Colei che non si deve amare: romanzo - 26

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un giardino ebbro lanciava in alto vampe di profumi forti come un
narcotico, e c’era, lì accanto, una casa pressochè deserta, piene di
stanze vuote, profonde, capaci di custodire nel lor silenzio così la
più nera complicità come la più efferata beatitudine.
E intorno a loro, e fuori, per tutto il cerchio delle cose visibili,
roteava una notte quasi magnética, tanto era bella e splendente, quasi
inverosimile, tanto nella sua bellezza era qualcosa di eccessivo e di
assurdo, quasi di crudele, poichè non dava il sonno, il riposo, la pace
nè il dolcissimo oblìo, ma una folle rabbia di peccati e di lussurie,
un tetro bisogno di soffocare nello spasimo del rimorso la tremante
anima e colmarla fino all’ubbriachezza d’una voluttà oltremortale.
Da che parte veniva egli mai, così miserabile a vedersi e così vinto?
Quale cammino aveva percorso? Quali tragiche risoluzioni portava in sè?
Forse non ricordava più nulla; tutto in lui era scomparso, dileguato,
come un fiocco di nebbia nel sole. Ora le stava presso, e mutamente la
guardava.
La guardava. Era pur lei, vestita di una mussola fina, quasi diafana,
in quella notte calda; era pur lei, fra le pieghe di quella vestaglia
trasparente, che mal nascondeva il suo petto florido, vasto, calmo,
diviso nel mezzo da un’infossatura quasi buia, la qual nasceva tra
i due seni distanti, lei, con la sua cintura di vespa e le sue belle
ginocchia che davano al camminare tanta grazia lasciva... Era pur lei,
con le sue braccia rotonde, senza un segno, appena cosparse d’una
vellutatura bionda, con la sua gola sempre un po’ turgida, come se
vi tenesse raccolto uno scoppio di riso, con la sua bocca di donna
perduta, lei, con la sua viva odorosa capigliatura bionda, splendente
come l’avena d’oro, come il riflesso di una cosa d’oro... Sì, certo,
era lei, sebbene gli paresse incredibile, sebbene un altr’uomo, con le
sue labbra, con le sue mani, con il calore umido del suo corpo, con
il fiato greve della sua bocca ansimante, con la sua viscida saliva,
con il suo rauco rantolo, avesse ormai toccata e posseduta questa
intangibile purità.
Certo, era lei; si chiamava Lora, Loretta; era la sua sorella germana;
era lì.
«Uccídila!» gli comandò una voce, che a lui parve suonasse nel rumore
dell’infinito, nell’opaco fervore delle sue vene gonfie di sonorità.
E gli venne all’ápice delle dita, nei nodi delle dita, nella
muscolatura dei polsi, una voglia rabida di stringere, di affondare
l’unghie acute nella sua carne molle, di sentire quel bagnato, quel
caldo che fa il sangue quando sprizza, o di mordere forte, coi denti,
lì, nella gola, dov’è la voce che canta, che dice le parole d’amore,
che rántola, nello spasimo e nel piacere, istessamente...
Ma gli sembrò di non poterla toccare ancora, di non essere così forte
ancora da poter compiere il suo disegno, poichè, più che tutto, quel
soave álito, quel dolce odor di lei lo vinceva, lo stremava, era come
una mollezza che gli entrasse nelle vene insidiosamente, che gli desse
la voglia di giacerle insieme, solo per carezzarla, per toccarla, per
sentirsi ancora su la faccia il flotto de’ suoi capelli disciolti, su
la bocca il bacio della sua bocca, e morire in lei come in voluttuoso
annegamento... poich’ella poteva, ella sola, fargli attingere da questa
inebbriata morte il fervore del rinascimento.
Ma queste meditazioni, sebbene concepite in un attimo, lo affaticavano,
lo stordivano, ed egli cercò di ribellarsi al lor funesto potere.
— Non ancora! — disse aspramente, con un riso di scherno, poichè la
vedeva tremare. — Non ancora.
Ma ella raccolse nella voce tutta la sua dolcezza, tutta la sua
persuasione femminile, con cui sapeva di esercitare un così grande
imperio sovra di lui, e sommessamente, quasi proditoriamente, lo chiamò
per nome. Con la sua propria fragilità, con la sua propria duplicità
di femmina quasi tentava di adescarlo, sentendo il pericolo vicino,
indovinando il dramma imminente.
— Non mi far male... — balbettò, sempre celata il volto nelle braccia
protese.
Sopra tutto ella temeva la sofferenza, l’atto brutale di quelle mani
minacciose, lo scoppio di quella collera sinistra. E questa viltà lo
fece ridere, d’un riso straziante; perch’egli forse avrebbe voluto che
si buttasse innamorata e pentita nelle sue braccia, per ritrovare in
lui quasi un rifugio, anzichè sentirsi chieder venia paurosamente, come
ad uno straniero.
Allora egli le disse con violenza:
— Guárdami!
Poich’ella teneva sempre il volto chino, egli protese ruvidamente il
braccio e con l’ápice delle dita le sollevò la faccia.
— Guárdami! — comandò più forte. — Vedi cos’hai fatto di me?
Buttò indietro il cappello che gli nascondeva gli occhi e le apparve
dinanzi a fronte scoperta.
— Mi riconosci?
Ella ebbe orrore o terrore di quel devastamento, e, quasi una dolcezza
ultima dell’amore ch’era stato in lei, la spinse a balbettare una
parola incomprensibile, forse di smarrimento, forse di pietà.
— No, — egli riprese con scherno, — certo non mi riconosci. Eppure sono
ancora lo stesso. Intendi bene quel che dico: ancora lo stesso!
La bocca torta, nel ridere, pareva che sui labbri avesse l’amaro
d’un veleno. Allora egli si guardò intorno con uno sguardo pieno di
avversione, come se odiasse ogni cosa di quel luogo dov’ella si era
venduta. Fiocamente illuminata da un raggio di luna si vedeva per le
due porte vetrate, aperte sul terrazzo, una vasta sala terrena, piena
di quei mobili raccogliticci, che arredano le case d’affitto; mobili
comperati a casaccio, collocati nel peggior modo, per riempire un
angolo, per soddisfare i capricci d’un locatore estivo.
E la luna metteva in quel disordine una specie di azzurra oscurità.
L’uomo, lo spettro di colui ch’era stato, s’avanzò fino al limitare,
forse per curiosità, forse per vedere se alcuno li spiasse; poi si
rivolse lentamente, a volto chino, parendo reggere su le spalle il peso
enorme della sua propria disperazione.
Col piede urtò nella lampada caduta, la raccolse; non s’era spezzata
e la riaccese. Metteva in ogni gesto una lentezza voluta, come se gli
piacesse prolungare il silenzio davanti alle parole inevitabili.
Ora la luce rosea della lampada velata si spandeva nuovamente sul
terrazzo quasi bianco; egli stava nel mezzo, ella nell’angolo, sempre
rintanata, con gli occhi attenti ad ogni gesto di lui.
Allora il giovine incrociò le braccia, drizzando quasi con fatica la
persona stanca.
— Lora, — disse, — il giorno che ti sei data per la prima volta
all’uomo che paga i tuoi lussi, hai pensato menomamente a quello ch’era
stato fra noi?
Fece una pausa, ma prima ch’ella potesse rispondere disse con forza,
con ira:
— No!
Poi rise, divenne scherzevole, parve che tentasse d’irritarla.
— Infatti, — la beffò, — mi sembri più bella! Questa vita un po’ pigra
ti fa bene alla salute. Ingrassi. Bada, forse un po’ troppo... La
vestaglia ti si dislaccia... Non eri così quando ti conoscevo io. Forse
Rafa ti fa star molto coricata, e il letto ingrassa... bada!
Prese uno sgabello e vi sedette.
— Discorriamo.
Ella taceva. E questo silenzio lo esasperava benchè facesse uno sforzo
indicibile per continuare su quel tono di burla.
— Mi ricordo, — incominciò, — d’un giorno del mese di Marzo, quando
sei venuta a trovarmi nella mia casa per la prima volta. Io dormivo.
Allora eri quasi una bambina, o parevi esserlo, e mi hai mostrato un
braccialetto d’oro. Già!... e adesso quella casa non l’ho più, o per
lo meno debbo lasciarla, perchè c’è stato uno scandalo e si evita di
salutarmi... Lo sai? Vuol dire che l’avrai tu, una casa, e più bella
e più ricca della mia, poichè Rafa spende volentieri. Se però non
ingrassi troppo... Rafa, ti avverto, ha in orrore le donne troppo
grasse. Poi mi ricordo anche d’una gita che si fece insieme, su le rive
di un certo lago... Ma fu per una notte sola; tu ne hai perduta forse
la memoria frammezzo a tante cose.
La guardava, la interrogava, la intimidiva con i suoi sinistri occhi.
— Raccóntami dunque un po’ della tua vita!... Non ti rimane più voce?
La sorella domandò con un accento fermo e semplice:
— Perchè sei venuto?
Egli la fissò un momento, con gli occhi lucentissimi:
— Passavo di qui, — rispose; — il muro non è alto; ebbi voglia di farti
una visita.
— Perchè sei venuto? — ella ripetè ancora, con una voce più profonda.
— Ah!... Forse pensavi di non rivedermi più? Avevi già messo il cuore
in pace?
In lei, come nel viso del fratello, si dipinse fuggevolmente una
malvagia e tetra collera.
— Io non t’ho fatto alcun male, — ella disse recisamente, con piena
certezza.
— Tu?
— Alcun male, — ribadì, più recisa.
Egli si levò d’un balzo, livido, come per afferrarla.
— No, non toccarmi! — ella comandò, proteggendosi con entrambe le
braccia. — Se mi volevi, ero tua; di me avresti potuto fare liberamente
quello che ti piaceva... Non dimenticartene!
— Che dici? — mormorò egli, sorpreso da queste parole, colpito in pieno
da questa verità.
— Quand’ero, come hai detto, una bambina, quando venni per la prima
volta nella tua casa, e dopo, e sempre, fino al giorno in cui fuggisti,
potevi fare di me quello che ti piaceva. Io non mi sarei vendicata nè
lagnata, mai.
Fece una pausa ella pure, poich’egli taceva, percosso di meraviglia.
— Ma ora cosa mi domandi? — soggiunse Loretta.
— Cosa ti domando?... Un piccolo schiarimento, una cosa da nulla: per
qual ragione sei divenuta l’amante di Rafa?
Ella volse gli occhi altrove, irresolutamente, verso gli alberi fermi,
verso le stelle agitate, verso la luminosa ombra della notte cerulea.
— Rispondi!
— Non so.
— Per amore?
— No.
— Per denaro?
— Neanche.
— T’ha forse presa di violenza?
— No.
— E allora?
— Non so, non so!... — ella fece nervosamente. — Perchè mi vuoi
tormentare?
— Rispondi: lo amavi? lo ami?
— No. Ho detto di no.
Ella intuì che si salvava con queste parole, e ripetè ancora una volta:
— Nè prima, nè ora; non lo amo.
Ed inoltre era pur vero.
Una specie di vertigine passò negli occhi dell’uomo che la fissava;
un segno, quasi già un sorriso, quasi un bacio, increspò l’amara sua
bocca.
— Ed allora perchè hai fatto questo?
— Io stessa non me lo saprei dire, — confessò la sorella. — È stata una
follìa, un momento di leggerezza, una cosa impreveduta e facile, senza
gravità ma quasi necessaria... Un giorno feci questo, e non so dirti
nemmeno la ragione. Forse perchè tu mi avevi molto martirizzata, forse
perchè ho commesso l’errore di salire una scala... non so, non so!
Ed ora non aveva più paura di lui, gli parlava quasi con dolcezza,
riprendendo su le guance floride il suo bel colore, passandosi una mano
inanellata su la bianca tempia e ravviandosi i capelli con un suo gesto
abituale.
— Ed io? — mormorò il fratello, dopo aver taciuto.
— Tu?
— Sì, Lora, io, che t’amavo con tanta pena, io, che fuggivo
disperatamente per non farti male?...
Ella esitò un poco, poi disse:
— Tu non m’hai voluta... non m’hai voluta nemmeno quando ne piangevo,
dunque...
Nella terribile semplicità di queste parole ella radunava tutta quanta
la logica del suo piccolo cuore di donna, scioglieva il suo piccolo
enigma femminile, dove l’amore più folle non era stato in fondo che
una torbida curiosità. Ella non poteva andar oltre; tutta la storia del
suo grande peccato finiva in questa piccola riflessione: «Tu non mi hai
voluta, dunque...»
Ed egli chinò il volto, poi si mise a battere le nocche sul tavolino di
vimini, che oscillava.
— Dunque, — fece, con amarezza e con scherno, — avevi semplicemente
bisogno che uno ti coricasse, forte, con le spalle sovra un cuscino,
che uno ti facesse dare finalmente quel piccolo grido... Chi fosse
costui, poco importava. Io ti avevo molto martirizzata... hai detto
martirizzata?... — bene, sia! Ma ti sei scelta in ogni caso un uomo
ricco, per addolcire le pene del martirio; hai voluto in cambio qualche
abito, qualche gioiello, una casa che finirà con divenir tua... ecco, e
tutto questo lo hai!
— Ho voluto, — ella spiegò, — scegliermi una vita diversa da quella che
facevo: null’altro. Forse mi sono anche ingannata.
Egli la fissò ancora con uno sguardo dubitoso, poi mutò pensiero:
— Perchè sei sola questa sera?
— Sono molte volte sola, — ella rispose.
Tacquero; un lungo silenzio dominò la loro inquietudine. Egli aspettava
ch’ella parlasse; ella era in attesa delle parole di lui. E si
esaminavano attenti; l’uno cercava di leggere nel cuore dell’altra.
— Dunque, — egli riprese dopo quella pausa, — dunque non hai nulla a
dirmi?
— Sì, molte cose... ma ho paura di te.
— Ed hai ragione, — disse il fratello. — Io son giunto a quell’ora
in cui non si rispetta più nulla e nessuno, in cui tutta una storia
va incontro al suo pericolo definitivo. Però t’ascolto, se devi dirmi
qualcosa, e ti ascolto ancora con bontà, Lora, perchè io sono ancora lo
stesso... ti ripeto: ancora lo stesso.
E mise nella sua voce, in queste ultime parole, un accento soave come
una carezza.
— Siéditi, — soggiunse; — vienmi più vicino.
— No! — ella fece due volte, — no.
— Hai paura?
Non rispose; ma pareva che un’angoscia, una pietà, una compassione
quasi vicina al ribrezzo, le soffocasse l’anima in quel rifiuto.
Sul limitare della sala semibuia la figura di Lazzara comparve, piena
d’esitazione, tuttavia con l’aria d’esser lì per recarle soccorso.
L’uomo si volse a lei con una mossa repentina:
— Che volete? — inveì.
La ragazza non rispose; i suoi occhi spauriti si volgevano dall’uno
all’altra, quasi per indovinare.
Ma Loretta le disse:
— Non temere, Lazzara. Sali nella tua camera e dormi. Fra poco mio
fratello se ne andrà.
— Vostro fratello, signora?... — profferì la fanciulla, senza poter
credere a sè stessa per la maraviglia.
— Sali e dormi, Lazzara, — comandò Lora brevemente.
Ella si ritrasse a piccoli passi, tacendo, e scomparve nel buio. Indi
a poco fra lo spessore dell’antica muraglia scaturì un rumore d’acqua
corrente, che nella risonanza della notte riempiva di sonorità la casa
profonda. Poi tacque: le alte camere si addormentarono.
— Non me ne andrò, — disse il giovine. — Sono venuto a vederti per
l’ultima volta, e non me ne andrò così presto.
— Ho pensato, — ella fece, — che non vorresti rimanere a lungo in
questa casa.
— La stessa cosa io pensavo di te. Ma evidentemente mi sono ingannato.
Ella non diede alcuna risposta. Invece, dopo un silenzio, gli domandò:
— Allora che vuoi?
— Prima di tutto ascoltarti. Avevi molte cose a dirmi... dunque parla,
e sinceramente, come parlavi con me una volta, quando non avevi paura.
Ella intrecciò le dita insieme, e parve cercare in sè profondamente una
frase per esprimersi.
Veniva ora dalla inoltrata notte qualche alito di frescura, in alto,
per le cime degli alberi, sommessamente. La lampada velata ne riceveva
i brividi; sotto il respiro del vento la sua morbida luce impallidiva.
— Una sola cosa volevo dirti, Rigo, — ella pronunziò infine. — Che
anche tu devi per sempre dimenticare i giorni passati e perdonarmi se
ti ho fatto male senz’alcuna mia colpa.
Nella faccia bianca dell’uomo passò, come una transfigurazione, il
colore della sua profonda morte.
— Anche tu... anche tu... — egli ripetè macchinalmente, con un atto
appena visibile delle labbra. Poi soggiunse: — Questo vuol dire che per
tuo conto hai già dimenticato.
Ella non rispose da prima; poi ebbe forse pietà di quel dolore.
— Non ho dimenticato, — gli disse. — Ma ogni giorno vado facendo
uno sforzo continuo per strappare da me questa cosa che non doveva
essere... Io sono morta per tutti, per tutti quelli ai quali ho fatto
male.
Egli la guardò con una specie di sperdimento, quasi cercando nel suo
volto un segno qualsiasi che gli permettesse di non credere a quelle
fredde parole.
Ma in lei vide un’attitudine ferma, risoluta, quasi nemica.
E di nuovo si levò:
— Senti...
Le venne più vicino, si curvò:
— Senti... ho corso paesi come un pazzo, per guarirmi; ho sofferto
tutto quello che un uomo può soffrire, e son tornato per vederti, solo
per vederti. Sono stato nella casa di mio padre, dove tu, dove tu ed
io, abbiamo portata l’infamia. Essi mi hanno cacciato fuori come un
cane. Sono stato fra quelli che mi chiamavan amico, e tutti han vôlto
il capo altrove per non riconoscermi; anzi alcuni m’hanno insultato
quasi apertamente, perchè mi accusano di aver concluso il tuo mercato.
Ma di questo non ti rimprovero: la colpa è d’entrambi; siamo colpevoli
entrambi, sebbene io solo, per ora, ne debba scontare la pena. Invece,
se ho bene compreso il senso delle tue parole, in questo momento nel
quale una immensa rovina si moltiplica intorno a me, tu che ne sei
la causa non trovi per aiutarmi che un solo rimedio, anzi un calmo e
ragionevole consiglio: «Bisogna dimenticare.» Non è così?
Ella tacque, si restrinse nelle spalle, confusa, umiliata, come se
avesse per la prima volta compresa la gravità de’ suoi falli.
— È così? — Rispóndimi! — egli comandò, afferrandole un polso.
— No, Rigo... no, no... — ella balbettava smarrita. — Guarda: io voglio
fare per te, per mio padre, per mia madre, tutto quanto posso... Dítemi
solo cosa debbo fare... dítemi...
Gli occhi le si empivan di lacrime, come ad una piccola bimba cui
si minacci un grave castigo. Egli comprese d’avere davanti a sè
l’ineluttabile dell’anima femminile, quel vuoto, quel nulla, che sta in
fondo a tanti cuori di donna. Di ciò si avvide con l’intelletto, ma in
cuor suo, nell’interiore sua febbre, non volle credervi ancora; cercò
di non arrendersi, di riafferrare con un’estrema cecità la sua speranza
fuggente.
— Lora, tu mi hai detto che non ami Rafa, che non gli appartieni per
amore... Dimmi: è la verità?
— Sì, è la verità.
— Mi hai detto pure che ti sei forse ingannata scegliendo questo
cammino, è vero?
— Sì, è vero.
— Ebbene, senti. La passione che ho per te supera, esclude tutto. Ho
mille rimorsi nel cuore, ma ormai non temo neanche il rimorso. Bandito,
rovinato, espulso: tutto questo non mi dà un vero spavento. È forse
orribile a dirsi, ma io posso dimenticare tutto questo. Non così la mia
passione maledetta. L’amore che ho per te, la febbre che tu mi dài,
la tempesta che mi susciti nel cervello, nei sensi, questo no, mai!
mai!...
Così vicino le stava, ch’ella n’era tutta rabbrividita, e si
restringeva nell’angolo, s’impiccioliva nella stretta de’ suoi
propri gomiti, quasi per accrescere lo spazio che li divideva. Quelle
parole, quel suo fiato caldo, quella passione traboccante, quel viso
contraffatto, e la minaccia di sentirsi toccata, baciata, posseduta, le
davan ormai un invincibile ribrezzo, più forte che la stessa paura, più
forte che la stessa pietà.
Ma egli, quasi ebbro, continuava:
— Se tu vuoi, se tu mi dici una sola parola, io posso veramente
scordare tutta la miseria di questi giorni. Se tu vuoi, mi sento la
forza di ricominciare un’altra volta la vita, e lontano di qui, lontano
da tutte queste memorie, mi sento la forza di giungere ad ogni cosa
che tu possa desiderare. Saprò vigilarti, servirti, rendere la tua
vita bella, come tu stessa forse non hai sognato ancora. In questo
momento comprendo che sono stato un pazzo quand’ho avuta paura della
nostra colpa. Noi non abbiamo volontà che basti per lottare contro
queste cose immense; anzi troppo spesso, come hai detto, noi siamo vili
davanti alla felicità. Ma ora, vedi, son tornato e ti aspetto, e, se
vuoi, m’inginocchio per chiederti perdono, e, se vuoi, ti prendo nelle
braccia, così come sei, per portarti lontano, attraverso la notte, via
di qui, via da tutti, sin dove nessuno al mondo possa più conoscere il
rifugio del nostro amore...
E già, nell’ebbrezza del suo perdimento, nella vertigine del suo
rinnovato sogno, stava per cingerla con le braccia e tendere verso la
fredda bocca di lei la sua bocca bruciante, quand’ella dette un grido
soffocato, e, prima che potesse toccarla, con un rapido movimento gli
sfuggì.
Ansante, con i capelli un po’ disfatti, non sapendo come difendersi
dal pericolo della sua violenza, indietreggiò fin presso l’orlo della
scalinata per aprirsi una fuga verso il giardino.
Egli si battè contro le tempie i due pugni convulsi, come per
arrendersi al dramma di quell’ora che passava. Poi la guardò. Muto,
attento, fermo, per un lungo attimo la guardò.
Nelle mosse rapide la vestaglia s’era interamente slacciata, e sotto
la febbre di quegli occhi ella s’accorse d’avere le braccia quasi del
tutto nude, la gola scoverta, il seno visibile. Per un pudore istintivo
cercò di raccogliere la stoffa tenue sul candore di quella nudità.
Intorno a lei, su l’alto della gradinata, brillò, sparì, qualche
tremante lucciola, che nascondeva in sè un verme buio, come talvolta
l’amore nasconde un turpe vizio tra le sue belle fiamme.
Egli rimase dov’era, e parlò forte:
— Allora una confessione, una sola: Non mi ami più?
Ella taceva.
— Ti faccio ribrezzo? mi odii?... se ti bacio gridi?...
Metteva tra queste frasi una dura pausa, breve come un singhiozzo.
— Mi lascerai portare la mia croce da solo? da solo e per sempre?
Ella era ferma in capo della scalinata, ferma come una statua; si
vedeva soltanto il pizzo delle sue larghe maniche leggermente tremare.
Una di quelle sperse lucciole, volando, le si impigliò fra i capelli.
Ma ella non sentì quel peso, non si accorse di avere sopra la fronte
quella piccola stella.
— Rispondi! rispondi! Voglio udire da te l’ultima parola... da te,
dalla tua bocca!
Un attimo ancora di silenzio:
— Non mi amerai più?...
Come di schianto, ella si piegò su le ginocchia, si accasciò sul primo
gradino, rompendo in lagrime dirotte.
La lucciola uscì da’ suoi capelli, si mise a volarle intorno.
Allora, fuor di senno, egli s’avventò. Con le braccia pur esauste la
raccolse di peso, e perchè non potesse gridare, ben forte, con tutta la
mano, le tappò la bocca.
Poi, tenendo su le braccia la sua preda, sperduto, si guardò intorno,
come un animale in cerca della tana.
Ella volle dibattersi con ogni forza, cercò di morderlo, cercò di
urlare; ma non poteva, per quella mano irremovibile premuta su la sua
bocca. Cercò di fargli male agitandosi quanto potè; ma d’un tratto il
peso ch’egli reggeva su le braccia divenne assai più greve, come il
peso di una creatura morta; la bocca senza fiato cessò di mettergli
bava e sangue nel palmo che la premeva.
Allora l’uomo, con la sua preda su le braccia, passò nel raggio di
luna che bagnava il terrazzo come un fascio di bianca elettricità, e,
traversata la soglia, giunto nel mezzo della prima sala terrena, parve
cercasse con gli occhi sperduti un divano sul quale deporla.
Quando l’ebbe adagiata, s’inginocchiò. Si mise, come un ebete, ad
ascoltare il silenzio. Tutta la casa era morta; la sonorità concava
del silenzio vi gravitava immobile, come nei claustri disabitati; la
magnificenza del raggio lunare traeva dalle ságome dei mobili qualche
fulgore, simile a bianchissimi arcobaleni.
Allora egli si guardò il palmo della mano, il palmo che sanguinava,
morso da’ suoi denti minuti; poi si tastò il cuore, la fronte, la
faccia, quasi per riconoscere sè stesso.
Il capo di lei dormiva rovesciato sul bracciuolo del divano; la
sua gola nuda era un po’ turgida, il suo petto scoverto quasi non
respirava. Aveva le braccia lente lungo i fianchi, le ginocchia unite,
i piedi composti, come in una bara; le sue belle treccie, quasi del
tutto sciolte, bagnavano il lembo spiovente nel raggio di luna.
— «Ora, — egli disse a colei che non udiva, — ora t’ucciderò.»
E trasse di tasca un’arma lucida; ma tosto, impaurito, la ripose.
Poi gli parve udir rumore, da lontano e da presso; rumore assordante,
come di gente che sopravvenisse, urlando, per impedire il suo delitto.
Ascoltò: non sapeva ben distinguere se questi rumori fossero nel suo
cervello o fuori; ma, ecco, insieme gli pareva che ombre passassero, in
torma, dietro le finestre, per gli usci, negli angoli bui.
Un sudor freddo gli copriva tutte le membra; dolori acuti come lame
gli trafiggevano la carne. Su la bella bocca della donna coricata era
impressa una traccia di sangue, che la faceva parere un po’ tumida e
le suggellava intorno ai labbri una specie di riso estatico, inerte,
come ha talvolta, nel sonno d’un narcotico, la bocca di chi soffre un
dolore atroce. Egli v’appressò l’orecchio, per udire se quelle labbra
respirassero; ma il rombo delle sue proprie vene soverchiava quel
leggero álito.
— «Ora, — disse un’altra volta, — ora t’ucciderò.»
Le sue dita convulse toccarono con voluttà il freddo metallo
dell’arma; di nuovo palleggiò fra le mani il minuscolo ordigno, su cui
s’accendevano scintille come sprazzi di fosforo.
Premere appena, poggiando la canna sottile contro la sua bella tempia,
senza quasi rumore... Una scossa, una breve scossa, a lui nel polso, a
lei per tutta la persona giacente; una specie di urto improvviso nelle
due ginocchia... qualcosa, come un fiotto d’anima nella gola gonfia...
un battito, uno sguardo ancora negli occhi fuggenti, un po’ di saliva
lucente agli angoli delle labbra, sotto la traccia rossa... il peso
d’un braccio che cade... poi più nulla... nessuna differenza visibile,
tranne il senso di questa parola: morta. E un filo di sangue, sottile
come la più piccola delle sue vene, giù dalla tempia, su la spalla,
senza fiotto, piano piano, senza farle male...
Egli pronunziò col pensiero, forse col respiro, questa lieve domanda: —
«E poi?»
Ecco: e l’enorme vuoto della vita gli apparve, ed anche l’enorme
vuoto della morte, se pur si fosse ucciso; l’inanità estrema d’ogni
cosa, d’ogni possibilità, quando in lei non fosse più respiro. Sì,
uccidersi, ma placarsi prima, concedere un sorso anche minimo alla
sua rabida sete, per chiudere con un possesso tremendo la sua vita
inutile, per non trascinare al di là dall’ultimo rantolo la sua rabbia
insoddisfatta...
Allora, lentamente, quasi con la paura di compiere un sacrilegio,
immerse le dita aperte nella sua treccia spiovente; ma faceva piano,
quasichè non volesse destarla. N’ebbe una così grande gioia, che
v’immerse la faccia, ne aspirò, ne bevve il sapore. Ella non si
destava; il suo tramortito sonno era profondo. Osò prenderle una mano
ed intrecciar le dita fra le sue dita, senza stringerle, con paura.
— «Povera piccola mano, — pensava, — sarai morta fra poco, non darai
più carezze, povera piccola mano...»
E strisciò con le labbra lungo il polso, fin nella congiuntura del
braccio, dove tutte le vene, passando, creavano una specie d’oscurità.
In quel mentre una grande farfalla notturna entrò per la finestra;
si mise a dar di cozzo contro le pareti, rumorosa, dannosa, come un
pipistrello. E batteva, e batteva, per la stanza chiusa, in alto, in
basso, cercando l’aria stellata nella oscura prigione. Poi si calò
sopra l’uomo ricurvo, e stringendo sempre più il cerchio di quel
brancolare gli fece sentir su la faccia il freddo pericolo del suo
volo.
Ma sparve. Il silenzio divenne assoluto in quella stanza quasi azzurra;
solamente il raggio lunare saliva come una materia tangibile dentro la
bella capigliatura spiovente.
E l’uomo che l’aveva amata con tanta disperazione, che si era difeso
contro la colpa con un eroismo tanto accanito quanto inutile, ebbe
allora la tentazione suprema di possederla pur una volta prima di
spegnere la vita in quel lieve cuore, prima di addormentarla nel sonno
dal quale non si sarebbe mai più ridesta, nè per stirare in una molle
pigrizia le sue membra voluttuose, nè per tendere ad una bocca d’amante
il bacio della sua bocca soavissima.
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