuovo.
— Sfido io che paion tutte belle certe signore che conosci tu!
Sapendosi vestire, non è difficile!
Mirabile pareva, in quel viola che ammorbidiva il suo biondo, in
quella stretta fasciatura che sembrava la denudasse intera nella sua
più scultoria bellezza. Egli la guardava mutamente, con una ferma luce
nelle intense pupille, che parevano scoccarle addosso tutto il fuoco
d’un desiderio contenuto.
— Sei magnifica! — le disse. — Veramente sei ammirevole! Si parlerà di
te domani.
— Davvero? — ella fece con una incredulità sorridente, specchiandosi
per ogni lato. Poi ebbe quasi un piccolo pudore:
— Ma, di’, non sono troppo... nuda?
— È la moda quest’anno. Le donne, quando son vestite paiono più nude
che in camicia.
Ella si mise il cappello, si specchiò ancora, s’incipriò ancora, si
fece scorrere lentamente su l’avambraccio i guanti stretti, e ravvolta
in un gran mantello che le scendeva sin quasi ai piedi, esclamò
allegramente:
— Son pronta!
Per le scale s’appese al braccio di lui, ed uscirono.
Il mese di Marzo passava, carico di buoni odori. Faceva una sera tepida
e chiara. Il cielo, sgombro d’ogni nube, metteva tra le case fosche
un tremolìo di stelle. La città s’inoltrava nella notte con un grande
respiro di sollievo, mentre qualche coppia di innamorati, stretta e
lenta, se n’andava per via discorrendo di cose dolci. Seduta presso il
fratello, in una vettura scoperta, Loretta inseguiva con occhi turbati
quegli amanti senza nome che andavano in cerca del buio.
— Quanta gente che si parla d’amore?... Non vedi?
— È l’ora, — egli osservò, — poi è la primavera.
— Dunque, vedendoci, forse penseranno che anche noi...
— È probabile: la gente pensa molto spesso il male.
— Questo mi diverte! — esclamò Lora. Poi si mise a riflettere. — Tu
credi che ci assomigliamo? — domandò al fratello.
— Non credo.
Ella gli prese il braccio e si lasciarono portare dal trotto stanco del
cavalluccio, che ogni tanto scalpitava sotto una frustata.
Era la prima della _Carmen_ quella sera. Giunsero che lo spettacolo
era cominciato appena ed entrarono a teatro semibuio nel palchetto
di prima fila. Il senso enorme della folla oppresse il cuore della
fanciulla; per un momento i suoi occhi non videro che un abbaglio
meraviglioso. Tutte le favole della terra, tutto ciò che il mondo aveva
di morbido come la piuma, di lucido come il gioiello, di fragrante come
il fiore, di splendido come la bellezza, d’inebbriante come la musica,
di tormentoso come l’amore... tutto per lei si radunava nella sala di
quel teatro. Se nel suo bianco letto di vergine aveva sognato ad occhi
aperti, ecco era il sogno; se dalla piccola bottega aveva desiderato di
respirare quell’aria intensa e torbida ove le fate del vizio dissolvono
qualche prestigiosa polvere d’oro... ecco la respirava; se aveva mai
voluto splendere, ecco, e splendeva.
Una sensazione d’irrealità le alitava intorno alle guance calde;
sentiva la sua propria bellezza viverle intorno come un’altra veste più
rara, intessuta di stelle. Sentiva nel suo cuor femineo la possibilità
di piacere, quella possibilità che racchiude ogni più squisita gioia
per la donna, quella consapevolezza che la inebbria come un liquore
vivificante.
Già nei palchi vicini era nata una curiosità sommessa; dalle
poltrone sottostanti, tra il correre d’un bisbiglio discreto, qualche
canocchiale puntava su la bella sconosciuta il fuoco delle sue lenti
curiose.
Quella sera il teatro, come un paniere traboccante, fioriva di
bellissime donne, che, scollate, ingioiellate, loquaci, pendevano
dai palchi e gremivano la platea con un desiderio manifesto d’essere
adocchiate. Egli le conosceva quasi tutte, le aveva frequentate,
corteggiate, era stato l’amante di alcuna.
Di fronte a loro, nel suo palco di seconda fila, c’era donna Claudia
del Borgo, ancor bellissima in quella luce, con la sua cuginetta
romana, la piccola Isabella Ventamura, che aveva di recente ottenuto
l’annullamento d’un matrimonio quadriennale con il suo grazioso e
biondo consorte, il visconte d’Amboissières. Cattolicissima e guelfa,
questa piccola dama non amava che i grandi prelati, e, dopo un Vicepapa
Nero, si era scelta come direttore spirituale un lussuoso Cardinale
di Curia, che il fumo d’un Conclave Apostolico avrebbe forse destinato
al triregno. Nel frattempo il visconte consorte si dilettava di certe
leggiadre usanze alemanne, le quali avevano permesso di ritrovare nella
piccola Isabella quella «intacta virgo» sì rara, cui molto indulge la
buona Casa di San Pietro.
Donna Claudia portava un abito di velluto scuro che le modellava
squisitamente il busto; aveva tra i capelli un diadema, lucido e
greve come una corona. C’era nel palco Antonello Musatti, di cui donna
Claudia s’era intenerita il giorno che l’aveva veduto rotolare sotto il
cavallo in un concorso ippico.
Nel palco della duchessa di Benevento ci si annoiava con molta
eleganza: però don Antonino Vernazza e Max della Chiesa le facevan
la lor visita di dovere, per non essere dimenticati a’ suoi pranzi
trimestrali. Il palco degli Altomarini era vuoto, e ciò si notava da
tutti. Gli Antelmi ne occupavan tre di séguito, con quattro nuore in
facciata, due incinte, due vestite assai male, un mucchio di suocere a
ridosso, e tutto il parentorio nel buio.
I Mazzoleni, che misturando profumi e spacciando saponette s’eran
guadagnati di che comprarsi un marchesato feudale, tenevan corte
rumorosa; uomini e donne troppo fiammanti ancora, con le sete i
brillanti e gli sparati che luccicavan oltre misura.
C’erano tutte l’altre, tutti gli altri, che andavano famosi nella città
per casato, per bellezza e per censo; e v’era, in un palco di terza
fila, con la sua figlia giovinetta, stranamente dissimile da lei, la
soave Clara Michelis, così bianca nel finissimo abito nero, poggiata il
gomito nudo sul parapetto di velluto e vivendo intera nell’ombra che
le faceva su la fronte, su la nuca, la sua capigliatura soavissima.
Questa pareva potersi disciogliere per una piccola scossa, come se un
nodo solo, pur lieve, la tenesse raccolta in quel gran volume. Aveva
ella nei polsi, nelle giunture, nelle spalle, in ogni singolo tratto
del suo viso, un non so che di estremamente stanco e fragile, quasichè
il suo corpo fosse uscito appena da un bagno voluttuoso, che l’avesse
oltremodo stremata. Nuda, si sarebbe ravvolta bene in un velo funebre;
era di quelle figure vanevoli che talora si vedon nei quadri, curve
dolcissimamente sopra l’agonia d’un uomo giovine; tutta la sua bellezza
era nelle pieghe del suo corpo, ne’ suoi lenti movimenti, nelle sue
fine ombre; pur quand’era silenziosa, lasciava intendere che avrebbe
una voce soave; pur stando ferma e raccolta, mostrava che avrebbe
camminato senza romore.
Qualchevolta, nel mezzo d’un bosco, sopra l’acqua opaca d’uno
stagno, nasce come per miracolo uno di que’ meravigliosi fiori
bianchi, irraggiungibili perchè navigan col vento, che hanno in sè la
solitudine, la tristezza, la malattia delle cose circostanti; non li
alimenta la terra ma l’acqua ferma, piena di raggiere: così ella pareva
essere, nell’ombra del suo palco e sotto il peso de’ suoi capelli
oscuri.
Arrigo la vide, s’accorse d’esser veduto, e rapidamente i loro sguardi
si evitarono. Benchè le avesse detto: «Forse accompagnerò mia sorella
in teatro una di queste sere,» — tuttavia quello sguardo lo molestava
singolarmente, quasi ch’ella potesse, anche lontana, indovinare i suoi
più nascosti pensieri. Poichè ormai quell’amante non più del tutto
giovine lo amava d’un amore voluttuoso e triste, rifugiava in lui
perdutamente l’ultima, l’unica passione della sua vita.
Ed ora non lo amava più come al tempo in cui, nel salotto semioscuro,
ella si dilettava di tormentare insidiosamente la sua rabbia virile;
non più come quando ella cercava nell’amante uno svago alla sua lunga
noia od una scossa quasi brutale a’ suoi sensi viziati; non più per
incuriosire le chiacchiere mondane, per contenderlo ad un’amica, per
avere intorno alla propria sottana quella furtiva e lasciva scaltrezza
d’uno che la voglia slacciare; ma perchè nel suo cuore di donna era
nato l’estremo, il più forte bisogno d’appartenere e di possedere, la
voglia istintiva di carezzare, d’avvolgere, di proteggere, di vivere
in un’altra vita, di sacrificarsi per un’altra felicità, quella voglia
inimitabilmente bella che dal suo profondo senso materno la donna
irradia talvolta, come un grande miracolo, nell’amore.
Così non era per lui possibile nascondersi a quegli occhi attenti; essi
penetravan senza rimedio fin nei più nascosti rifugi dell’anima sua.
Nei giorni lieti, baldanzoso ed oblioso, egli se ne stava lontano; ma
nei giorni di tristezza, una voce, buona per lui come nessun’altra voce
umana, lo richiamava in quella casa fedele, ove presso l’uscio vegliava
sempre una dolce anima piena di perdono. Quand’egli era percosso dagli
altri, quelle mani timide sapevan esser così lievi nel medicare le sue
ferite; quando tutto il resto pareva perduto, c’era sempre in quella
casa un focolare vigile, c’era un’amante innamorata come il primo
giorno, ch’egli vedeva impallidire della sua più fredda carezza, c’era
quasi una sorella e quasi una madre che l’aspettavano per dirgli:
«Dammi il tuo dolore, ch’io ne soffra, e porta via con te questo
sorriso che nasconde le mie lacrime...»
Forse così egli pensava e per questo non ardiva guardarla. Ma l’atto
finì tra uno scroscio d’applausi; da tutte le lampade simultaneamente
un’ondata di luce si rovesciò nella sala. Sopra il canto cessato corse
il frastuono della platea, il cicaleccio dei palchi, fra un’agitarsi
di ventagli, un rimuoversi di gente che s’alzava, mutava posto, si
raggruppava.
Ognuna ebbe cura di parer bella quanto più poteva, ben sapendo che
gli occhi delle rivali avrebbero saputo accorgersi anche de’ più lievi
difetti. Gli uomini, dandosi una rassettata alle falde, si levavan su
dalle comode poltrone per adocchiare intorno; i galanti facevan visite,
gli innamorati guardavano la lor bella, i pettegoli ficcavano il naso
nelle cose altrui, i disoccupati se n’andavano a fumare.
Loretta era bene in vista, come un frutto esposto in un bel paniere;
non aveva gioielli, tranne la sua giovinezza, che l’adornava meglio
di cento collane. Dall’alto, alcuno fra i Mammagnúccoli già l’aveva
scoperta, e súbito se ne fece un gran discorrere. Chi era mai «quella
nuova» con il del Ferrante? Tutti sapevano del suo legame con Clara
Michelis; ella stessa era inoltre in teatro; dunque chi era mai? Forse
una rottura? Chissà? Ma era bella, quest’altra, molto bella! E giù in
fretta per le scale, affacciandosi agli sbocchi della platea per meglio
vederla. Qualcuno giunse fin sotto il lor palco, per interrogare con
uno sguardo Arrigo e raccoglierne un segno che spiegasse qualcosa. Ma
invano. Da tutte le parti ora si guardava; i commenti eran visibili,
quasi molesti; e Loretta sopportava con una bella spavalderia quel
battesimo del fuoco.
Entrò nel palco una fioraia, incipriata e imbellettata come un
pastello, vecchiotta, però ancor promettente, co’ suoi capelli a torre
adorni di nastrini e con la bocca esageratamente rossa. Sorrise al del
Ferrante, poi offerse a Loretta un mazzo di rose gialle.
— Vedete, Clelia, questa è mia sorella, — disse Arrigo affabilmente.
— Oh, signorina!... — esclamò la fioraia, con la sua voce di falsetto,
sprofondandosi in una riverenza da vecchia maestra di ballo. E si
ritrasse, lasciando lì un suo benevolente sorriso, viscido come una
lumacatura.
— Come? Non le dài nulla? — osservò Loretta.
— Eh, via, la si paga una volta ogni tanto...
— Povera donna! Deve guadagnar poco.
— Certo, coi fiori poco. Ma i fiori non sono che il suo biglietto da
visita. Vedi, le ho detto che sei mia sorella, così fra dieci minuti
tutto il teatro lo saprà.
— Ah?... sei furbo! — ella esclamò, tuffando il viso entro il mazzo di
rose.
Nel ridotto, ne’ corridoi, nell’atrio, su per le scale, nei camerini,
dappertutto dove poteva essere un Mammagnúccolo, si parlò della bella
ragazza che stava con il del Ferrante in un palco di prima fila.
Nessuno immaginava chi fosse, nè tanto meno la ravvisavano, se pure
alcuni l’avevan qualche rara volta incrociata per la strada. La Clelia,
infiorando occhielli, s’era forse dimenticata di seminare questa
notizia.
Verso la metà del second’atto Arrigo vide il Giuliani affacciarsi
dall’alto al parapetto del palco.
— C’è Rafa! — esclamò sottovoce. — Ma non guardare lassù.
Era entrato in quel momento nel palco e salutava gli amici.
— Son curiosa di vedere se mi riconosce, — disse Loretta, divertendosi.
— Vedremo, — bisbigliò il fratello, che spiava con la coda dell’occhio.
— Adesso mi sembra che gli stiano parlando di noi.
Ma sebbene infatti gli parlassero di loro, e sebbene l’avesse guardata
con il canocchiale, per tutto l’atto non la riconobbe, tanto era
lontano dal poter supporre che fosse lei. Quando, all’altro intermezzo,
la sala ridivenne chiara, e Rafa, guardando meglio, riconobbe per prima
cosa que’ suoi capelli d’un biondo raro, poi la forma del viso e la
bocca e il sorriso e le braccia e le spalle, e tutta lei, che amava
infinitamente... quando più non gli rimase alcun dubbio, una grande
meraviglia, piena d’impazienza e d’incredulità, gli si dipinse nel
viso.
— Che? La conosci tu? — domandarono gli amici.
— Sì... cioè no... ma, ecco... è impossibile! — E si confuse.
— Insomma la conosci o no? Chi è?
Allora prese una risoluzione e disse:
— L’ho veduta molte volte per istrada.
L’amava e non poteva tradirsi, l’amava e non voleva tradire lei.
— Non sai altro?
— Non so altro.
— Allora perchè ti affanni tanto? — fece Totò Rígoli. — Se fosse la tua
amante non ne saresti più sovreccitato.
Il Giuliani, seccatissimo, uscì dal palco ed apparve in due o tre punti
opposti del teatro, poi traversò la platea, venne fin sotto il palco
d’Arrigo, tutto acceso in volto e così turbato che aveva un aspetto
ridicolo.
Loretta, impassibile come una statua, guardava in aria, mentre il
povero Giuliani non poteva capacitarsi della cosa. Sopra tutto non
comprendeva come mai Loretta, che certo l’aveva già veduto, rimanesse
tanto calma. Si avvicinò di nuovo al loro palco ed ebbe l’audacia di
chiamar Arrigo per nome, augurandogli la buona sera.
— Addio, Rafa, — rispose Arrigo rapidamente. Ma finse tosto d’aver
qualcosa a fare in fondo al palco e si ritrasse. Loretta non si
scompose; guardò per un attimo il Giuliani, con un sorriso fuggevole,
poi volse gli occhi altrove.
Perplesso e nervoso, Rafa se ne andò a fumare in ridotto. Ma non potè
finire la sigaretta e tornò fra i suoi amici mentre cominciava il
terz’atto.
— Ecco, adesso lo sappiamo chi è, — disse il Rígoli.
— Chi è? — fece Rafa, sgranando gli occhi.
— È la sorella di Arrigo.
— Ma via! non dire sciocchezze!
— Guarda un po’ che bel tipo! Cos’hai stasera? È sua sorella, ti dico.
Sua sorella, proprio. Lo ha detto egli stesso alla Clelia; ti basta?
Rafa scrollò le spalle, ma timidamente.
— Vorrei un po’ sapere cosa te ne importa e cosa ci trovi di strano?
Rafa, mezzo intontito, non rispondeva.
Un maligno avanzò:
— Di fatti ha l’aria un po’... come dire? un po’ Folies Bergère, per
una signorina di buona famiglia?
— Ma è Rafa che invece ha l’aria lugubre!
— A lui, tutte le belle donne han sempre dato un senso di malinconia.
— Questa è bella davvero, per bacco!
— Ha gli occhi tinti.
— No.
— Sì.
— Una bocca viziosa...
— E il petto!... guarda un po’ che splendore!
— Dev’essere una civetta.
Continuavano allegramente ciascuno a dir la sua. Poi si misero a
celiare sul conto di Rafa.
— Lui, vedi, è capacissimo d’aver commesso uno sproposito. Forse l’ha
incontrata per istrada e l’ha inseguita come fa sempre.
— Ma no! — rispose il Giuliani vibratamente.
— Hai avuta forse un’avventura con lei? — domandò uno spudorato.
Rafa si chiuse nelle spalle, imbronciato. Alcuni risero.
— Sta a vedere, — disse un altro, — ch’è proprio lei quel tuo nuovo
misterioso amore!
— Siete pazzi da legare tutti quanti! — esclamò il Giuliani, volgendo
la cosa in ridere.
— Guárdati nello specchio: sembri un ubbriaco. Ci deve pur essere
qualcosa.
— Ma niente! ma niente! — fece Rafa seccato. — La conosco appena di
vista e non supponevo affatto che fosse la sorella di Arrigo. Ne siete
sicuri poi?
— Così ha detto la Clelia; domandalo a lei.
Alcuni zittirono i ciarlieri e la conversazione s’interruppe.
Rafa, che amava la musica, non avrebbe saputo dire quella sera che
opera si desse. Ritto in fondo al palco, i suoi occhi eran come
affascinati dallo splendore di Loretta e non poteva staccarli da lei.
Ma nel suo buio cervello passavano in torma le più fantastiche idee.
Si sentiva nello stesso tempo sorpreso, burlato, minacciato, ravvolto
in un grande pericolo, in una tentazione più grande. Ella si era dunque
divertita a sembrargli da meno che non fosse, gli aveva tutto nascosto,
anche il suo vero nome, per apparirgli davanti una sera, inattesamente,
al fianco d’un fratello temibile, affacciata sopra una platea che
l’ammirava. Così bella infatti egli non l’aveva mai veduta nè così
desiderabile. Perchè dunque si era lasciata seguire, avvicinare,
tentare? Perchè aveva risposto alle sue lettere? Perchè, talvolta, se
pur scontrosa e riluttante, si era lasciata baciare? Cos’era questa
fanciulla emancipata, che passeggiava sola, che accettava convegni,
che qualchevolta scivolava con lui fin su l’orlo della colpa, volandone
via con la grazia d’una farfalla che gli lasciasse appena su le dita il
bianco della sua cipria?
Si era divertita: ecco tutto. E forse, domani, dopo quel mutamento
di scena, non avrebbe voluto continuare più nel suo gioco. Ma questo
pensiero lo mordeva, lo atterriva, perchè tutta la sua vita era
momentaneamente presa dal desiderio di lei.
Rafa non aveva molti vizi; benchè ricchissimo, non conduceva una vita
del tutto sfaccendata; s’occupava delle sue terre, amministrava il
patrimonio familiare, si dilettava di politica, forse per un’ambizione
lontana. Pur amando la compagnia de’ Mammagnúccoli, non giocava, non
ismodava nel bere, non sprecava le notti in vani bagordi; solo era
d’una debolezza quasi puerile con le donne che a lui piacessero, e
se n’accendeva sino a diventar ridicolo, sino a dimagrar d’amore. Ma
questo capriccio per la sorella d’Arrigo aveva superato ogni altro
accendimento.
A un certo punto il suo malessere divenne così acuto, che preferì
andarsene dal teatro per scriverle una concitata lettera. Ma quando
fu nella strada, pensò che lo spettacolo stava per finire ed ebbe la
tentazione di rivederla. Tornò nell’atrio e attese.
Presto la vide; scendeva dallo scalone a braccio del fratello,
parlando con lui, ridendo. Era un poco accesa in volto; i suoi dentini
scintillavano fra le labbra rosse. Quel mantello di raso, con il
cappuccio ed il fiocco, gettatole sopra a guisa di scialle, raccolto,
insieme con la gonna, entro il suo pugno inguantato, le dava quel non
so che di voluttuoso e d’impertinente che han nella nostra memoria i
domini veneziani, que’ domini furtivi che una gondola nera traghettava
di palazzo in palazzo lungo i canali taciturni. Per una invidia
inspiegabile si nascose, per una gelosia malsana li spiò.
Salirono in vettura, scomparvero.
Volevano cenare senz’essere in balia di sguardi curiosi, e scelsero
un ristorante fuor di mano, dove per lo più non bazzicava gente
conosciuta.
Allora, davanti alla cena imbandita, allo Sciampagna che raggelava
nel secchio di ghiaccio, il fratello e la sorella, come due timorosi
amanti, si sentirono felici. Quella felicità che invade il corpo e lo
spirito quando comincia l’amore, quella gioia che si propaga fino alle
più piccole cose e mette un velo di bellezza sopra le mille immagini
che incendiano la fantasia.
Ella era tutta ebbra, tutta viva del suo piccolo trionfo; si era
sentita bella, si era sentita salire intorno il desiderio degli uomini
come una ventata calda, e tutti avevano parlato di lei, di lei che
appariva per la prima volta. Quella vita lussuosa e gioconda che
aveva tante volte sognata nel suo lettuccio d’inquieta vergine, pareva
cominciasse con un buon auspicio, con una vittoria facile. Era donna,
intimamente donna, e sentiva il valore di queste piccole cose.
Se qualchevolta, recandosi ai convegni del suo persecutore, s’era
sentita vergognosa d’una veste un po’ dimessa, d’un cappellino appena
sopportabile... ora non più; se aveva temuto qualchevolta ch’egli
scoprisse in lei null’altro che una piccola bottegaia... ora non
più; se c’era stato forse, nella tenacità con cui s’era difesa da
quell’uomo, il rammarico di non potergli mostrare una biancheria tutta
di pizzo e di lino, ed il pensiero insomma ch’egli avesse potuto
paragonare le sue calze, il suo busto, la sua camicia, con quelle
d’altre amanti raffinatissime... ora tutto questo, che tutela sovente
l’onestà d’una fanciulla, poteva non essere più. Sapeva d’averlo
abbagliato, e benchè non l’amasse, ne andava orgogliosa. Non si sarebbe
mai più sentita umile davanti a lui, non si sarebbe mai più tenuta
per uguale delle sartine, dietro cui si sguinzagliano a frotte, in una
caccia economica ed accanita, i donnaioli della buona società.
Ella doveva questo al fratello, non ad altri che a lui. Ma c’era nella
sua riconoscenza qualcosa di più che un’ambizione. Lo stare con lui le
dava un piacere singolare; ch’egli la trovasse bella, che le dicesse
una frase gentile, questo la lusingava più che l’adorazione di Rafa,
più che l’omaggio di chicchessia.
Poi, oscuramente, si sentiva desiderata da lui, e questo desiderio
vinceva lei pure, talvolta la soffocava un poco, le dava quasi uno
spasimo, quasi una voglia irragionevole di abbandonarsi nelle sue
braccia. Non le pareva più affatto che fosse il suo fratello, l’Arrigo
di cui si ricordava bambina; ma un altro, ch’era poi scomparso, ed ora
tornava, trasfigurato, dopo esser stato ad imparar l’amore nelle alcove
dei palazzi, a far piangere le cortigiane, a ingelosire i gentiluomini;
un altro, che le donne belle e ricche avevano coperto di baci,
lasciandogli su la bocca un profumo che l’avvolgeva di tentazione.
Aveva una bella casa; in quella casa ove altre amanti erano andate,
ella pure si sentiva invadere dal lor medesimo turbamento; avrebbe
voluto che, invece di Arrigo, si chiamasse con un altro nome, per
potergli dir come loro: «Ti voglio bene...» per poterlo baciare senza
paura e senza fine.
Nella sua fragile anima succedeva una grande cosa. Tutto il giorno
stava pensando a lui, le ritornavan le sue parole come un’eco
ininterrotta, e rivedeva i suoi forti occhi, un po’ accesi, tutte le
notti, quando si coricava. Egli era qualchevolta con lei dolce come
un bimbo, qualchevolta irascibile come se la odiasse. Perchè? Sovente
in un solo gesto furtivo e rapido della sua mano ella concepiva il
pericolo di sentirsi afferrata, carezzata, sopraffatta; ma questo
pericolo insieme le piaceva... Perchè? C’era forse una forza oscura,
invincibile fra loro?...
— Ti annoi di rimanere con me? — domandò Loretta con una voce insidiosa.
— Mi piace rimanere con te, — diss’egli. — Mi piace più che ogni altra
cosa.
Ella gli mandò uno sguardo soave come un bacio. Poi ch’ebbero parlato
e riso e bevuto, si sovvennero di guardar l’ora. Mancava un quarto alle
due.
— Dio buono! — esclamò Loretta. — E la mamma che voleva rimaner desta
finchè fossi tornata!...
— Dirai che lo spettacolo è finito tardi.
Si levaron frettolosi, poichè bisognava ch’ella si mutasse ancora
d’abiti. S’avviarono.
La notte, come una splendente cortigiana, s’era messa tutte le sue
collane di stelle; ai piedi, alle mani, per tutto il suo corpo immerso
nella primavera, brillavano gioielli d’inestinguibile splendore. Saliva
dentro il cielo curvo il respiro della città addormentata.
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