Colei che non si deve amare: romanzo - 08

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chi le piaceva; si era data nei modi più strani e più perversi, con
una volubilità incontentabile. Aveva un tempo scandolezzata la città
tenendosi per staffiero il più bello fra i cavallerizzi d’Ungheria, ed
a quanti mormoravano, a quanti inorridivano, aveva risposto aprendo
le sale del suo palazzo ad una ospitalità grandiosa e fastosa, ben
pensando che il mangiare, il bere, il far danzare, il far vivere a
scrocco, son l’offe che meglio debellano le infurianti maldicenze
altrui. Ma ora, invecchiata e non stanca, metteva un certo studio nello
scegliere per i suoi ultimi banchetti gli intingoli più saporiti.
Aveva quasi una smania virile di volersi appagare ogni capriccio,
ed in certe riunioni di bellimbusti era corsa voce che donna Claudia
fosse qualchevolta liberale. Un tenente, che aveva giocato e perduto
sino a rischiar le spalline, s’era salvato così; molti sconosciuti
eran entrati in società per la sua camera da letto. Poich’ella, non
potendo scendere fino a loro, li innalzava talvolta fino a sè. Inoltre
donna Claudia s’occupava di maritaggi, e quando era stanca d’un amante,
spesso gli procacciava una moglie tra la schiera delle nobili signorine
che teneva in sua protezione. Almeno sotto un certo rispetto, erano per
tal modo ben sicure di non imbattersi male.
Piacere a donna Claudia poteva insomma non essere un danno per tutti
quelli che fossero nei panni d’Arrigo. Ed egli lo sapeva. Questo
pensiero gli venne istintivo, il primo giorno ch’ella lo guardò. Vi
sono certe donne le quali osano guardarci con maggiore insolenza che
non guardiamo noi la più desiderata fra le donne. Anzi egli ebbe di
quell’antica esperienza una sottile paura. Ma nei giorni successivi
sentì nascere il capriccio nell’animo di quella donna dissoluta, e con
la sua borghese abitudine del calcolare, súbito valutò il profitto che
a lui ne sarebbe derivato. Ella certo lo avrebbe levato sopra uno scudo
fin nelle sale del suo palazzo, lo avrebbe difeso e fatto ricevere
in quel mondo chiuso. Quanto alle chiacchiere della gente?... bah!...
egli non poteva salire che per mezzo d’una frode: — qualunque fosse,
l’avrebbe senza scrupoli consumata.
Donna Claudia se l’era un giorno fatto presentare dal barone Silvestro
dopo le prove della recita, ed or amabilmente si compiaceva nel
punzecchiarlo con il suo spirito pieno di vivacità e d’ironia. Nel
corso di quelle settimane Arrigo aveva strette molte conoscenze, ma
poichè si trovava in condizione assai difficile, dato il suo legame
con la Ruskaia, ne usava con molta cautela, per non urtare alcuna
suscettibilità.
La bella Tatiana era gelosa. Se un poco di stanchezza stava per nascere
in lei, questi fatti la dissiparono. Ella prese in odio tutte quelle
che guardavan Arrigo con troppa insistenza, e molte volte s’ingelosiva
senza ombra di ragione, poichè la donna innamorata smarrisce del
tutto il senso del suo proprio valore, se non quello della sua propria
vanità. Ogni sera, nella intima villetta, furon alterchi e lacrime.
Arrigo riusciva sempre a rasserenarla con qualche abile carezza, con
qualche parola persuasiva; ma il giorno dopo si era da capo. Diveniva
irascibile, sospettosa, inquieta; durante le ore che passavano
all’albergo non lo perdeva d’occhio un momento; se usciva solo, d’un
tratto gli capitava presso, ed inoltre aveva ordinato alla domestica di
non consegnare che a lei sola qualsiasi lettera giungesse nella casa.
Una volta che donna Claudia era stata oltre il consueto provocante
con Arrigo, la Ruskaia fu sul punto di fare i bauli e andarsene
via, piantando in asso le dame del Comitato, le prove, la recita di
beneficenza.
Quel giorno gli occorse non poca fatica per riuscire a calmarla.
Frattanto il buon barone Silvestro, designata vittima di quei malumori,
ebbe a ricevere un sacco di sgarberie. Ma non disperò. Sapeva che tutto
viene a suo tempo: il frutto su l’albero acerbo e il bacio d’amore sui
labbri della donna restìa.
Se il giorno della recita avesse tardato ancora, certo la commedia non
sarebbe stata a lieto fine. Quelle dispettose nobildonne si mettevan
allegramente di puntiglio nel provocare la gelosia della cantatrice,
sicchè facevano ad Arrigo più moìne che mai. Donna Claudia, superba e
sfacciata, non se ne dava per inteso. Con quell’aria di gran dama che
non aveva mai perduta nelle più scapigliate avventure, civettava con
Arrigo sotto i lampeggianti occhi della Ruskaia e pareva divertirsi
mezzo mondo a veder l’impaccio del perplesso amante. Gli aveva detto un
giorno:
— Mi piacerebbe invitarvi da me, in villa; ma forse la vostra piccola
amica non ve lo permetterebbe...
E rise, con il suo riso pieno d’insolenza.
Poi, un altro giorno:
— Vado in città una volta la settimana, il giovedì, col treno delle
undici...
Arrigo finse di non comprendere. Gli parve che anche agli uomini fosse
talvolta mestieri difendere la propria onestà.
Ma quando la Ruskaia ebbe cantato, nel giorno della recita, la scena
fu coperta di fiori. Per farle una cesta, il barone Silvestro aveva
mietute le più belle aiuole del suo giardino. E la pagaron d’applausi
per quanto l’avevano fatta soffrire.
Dopo d’allora nessuno li vide più. Eran tornati a vivere nascosti nella
villa odorosa di gelsomini.
L’autunno intanto cominciò a buttare i suoi tappeti gialli su le
inclinate praterie della montagna; ricamò di assiderati brividi
le calme acque, all’avvicinarsi della sera. Le aperte magnolie si
sfasciarono, caddero dai rami alti, nel fogliame lucido. Le rose delle
spalliere si sfogliarono fiore per fiore su la bianca ondata, e si
dispersero via, per il lago, tra le foglie secche, ad una ad una.
E gli amanti ritornarono in città. La Ruskaia fu scritturata per la
nuova stagione; Arrigo riprese a poco a poco una maggiore libertà.
Ormai gli pareva che la sua casa fosse troppo modesta, sicchè prese
un altro appartamento di gran lunga più lussuoso e si fece servire
da un domestico in livrea. Occorreva un certo apparato per ricevere
Donna Claudia e tutte l’altre che verrebbero in séguito. Gli usurai
cominciavano con fargli credito, vedendolo vivere in mezzo a gente
danarosa, e quando alle scadenze non provvedevano le carte, era
Tatiana che pagava le cambiali. Ma non più con la serena incoscienza
delle prime volte. Ora si rabbuiava, piangeva discretamente miseria,
e v’erano già state alcune discussioni aspre, sopra tutto per le spese
dell’appartamento che a lei parvero eccessive. Allora egli la fece da
millantatore, s’offese, giurò che l’avrebbe ripagata, e con avanzo,
d’ogni denaro avuto, poi, per qualche giorno, scomparve. Ma Tatiana lo
tornò a cercare, sebbene fosse stata un momento in dubbio se profittare
di quell’occasione per accogliere l’offerte allettevoli del barone
Silvestro, che aveva, di fronte alle donne, due supreme virtù: la
pazienza e il denaro.
Tatiana certo non era interessata; ma spendeva per i suoi abiti
non meno di cinquantamila lire all’anno; adorava i gioielli e se ne
stancava presto, il lusso, lo spreco erano per lei più necessari che
il pane. Da un anno in qua i suoi guadagni si erano ridotti quasi a
nulla, poichè le paghe d’un teatro italiano, per i suoi bisogni, erano
ben povera cosa; da Parigi il suo banchiere, ad ogni richiesta di
denaro, le mandava lettere quasi paterne, avvertendola che il suo conto
corrente scemava con una rapidità spaventosa. E insomma, se l’amore
può, nei proverbi, contentarsi d’una capanna, la parola d’un banchiere
previdente riesce non di rado a sconvolgere tutto un ordine d’idee.
Quel barone Silvestro, dalla barba crespa, era infatti un po’ ridicolo,
con la sua grande aria da re dei burattini, — ma che appoggio serio
per una piccola donnina, sola nel mondo, con i suoi capricci e con le
sue guardarobe favolose!... Infine la Ruskaia rifletteva su ciò, molto
seriamente, benchè non sapesse risolversi ancora.
Una mattina Arrigo stava dormendo, quando il domestico lo venne a
svegliare, portandogli un biglietto da visita ch’egli squadrò con
occhi assonnati. Nello stesso tempo s’intesero due nocche battere
familiarmente all’uscio.
— Sono io, — disse dal di fuori una voce, che gli parve di riconoscere
per quella di Beppe Cianella.
— Oh, venga pure avanti!
Con urbanità si scusarono a vicenda, il primo d’essere venuto, l’altro
di riceverlo stando in letto.
Arrigo notò che per la prima volta il Cianella gli dava del tu.
— Sono venuto per due motivi: uno...
— Ma si segga!
— Dimmi siéditi; è più semplice. E siccome devi aver sonno, cercherò di
spiegarmi in fretta.
Arrigo aveva già compreso: la visita mattiniera, il tono, quella
familiarità... poi se l’aspettava da un pezzo.
— Comincerò dunque dalla cosa peggiore. Vengo a seccarti per un
prestito. Se puoi, mille grazie; se no, poco male.
Arrigo accese una sigaretta.
— È questione di cifre, — disse con un sorriso amabile.
— Cinquemila, — precisò il Cianella, che amava di andar per le spicce.
E si mise a contemplare la fisionomia del suo recente amico.
Arrigo meditò qualche attimo.
— Ci posso arrivare forse, ma con un po’ di fatica, — disse. — Al
momento non le ho, ma prima del pranzo spero di fartele avere.
— Grazie, — rispose l’altro con semplicità, come se le avesse già
intascate. Poi si credette in obbligo di qualche spiegazione.
— Ho presa una batosta la notte scorsa. Quel diavolo di Sacco Berni ci
ha messi tutti sul lastrico. Sapessi che smazzate, mio caro! È tornato
dalla campagna con una fortuna più spaventosa che mai. Invece io, da un
mese in qua, non faccio che perdere. Pazienza! Intanto ti ringrazio.
Sono venuto da te, sapendo che hai buon cuore e che sei un uomo
discreto. Ma non son venuto solo per stoccarti...
Fece una pausa ed assunse un’aria di protezione:
— Totò Rigoli mi ha parlato della tua presentazione al Circolo;
mi ha domandato se accetterei di firmare la tua scheda insieme con
lui... sopra tutto in questo momento che ho la carica di segretario
temporaneo. Totò Rígoli ti vuol bene. Ed io, naturalmente, ho
accettato. Firmerò oggi stesso la domanda e mi metterò a fare una
campagna in tuo favore. Sai, qualchevolta, per ricevere un nuovo socio,
sollevano mille difficoltà... Nel caso tuo ci sarà da combattere,
perchè hai suscitato molte invidie... A proposito come sta la Ruskaia?
La Ruskaia stava benissimo, e pagò lei, naturalmente, le cinquemila
lire che occorrevano a Beppe Cianella perchè questi accettasse di
presentare al Circolo l’amico dell’amico Totò.
E l’urna, talvolta ingiustamente crudele, fu propizia a quest’uomo
che aveva il coraggio di credere nella fortuna. Ebbe una votazione
assai contrastata, ma per un piccolo eccedere di palle bianche gli
si apersero le porte di quel Circolo nobiliare che per molti anni era
stato il privilegio di una casta veramente appartata. Le barriere più
alte cadevano davanti al passo dell’avventuriero; sopra il suo nome
si era combattuta una di quelle piccole battaglie mondane che decidono
l’avvenire d’un uomo.
Che importava a lui se dietro le sue spalle alcuno mormorasse, alcuno
gridasse pure al sopruso? Li avrebbe fatti tacere, li avrebbe vinti, o
con la persuasione o con l’arroganza, perchè poteva ormai dividere gli
utili dagli inutili e gli amici dai nemici.
Allora fece un bel bucato di tutta la sua roba sporca, e guardando con
fiducia nel limpido avvenire disse per la prima volta a sè medesimo:
— Si arriverà!


XIV

Donna Claudia s’era pagata il suo capriccio. Se l’era pagato senza
troppe cautele, da donna esperta e frettolosa. Non fece che scrivere
nel suo catalogo mentale questa riflessione molto semplice: «Uno di
più.» Era fra quelle donne coraggiose che non tentano di mascherare
dietro vane commedie sentimentali quella perenne voglia del mutamento
che in verità costituisce la sola ragion d’essere di tutti gli amori
galanti. Si era detta: «Mi piace»; lo aveva lasciato comprendere a lui,
comprendere a tutti, poichè le sue stoltezze eran ciò che di più serio
aveva saputo commettere nella vita. Non le rincresceva d’invecchiare,
perchè non portava con sè nella vecchiezza nessuna rinunzia, nessun
rammarico; si era dispensata, goduta e lasciata godere fino al limite
del suo desiderio; tutte l’ore trascorse della sua vita le parevan
degne d’esser rivissute.
Nella penombra d’una camera ella poteva nascondere ancora il numero
soverchio degli anni e sapeva qualche malizia di vecchia gatta, che
meglio d’una fresca inesperienza poteva innamorare i giovini. Se il
volto e la gola sfiorivan un poco, le rimaneva pure quel superbo seno
che nessuna gelosia d’amante era mai riuscita a farle bastevolmente
coprire negli abiti da ballo, e quella cintura pur salda nella
strettezza delle reni, che tanti spasimi aveva contenuti, senza
disfarsi nella lascivia, senza patire dalla voluttà.
Da troppo tempo Arrigo era fedele alla sua dolce Tatiana; aveva sete di
bere ad un calice più amaro, e, quando la prima volta s’incontrarono,
Donna Claudia lo trovò impaziente. Sorpresa e lusingata di piacergli,
cessò da quel sarcasmo brioso con il quale si preparava a difendere la
sua maturità contro le diffidenze dell’uomo giovine. Ed anche gli fu
riconoscente, perchè nulla è più triste per la donna che lo svestirsi
con paura sotto gli occhi attenti d’un uomo al quale avrebbe potuto
piacere follemente una decina d’anni prima.
Donna Claudia cominciò con invitarlo a pranzo; nella sua casa era
sempre tavola bandita, gaio spirito e libera ospitalità. Varia e
dissimile gente vi conveniva insieme, accomunata sotto la tutela del
gentilissimo blasone che gli avi di don Antonio del Borgo avevan recato
di Spagna per il tramite d’un maritaggio e per l’onore d’una pace
conchiusa. Ma don Antonio lo avrebbe ormai lasciato perire, poichè la
sua prodiga moglie s’era invano affaticata per fargli nascere un erede.
Arrigo si appropriava con rapidità le usanze delle persone fra le quali
era condotto a vivere; dalla bottega paterna alle sale dei palazzi,
per un veloce cammino, si era tolta di dosso tutta la reminiscenza
plebea che portava dal suburbio e dalle basse frequentazioni; un nitido
signore sbocciava in lui, spontaneamente ricco d’eleganze, piacevole
in tutto a conoscersi, tanta era la padronanza ch’egli aveva sopra
sè stesso e la fede ambiziosa nella meta del suo cammino. Pochi mesi
bastarono per assuefarlo a quella vita nuova, come se l’avesse vissuta
fin dall’infanzia. Forse, nel compiere quell’ascensione, il suo sangue
si risovvenne che non era sangue di plebe, se tale oscura memoria può
non morire traverso la discendenza ed i casi alterni della vita.
Da quelle sale fu condotto in altre numerose, ove strinse amicizie,
intraprese piccole avventure, coltivò gli uomini e le donne che potevan
esser utili a’ suoi disegni, ebbe l’accortezza di parer modesto e di
non suscitare alcuna gelosia.
Poichè sapeva di avere una cultura manchevole, pazientemente prese
ad istruirsi, celando le ore dedicate allo studio come se fossero una
colpa, e spiegando nelle sue dense giornate una infaticabile attività.
Si volle raffinare con ogni diligenza, per un naturale amore della
raffinatezza che dormiva in lui. Dietro la maschera impassibile del
suo volto s’indovinava talora la febbre dell’anima irrequieta; ma una
tirannica volontà soggiogava tutte le sue passioni ed egli provava
quasi una iraconda gioia nel soffocare le ribellioni dell’istinto. Di
sè medesimo era splendidamente l’arbitro il maestro ed il soggiogatore.
Qualchevolta eran battaglie aspre contro una certa sua naturale
arroganza, che mal si fletteva nello sforzo dell’adulazione;
qualchevolta era forse il bisogno di trovare un amico vero, un’amante
vera, e narrargli la sua piccola storia; qualchevolta era tutto il
suo essere che si torceva sotto la fatica di quella fredda e scaltra
commedia; ancor più, quando per le sue vene, in certi giorni, in certe
ore, passava una prostrazione fisica più dolorosa d’un male, ed egli
sentiva in sè quasi la remota paura, la buia coscienza d’un pericolo
che sovrastasse alla sua vita.
Gli pareva di avere in sè una fiamma serpeggiante, o talora qualcosa
di viscido, che salisse, salisse, fino alla sua gola, fino al suo
cervello, e talvolta un ronzìo, un rombo, un bisbiglio, uno strepito
di cose lontane, imminenti, aspre, dolci, più forti e più vive che il
sogno della sua mediocre vita.
Qualchevolta un corpo femminile, pur non desiderato, lo turbava così
profondamente ch’egli sentiva tutto il suo grande imperio svanire in
un malessere senza nome, comunicargli un dolore acutissimo, e il vento,
l’ondata, la fiamma, il gorgo, la vertigine, mille sensazioni confuse,
calde, logoranti, gli occupavano lo spazio interiore dell’essere,
prostrandolo in una specie d’annientamento.
Poi si vinceva e rideva. Tornava con impeto a combattere la sua
battaglia illecita, mettendo l’ambizione sul taglio della spada
e l’onestà nel fodero. Per il denaro lottava, nelle notturne ore
assidue sul tavoliere conteso, facendo pro’ di tutte le forze contro
le debolezze altrui. Pericolando camminava su l’orlo dei precipizi,
reggendosi a quel filo tenue che la fortuna tende agli spiriti audaci.
Dopo una lite più acerba delle altre, Arrigo e la Ruskaia si erano
abbandonati, senz’essere ben certi di non amarsi più. Ella si era
lasciata sfruttare senza lamentarsene, fin quando Arrigo era stato
per lei un amante appassionato e fedele. Ma dopo il suo ritorno in
città, troppo egli la trascurava e troppe ore le lasciava di solitaria
meditazione. Le sue apparizioni presagivan per lo più qualche pagamento
vicino, e la Ruskaia finì con dirsi ch’egli l’avrebbe rovinata in
poco tempo senza nemmeno serbarle un poco di riconoscenza. Aperse gli
occhi, e finalmente si trovò ridicola. Da ultimo, le giunse una lettera
anonima, che le rivelava in modo esplicito l’avventura di donna Claudia
con Arrigo, dandole, perchè ne fosse certa, i più minuti particolari
sul luogo e su l’ora in cui solevano incontrarsi. Già sospettosa, ella
non ebbe che raccoglierne la prova. Si mise al classico agguato, e
donna Claudia, che in vita sua s’era trovata in ben altre contingenze,
riuscì con la sua presenza di spirito ad evitare uno scandalo.
Fra Tatiana ed Arrigo fu invece una rottura liscia, senza lacrime,
senza furori, come fra gente già preparata da un pezzo a doversi
lasciare; gente calma, che comprenda la necessaria parabola delle cose
umane, e partendo si ringrazi a fior di labbro d’aver insieme recitata
per qualche tempo, con perfetta sincerità, la commedia dell’amore.
Allora il barone Silvestro si fece animo, ed ebbe finalmente ragione
d’aver sperato nella sua fedele pazienza, nella sua devota urbanità.
Gli uomini ricchi e le donne belle finiscon sempre con intendersi fra
loro.
Su questo avvenimento si fecero grandi ciarle nei ritrovi dei
Mammagnúccoli, nei teatri e nelle sale dove Arrigo incominciava ad
essere invitato con grande favore. La rottura fu spiegata in vari modi,
e non tutti benevoli per Arrigo. Ci fu pure chi compianse la Ruskaia,
credendola sempre innamorata di lui. Ma ormai ch’ella s’era scelto a
protettore un uomo da bene, tutti gli antichi spasimanti le si rimisero
alle calcagna, ed il suo ritorno alla scena fu per lei una serata
trionfale.
Arrigo era in teatro quella sera, disinvolto e sorridente. Lo si vide
pure applaudirla dal palchetto di Clara Michelis, la ricca vedova
sentimentale ch’egli stava per avvolgere nelle sue reti, facendole una
corte insidiosa e paziente.
L’intermezzo di donna Claudia non sarebbe durato a lungo. Ella
d’altronde non faceva per lui, perch’era troppo sfacciata, troppo
accorta, e, durante le ore d’intimità, troppo esigente nell’opera delle
amorose fatiche. Inoltre a lui pareva che avesse un cuore di pietra!
Purtroppo non avrebbe compreso mai, quella incorreggibile marchesa,
come il dovere d’una donna vecchiotta fosse quello di soccorrere un
bel giovine, senza nemmeno farselo dire!... Insomma, ella ormai gli
dava sinceramente ai nervi, ed anche la sua bella Tatiana ricominciava
con dargli ai nervi in altra guisa, dopo qualche mese di separazione.
Gli era venuto il rimorso d’averla troppo tormentata quand’era sua, ed
insieme il dubbio di essere stato uno sciocco nel rinunziare a lei.
Il barone dalla barba crespa l’aveva ripristinata nell’antico
splendore. Ella viveva ora con magnificenza, con sperpero; la si vedeva
dappertutto, a fianco del suo barbuto barone, che pareva sdilinquirsi
a guardarla negli occhi. Egli le aveva preso un appartamento, del
quale si dicevan cose mirabili, aveva messo un’automobile sfavillante
a’ suoi servigi, le mandava in casa un gioielliere di gran fama che
aveva libertà di suggerirle i desiderii più costosi, e quantunque il
barone fosse ricchissimo, la buona gente si rallegrava già pensando che
sarebbe finito egli pure sul lastrico. Tali donne, quando non amano,
divengono barbaramente venali.
Si diceva che Rafa Giuliani le avesse regalata una collana di ventimila
lire per una visita di mezz’ora; Carletto Santorre giurava d’aver
ricevuta una promessa; il conte Aimone dell’Ussero le faceva proposte
regali pel tramite della propria mezzana; Paolo del Bassano torceva
la sua bocca feminea quasi per dire con un sorriso da irresistibile: —
Peuh, se volessi...
E tutto ciò esasperava i nervi di Arrigo, tanto più che gli amici
si credevano in dovere di punzecchiarlo. Qualchevolta gli avveniva
d’incontrarla per istrada, nei negozi o nei teatri. Un turbamento
simultaneo li rimescolava entrambi ed evitavano di guardarsi come due
che avessero in cuore la reminiscenza d’una segreta colpa. L’uno e
l’altra si studiavano di atteggiarsi alla maggiore indifferenza; ma
non era punto così, ed il buon barone Silvestro lo sapeva tanto bene,
che ostentava con Arrigo una grande freddezza e quasi quasi evitava di
salutarlo.
Tatiana del resto era stata una buona donna. Avrebbe facilmente potuto
vendicarsi di lui, raccontando qualche piccolo particolare intimo,
assai grave per il bel Ferrante. Ma evidentemente invece aveva taciuto,
e spesso, mentre cantava, i suoi occhi lo cercavan dalla ribalta
come nei primi tempi del loro amore, quand’eran l’uno per l’altra due
sconosciuti.
A lui avveniva di sentirsi penetrare da quella voce fino a soffrirne,
o d’appoggiarsi al parapetto d’un palco, stringendosi le tempie fra i
pugni chiusi, e di scordar sè stesso nel guardarla smarritamente, con
un turbine di memorie nel cervello e nelle vene.
Aveva la tentazione terribile di darle per l’ultima volta un caldo
bacio; gli avveniva di provare una commozione sciocca davanti ai
piccoli oggetti, alle improvvise memorie che gli erano rimaste di lei.
Purificata, rinnovata, più che mai desiderabile, quest’amante perduta
lo innamorava un’altra volta di sè.
Una sera fu lì lì per accostarla in una contrada semibuia. Le scrisse
pure alcune lettere, che poi si vergognò di mandarle. Dal palco alla
scena, si guardarono spesso, turbati entrambi, come se fra loro, per
l’aria, fosse passata una carezza. Il barone Silvestro aveva notato
qualcosa e vigilava come un can da guardia. Ma l’amore sa essere più
scaltro della gelosia.
Egli le mandò un mazzo di violette di Parma, poichè c’era un profumo
di violette nella loro storia d’amore. Poi, una sera, verso l’ora in
cui l’impeccabile barone Silvestro soleva trovarsi al pranzo della sua
vecchia madre, non sapendo come altrimenti parlarle, si diede animo e
le telefonò:
— Sei tu?
— Chi tu?
— Tatiana?
— Ah...
— Senti...
— No, no!
— Voglio vederti...
— Mai più!
— Vieni da me domani, dopodomani, quando potrai...
— No. Che sciocchezze! Lásciami...
— Tatiana!...
Ella vi andò, naturalmente, e, come spesso avviene, tornarono amanti
nascosti dopo esserlo stati con piena libertà. Si ridiedero gli stessi
baci e godettero nel trovarvi un pericolo grande, una insolita paura,
come in tutte le passioni che hanno il pregio d’essere vietate.
Ma la cosa non potè rimaner secreta; troppi erano i gelosi che stavano
all’erta, e ci fu qualche maligno ciarlatore che ne diede sospetto al
barone.
Questi non giunse ad averne la certezza, ma l’odio contro il bel
Ferrante gli si fece così vivo, che l’animo battagliero dello smilzo
ufficiale d’un tempo rivisse nel pingue gentiluomo, e con acre fermezza
egli si propose di offendere al primo incontro il suo bel competitore.
Al Circolo, una sera, si parlava di due ch’erano in procinto d’esservi
accolti come soci o respinti, secondochè lo scrutinio avesse dato
ragione ai loro spalleggiatori o piuttosto a quelli che si erano
accordati per volerne l’esclusione.
Uno de’ due, Giorgio Levi, aveva contro sè il peccato della sua razza,
la mala fama d’un patrimonio raccoltogli dal padre con i proventi d’una
banca equivoca e la colpa d’aver sposata per convenienza una donna di
bruttezza intollerabile.
L’altro, Alessio Macchi, era uno scapolo d’età matura, uscito
dalle classi plebee con un ingegno solido e rapace, con una volontà
possente, cosicchè, tramando abili speculazioni, era giunto a governare
arbitrariamente le oscillazioni giornaliere de’ valori di Borsa.
Arrigo, preso nel mezzo di questa discussione, ascoltava tanto gli uni
che gli altri senza esprimere alcun parere; anzi appariva chiaramente
angustiato.
Il barone Piaggi s’avvicinò, inframmettendosi nella discussione con
certe frasi acri che parevano raschiargli un po’ la gola; nel suo viso
apoplettico brillava un’irritazione mal dissimulata ed i suoi gesti
perdevano la consueta misura.
Squadrò il bel Ferrante bene in faccia, poi disse:
— È ora di finirla! Ogni mascalzone avrebbe dunque il diritto di
proporsi ormai al nostro Circolo, ed anche la fortuna d’esservi
accolto? Perchè mai questa gente vuol essere de’ nostri?
Arrigo si fece orribilmente pallido, ma tacque.
— Scusa, — intervenne Balbo Verani, vice-presidente del Circolo, — mi
sembra che tu esageri un pochino!
L’altro riprese con veemenza:
— Non esagero affatto! Chi sono questo Levi e questo Macchi? Ebrei,
si era d’accordo nel non volerne. Ora passeremo anche sopra questo? E
il Macchi? Un ribassista fra i più smascherati, un uomo che ha sempre
avute le mani in pasta nelle più nere speculazioni di Borsa!
— Non ha torto, — ammise laconicamente il marchese Berrini, con quella
voce nasale che dipendeva dal suo malumore cronico.
— Ah, no, per Dio, — proruppe il barone. — Dove si andrebbe dunque a
finire? Se quelli entrano, io me ne vado. È ora di finirla con questo
genere di personaggi che si fan proporre al nostro Circolo dopo aver
schivato il Cellulare!
Fissò di nuovo Arrigo e soggiunse:
— Fra poco, per qualche centinaio di lire all’anno, andremo a
raccattare i nostri soci nei caffè o nelle bische dove bazzicano tutti
gli avventurieri! Cosa non nuova del resto, perchè purtroppo l’esempio
è già dato.
Sopravvenne uno di que’ gelidi silenzii, pieni d’attesa e d’ambiguità,
durante i quali gli occhi di tutti convergono sopra uno solo. Arrigo si
levò, pallidissimo, dominando con la forza de’ suoi nervi contratti una
collera spaventosa.
— Sono l’unico, — disse con voce rauca di tremito, — al quale sembrano
rivolgersi, non le vostre parole, ma la slealtà e l’impostura con cui
le dite. Mi vergognerei di scegliere una strada così poco diritta se
avessi l’intenzione di provocare un uomo!
Levarono i pugni entrambi, ma furono trattenuti, e ci fu in serata uno
scambio di padrini.
Tutti i telefoni sparsero la notizia tra quelli che ancora vegliavano
per i ritrovi della città notturna.
Il barone aveva il torto d’essersi mostrato geloso, e molti ne risero.
La causa vera dell’incidente soverchiò e nascose il pretesto dal quale
era nato. Alcuni opinarono che Arrigo avesse risposto bene, ed egli
riscosse in ogni modo qualche simpatia, perchè il barone aveva la fama
di un terribile duellatore. Almeno al tempo della sua gioventù, menava
certi fendenti spaventosi che scotennavano e sfiguravano. Sarebbe stato
peccato per il bel Ferrante!
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