Colei che non si deve amare: romanzo - 10

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Ad Arrigo diedero i pezzi migliori, gli empirono tre o quattro volte il
piatto, ed egli mangiò, mangiò con una fame inconsueta, fino ad esserne
obeso. Il gagliardo suo stomaco plebeo si rifocillava di quella sana
ed onesta cucina, quasi per rivalersi dei costosi manicaretti, ch’eran
talvolta troppo lievi alla robustezza della sua fame.
E intanto che mangiava quella carne bollita su la brage del suo
focolare, qualcosa tuttavia gli si rimescolava dentro dell’antica
origine, un sentimento incerto fra l’affetto ed il benessere, fra la
buona digestione e la tenerezza filiale, fra la gioia del sentirsi
il ventre pieno ed il piacere di potersi abbandonare malamente, come
il suo padre, su la seggiola robusta, e poggiare, se gli piacesse, i
gomiti su la tavola, e molestarsi a lungo i denti con uno stecco, ed
eruttare, se gli piacesse, il troppo fiato che aveva nel corpo satollo,
e sentirsi con placidità salire alle guancie quella vampa dilettosa che
dà il buon vino e la buona vivanda, nell’ora fra tutte più bestiale e
più umana in cui l’alimento sta per tramutarsi in sangue, distribuendo
per ogni vena la sua fertile sostanza di vita.
Sentì allora l’impaccio del solino troppo alto, sbottonò la sottoveste
che gli molestava il ventre, e per un attimo si ritrovò con piacere ad
essere il figlio dell’occhialaio, il fratello di quel selvatico Paolo,
che ora, nella sua stessa positura, gli somigliava singolarmente.
E parlò, e parlò, narrando molti casi della sua vita, che scorreva
nei saloni eleganti, fra le signore anemiche, dal profumo che dà
l’emicrania, fra i giovani cicisbei a’ quali si sentiva di poter con un
pugno fiaccare le reni; parlò con quella ironia piena di sale con cui
l’uomo plebeo narra dell’aristocratico, e per un momento gli piacque
d’essere nella sua famiglia, nella retrobottega rinnegata, fra gli
odori della cucina, e vedendo per una scostatura della tenda scintillar
gli occhiali nella mostra illuminata.
Ma questo non potè durare che il tempo della prima digestione; poi
tornò ad essere l’estraneo, che in fondo si vergognava della sua casa.
Il padre, la madre, quel dissimile fratello, non lo interessarono più.
Ora, chi attraeva la sua pertinace attenzione era Loretta; Loretta
che aveva mangiato poco, ch’era in camicetta di seta, con i capelli
a riccioli e l’unghie pulite, che sapeva di cipria fina e portava le
scarpette a punta, scollate, sotto una caviglia estremamente sottile.
La tovaglia macchiata, quella zuppiera e que’ tondi vuoti, ch’erano
rimasti lì, sopra una credenza, quell’odore di tabacco ordinario che
spandeva intorno la pipa del padre, finirono con dargli ai nervi,
ricacciandogli addosso d’un colpo tutta la vergogna d’esser impresso
anch’egli dal marchio plebeo di quella umile gente. Guardò l’ora:
— Le otto e mezzo, — fece. — Mi vado a mettere l’abito nero perchè sono
atteso a teatro.
— Cosa vai a sentire? — domandò il padre.
— Vado a sentire _Loute_, una «pochade».
— Roba nuova?
— Che nuova! L’avrò intesa venti volte.
— E allora perchè spendi i quattrini per andar a teatro?
— E magari va in poltrona, lui... — disse la madre.
— No, anzi, vado in palco, — egli spiegò con un riso indulgente. — Ma
non spendo nulla.
— Come non spendi nulla?
— Abbiamo un palco in parecchi amici.
— E non vi costa niente?
— Ma che domande! — esclamò Loretta. — Lo si affitta in principio di
stagione. Non sapete cosa sia una «barcaccia», santo Dio? Cadete sempre
dalle nuvole, voi! E invece di starvene qui a sonnecchiare come ghiri,
fareste meglio di condurre a teatro anche me, oppure di lasciarmici
andare per conto mio.
— Eh!... quella vipera! — sibilò Paolo con una specie d’odio.
Arrigo salutò la famiglia ed Anna Laura gli passò il soprabito; poi,
leggera, gli si appese al braccio ed entrarono insieme nella bottega,
come s’ella volesse confidargli qualcosa.
— Vieni spesso a vedermi, Arrigo... — pregò lei sottovoce, traendo un
sospiro. — Con questa gente, è una vita insopportabile! Io sono un po’
come te, sai... E proprio non ne posso più!
Egli si fermò a guardarla un’altra volta, con quello sguardo da
intenditore, nella luce piena che sgorgava dalla vetrina. Uno strano
sorriso gli increspò la bocca.
— Dunque vuoi andare a teatro, tu?
Loretta lo teneva per il braccio. Allora, girandogli di fronte, con un
gesto muliebre, un gesto d’amante capricciosa, gli accomodò la cravatta
ch’era un po’ di sghembo.
— Eh, sì, vorrei... — disse.
— Bene, ti ci condurrò io.
— Ma è impossibile, caro! — ella fece con un accento voglioso e triste.
— Non ho abiti e non posso venire con te, così...
— Già, — fece Arrigo, riflettendo. — Ma non importa; vienmi a trovare,
combineremo.
— Sì?... Quando vuoi? — ella esclamò, piena di luce.
— Anche domani.
E le diede un bacio su la bocca.


III

Il domani ella v’andò nel pomeriggio. Arrigo dormicchiava, steso tutto
vestito sul letto. Riparava con quella siesta pomeridiana ad una delle
sue faticose veglie notturne. Aveva dovuto rimanere al Circolo fino
alle sei del mattino per rifarsi d’un cattivo mazzo di baccarà capitato
in principio di sera.
Ella entrò come un colpo di vento nella camera semibuia del fratello,
senz’attendere che il domestico l’annunziasse, e, vedutolo giacere, si
fermò di botto qualche passo oltre la soglia.
— Come mai? Dormi?
— No, riposo. Vieni pure, Loretta, vieni avanti.
Era il marzo fuori che infuriava, con rabuffi di vento gelido in un
cielo rosso.
Egli accese la lampadina elettrica e si volse a guardar la sorella con
gli occhi assonnati, tendendole una mano.
— Dunque? — fece.
— Che hai? Non stai bene?
— Sto benissimo; solo mi avete fatto mangiar troppo ieri sera. Non
sono avvezzo a quella cucina pesante. Allora tu vieni... ah, sì, per il
teatro!
— No, io ti vengo a trovare, perchè ho voglia di discorrere con te. Se
sapessi quanto m’annoio! Il vederti è come una festa.
Arrigo sorrise.
— Siediti, Loretta. — E allungò il braccio sul tavolino da notte per
prendere una sigaretta.
— Cercami uno zolfanello, piccola.
Ella guardò in giro per la camera e quand’ebbe trovata la scatola,
venne presso il letto e si chinò sul fratello per accendere la
sigaretta ch’egli teneva tra le labbra.
Poi, amichevolmente, gli passò la mano su la fronte.
— Dammene una, — diss’ella, sedendo su la proda del letto.
— Fumi anche tu?
— Sì, qualchevolta, di nascosto.
— E non ti fa male?
— Male? Tutt’altro!
Ella prese una sigaretta fra le labbra sottili, si chinò ad accenderla
su la brage di quella che fumava il fratello, accavallò le gambe una su
l’altra e rimase a guardare il fumo, che, simile ad una larga sciarpa,
le rannuvolava intorno. Aveva in quell’attitudine un non so che di
frivolo, di leggiadro e d’impertinente, che la vestiva d’una grazia
squisita.
— Senti, Arrigo, — ella fece dopo una pausa; — il tuo domestico mi ha
guardata in un modo strano e quasi non voleva lasciarmi passare. Certo
mi ha presa per una tua amante... Ne vengono molte qui?
— Sì, qualcuna, — egli ammise ridendo.
— Allora io gli ho detto: «Sono sua sorella»; e son venuta avanti. Ma
forse non mi ha creduto. Poco male!
— Ora lo chiamerò, — disse Arrigo, — perchè prepari una tazza di tè;
così farete conoscenza.
Premette sul campanello e Filippo indi a poco apparve, dopo aver
bussato cautamente all’uscio.
— Vieni, vieni avanti! — lo esortò Arrigo. L’altro s’avanzò, con una
certa cautela, inchinandosi.
— Vedi questa bella signorina?
— Certamente, signor Arrigo, — fece il domestico, sorridendo con un di
que’ sorrisi ambigui e scaltri che distinguono il servo iniziato alle
segrete galanterie del suo padrone.
— Bene; preparale un buon tè, ma prima esci a comperare una dozzina di
«marrons glacés». È mia sorella.
— Sua sorella, signor Arrigo?... Toh!... non lo volevo credere.
Infatti, infatti le somiglia!
— Eh, sì, come due gocce d’acqua!
Tutto questo divertiva la fanciulla, e dava un sapor nuovo d’intrigo
e d’avventura galante, sebbene il protagonista non fosse altri che suo
fratello.
Il domestico se ne andò.
— Hai sonno ancora, forse?
— No, mi sono riposato abbastanza; rimango disteso per pigrizia.
— Aspetti gente?
— Nessuno.
— Allora mi farai vedere tutto l’appartamento?
— Certo.
— Quante camere hai?
— Sei, ed una camera per il domestico, il quale però dorme fuori.
Loretta ebbe un colpo di tosse.
— Vedi che la sigaretta ti fa male! Buttala via.
— Non è la sigaretta, — protestò la fanciulla, tossendo ancor più. — È
solo un po’ di fumo che m’è sceso in gola.
— Buttala via.
— Sono turche?
— No, egiziane. Siediti bene, Lora. Stai su l’orlo del letto e finirai
con scivolare giù.
Coi movimenti pigri d’un uomo assonnato, egli si trasse un po’ di
fianco per lasciarle posto. Ella sedette meglio e non giunse più coi
piedini a toccare lo scendiletto.
— Che letto grande, hai, per bacco!
— Si sta più comodi.
— Eh, già, ho capito... — ella disse ridendo.
— Cos’hai capito?
— Mah!...
E volse la testa per nascondere un certo rossore che le saliva
involontariamente al viso.
— Sei una birichina tu! — esclamò Arrigo, battendole una mano su le
ginocchia.
Poi si mise a guardarla, attento attento, con una specie di stupore.
Era bellina, era tutta bellina, dalla punta del piede al ciuffo di
capelli biondi che le sfuggiva su la fronte, sotto il cappello di
paglia rilucente come il grano. L’abito le modellava il busto, non
esiguo sebbene immaturo; le serrava la vita, che poteva tutta chiudersi
nel cerchio di due mani. Teneva le gambe accavallate, il gomito destro
appoggiato sovra un ginocchio, per regger alta la mano mentre fumava.
La sua carne dava quella sensazione di morbidezza e di freschezza che
dànno il velluto e le rose; i suoi occhi, d’un color nero splendente,
parevano troppo grandi per il suo viso fino. Nelle caviglie, nei
polsi, nel collo, in tutte le giunture, aveva, pur stando ferma, una
straordinaria pieghevolezza; soltanto c’era in lei, cosparso per tutta
la sua persona, qualcosa di colpevole, d’irritante: e questo era pur
nella sua voce, ne’ suoi gesti, nella maniera che aveva d’appoggiarsi,
di toccare, di sorridere, nell’odore stesso di lei, che le viveva
intorno come il profumo colpevole della sua nudità.
— Sei carina, — disse Arrigo, quasi parlando a sè stesso.
— Trovi anche tu? — ella fece con impertinenza.
— Come «anche tu»?
— Perchè me lo dicono spesso.
— Davvero? E questo ti lusinga?
— Un po’... un po’... certo!
— Oh, guarda... — fece Arrigo, prendendole il polso.
— Che c’è?
— Un braccialetto d’oro! Hai un braccialetto d’oro?
— Sicuro, — disse la sorella, nascondendo il braccio dietro la schiena.
— Fammi vedere.
— No.
— Via, lasciami vedere!
E levatosi un poco, cercò di afferrarle il braccio. Ella volle
resistere, si piegò nella cintura, si curvò sopra di lui, premendolo
con tutto il suo corpo, affinchè non giungesse a prenderle il polso che
aveva teso all’indietro. Ed entrambi indugiarono in quella scherzosa
lite, che li faceva urtare l’un contro l’altra, quasi con un senso di
sottilissimo piacere.
— Allora te lo mostrerò io, — diss’ella.
— Bene.
Se lo tolse dal polso e glielo diede.
Era una treccia d’oro, dalle maglie a doppio nodo, con un fermaglio di
brillantini.
— Chi ti ha dato questo braccialetto?
Ella rispose con una voce punto persuasiva:
— Nessuno; me lo son comperato io.
— Chi ti ha dato i denari allora?
— Toh!... io.
— Tu? Impossibile!
— Non credi? — ella fece, sorridendo della sua menzogna.
— Oh, ma qui c’è scritto qualcosa?
Nel fermaglio infatti era incisa una leggenda.
— Puoi vedere quel che c’è scritto? — ella domandò con allegrezza.
Egli si protese verso la lampadina perchè l’incisione era minutissima.
— _Honny soit qui mal y pense_...
Arrigo si volse attonito a guardar la sorella.
— Perbacco! — esclamò. — Spiegami dunque tutta questa faccenda...
— Ma non c’è nulla di spiegare: _Honny soit_...
— Sì, capisco; ma voglio dire chi te l’ha dato?
— Io... io... — ribadì Loretta, cantilenando, con un’aria di derisione.
— Via, non raccontarmi fiabe! Questo sa...
— Di cosa?
— Di galanteria, di regalino amoroso...
— Ma no!... — ella rispose con voce canzonatoria.
— Vediamo; hai forse qualche piccolo intrigo?
— Sei pazzo! — E scoppiò in una bella risata.
— Loretta, sii sincera... Hai qualcuno che ti corre appresso? Qualche
innamorato che ti fa la corte? A me lo puoi dire.
— E allora? se fosse? — domandò la fanciulla, con un sorriso provocante.
— Se fosse... ebbene, se fosse... — egli rispose con un certo impaccio,
— io non mi metterei certo a farti la morale; ma non vorrei nemmeno che
tu ti lasciassi abbindolare dal primo venuto.
— Sai, non sono stupida, io! — E mise nelle parole una sottile
scaltrezza.
— D’accordo. Allora dimmi chi è. Dimmi tutto, apertamente. Puoi bene
aver fiducia in tuo fratello, tanto più ch’io non sono severo e che ti
voglio bene.
Parlava con una certa ansia, punto dalla curiosità, stranamente
angustiato. Egli stesso non capiva bene perchè un simile fatto gli
cagionasse tanta irritazione.
— Scommetto che tu lo conosci, — ella disse, dopo aver lungamente
riflettuto. — Anzi, so benissimo che lui conosce te.
— Cosa dici? — fece Arrigo impaurito.
— Non temere: non gli ho mai detto chi sono veramente. Abbi fiducia in
tua sorella: ti ripeto che non sono sciocca, io...
— Ma dimmi dunque chi è questo tale!
— Il nome non te lo posso dire. È uno che ha cominciato con venirmi
dietro per istrada; un giovine distinto, con la faccia pallida; è alto
quasi come te: molto elegante.
— Sì, e poi?
— E poi niente. M’è corso appresso durante un mese; mi aspettava ogni
giorno. È timido. Poi ha cominciato con salutarmi; una volta finalmente
s’è fatto coraggio e mi ha parlato.
— E tu?
— Io?... Niente. Ho tirato innanzi. Mi ha chiesto di potermi scrivere
una lettera. Io, per curiosità, e per levarmelo d’attorno, gli ho detto
che mi scrivesse fermo posta e gli ho dato un nome falso. Prima venne
una lettera, poi due, tre, quattro... una tutti i giorni alla fine.
Entrò Filippo con il vassoio del tè.
— Metti lì sulla tavola e va pure, — disse Arrigo.
Il domestico obbedì in silenzio.
— E adesso, — riprese Arrigo, — ti regala braccialetti! Dunque vuol
dire...
— Niente vuol dire! Abbi pazienza. Ora ti servo il tè, poi ti racconto.
Solo giurami di non tradire il mio piccolo segreto.
— Sì, sì, va bene.
Ella empì le due tazze, si mise un marrone in bocca e masticando
riprese il racconto.
— Sai: ho visto ch’era una persona ben educata... mi trattava come se
fossi chissà chi...
— Alla larga dei cerimoniosi! Dà retta a me.
— No, vedi, quel giovine... Oh, sono eccellenti questi «marrons»!
— Mangia, mangia.
— ... quel giovine dev’essere un po’ sciocco, anzi molto.
— Ma cosa mai ti scriveva in quelle famose lettere?
— Eh!... una quantità di scempiaggini! Ch’era innamorato, che non
viveva più, che mi chiedeva umilmente di potermi parlare, che mi
avrebbe rispettata sempre... insomma, caro mio, una sera, perchè
non venisse a scoprire chi sono e dove sto, gli ho dovuto dare un
appuntamento per il giorno dopo.
— Brava!... e dove?
— Al Giardino Pubblico.
Egli aveva un’espressione attenta, indagatrice, irascibile.
— Insomma, Lora, dimmi la verità: tu hai fatta qualche sciocchezza con
lui!
— No! ti giuro di no. E a te lo direi, perchè non voglio nasconderti
niente. Anzi, mi piacerebbe che noi due si fosse amici, molto amici,
e che tu m’aiutassi, mi prendessi un poco sotto la tua protezione,
perchè, vedi, anch’io, come te, mi sento attratta a vivere in ben altro
modo...
Dolcemente gli aveva presa la mano, lo carezzava, con un gesto pieno di
femminilità.
— Va bene, Lora, va bene...
Un turbamento lo assaliva, di quella mano così leggera, di quel volto
così vicino al suo.
— Di’... raccontami... Non hai commesso nessuna sciocchezza... davvero?
— Nessuna; ma ci sono andata presso, per dire la verità.
— Ossia?...
— Ecco, ti racconto. Lui ha cominciato con volermi vedere ogni giorno...
— Ma chi è questo «lui»?
— Dopo, dopo... E mi ha proposto di andare in un appartamento, o in un
albergo, perchè si fosse più nascosti. Ho rifiutato. Allora cominciò
con volermi condurre fuori porta, in automobile, qua e là; si scendeva
in qualche alberghetto a ber qualcosa; lui mi tentava in tutti i modi,
ma io l’ho tenuto a bada. Non ho gran merito forse, perchè veramente
non mi piace. Ossia, da un lato mi attrae, perchè è ben vestito,
elegante, non brutto, e dev’essere molto ricco... ma dall’altro non mi
dice nulla! non mi va!
— Eppure, in queste gite?... in questi alberghi?...
— Oh, Dio, sai, tentava... Qualchevolta ho dovuto minacciargli di
gridare.
— E allora ti lasciava?
— Súbito.
— Davvero?
— Eh, te lo direi, diavolo! O si fa una confessione, oppure si tace, ti
pare?
— E come andò a finire?
— Non è finita. È una storia molto recente. Il braccialetto me lo diede
quindici giorni fa. E ci ha messo quel motto per farmi comprendere le
sue buone intenzioni. Infatti vuol dire press’a poco: «Non c’è niente
di male...» Vero?
Arrigo si mise a ridere, e carezzò lievemente il viso della sorella.
— Però, — ella fece, — tu dici «honný» lui mi pare che dicesse «hónny».
— Honný, honný, con l’accento su l’i. Stanne certa.
— Tu lo devi sapere perchè lo parli bene, il francese. Del resto è
naturale; avevi un’amante ch’era francese: anzi eccola lì... — Segnava
due grandi ritratti della Ruskaia, uno sopra un tavolino, l’altro
appeso al muro.
— No, Loretta, quella era una russa.
— E dov’è andata?
— È partita già da un pezzo. Continua.
— Dunque ti dicevo che, nonostante il motto, aveva certe idee
tutt’altro che tranquille. E un bel giorno, anzi pochi giorni fa, visto
che non gli riusciva di condurmi a’ suoi fini, è giunto a farmi una
proposta esplicita... Mi ha detto insomma ch’è innamorato pazzo di me,
che non può più sopportare il tormento ch’io gli faccio patire, perchè
se ne ammalerebbe, e che infine, se volessi decidermi, se volessi esser
buona con lui, potrei chiedergli, prima e dopo, qualsiasi cosa: me la
darebbe.
— E tu?
— Io gli ho detto di no. Gli ho detto di no chiaro e tondo. Ma sono
stata un poco in dubbio, per dire la verità. Poi ho rifiutato, pensando
che a mutar parere avrei tempo in séguito, caso mai... Vedi, con te
parlo apertamente. Si fosse trattato di cambiar vita una volta per
sempre, allora sì. Ma so io cos’accadrebbe dopo? Il passo è grave, e
non si può farlo che una volta sola. Ne ho vedute ben altre, io!
Egli trasse un lungo respiro:
— Brava, Loretta! sei una ragazza di buon senso. Brava!
E rimase lì a guardarla maravigliato, quasi trasognato, nell’udirla
parlare così. Poi lo prese un impeto di amor fraterno, si levò sopra un
gomito e le diede un forte bacio su la bocca ridente.
— No, capirai, — riprese la sorella, — un gran merito non l’ho. Se
mi fosse proprio piaciuto, se mi fossi innamorata, via, pazienza! Ti
confesso che domani, per un tipo il quale m’andasse a genio, forse
forse una sciocchezza sarei capace di farla... Ma per lui no.
— Insomma, — l’interruppe Arrigo — si può sapere chi è?
— No, questo non te lo dico; mi secca.
— Sciocchezze! Di cosa dunque hai paura? Che ne parli forse? Sei matta!
— Bene, allora te lo dico; ma giurami di non aprirne bocca, mai, con
anima viva.
— È inteso.
— No, dammi la tua parola d’onore.
— Parola d’onore.
— Bene: è il conte Raffaele Giuliani, — disse Loretta pomposamente, con
un certo orgoglio di sè.
— Eh!... il Giuliani!? — esclamò Arrigo, scattando su. — Dunque il
maggiore, Rafa?
— Sì, appunto, Rafa. Anch’io lo chiamo così. Vedi che lo conosci!
— Perbacco se lo conosco! Lo vedo quasi tutti i giorni. È del mio
Circolo, del mio palco, lo trovo dappertutto!... Ma sai, Loretta, che
tu, con una imprudenza, mi puoi rovinare?
— Cosa dici?
— Rovinare! rovinare! Se viene a sapere che sei mia sorella, sono
perduto. Ecco, Lora, quello che hai fatto! Pensa un po’!...
E prese minutamente a spiegarne le ragioni.
— Ma non lo saprà, non lo saprà mai: te lo prometto, — ella disse dopo
aver ascoltato. — Non conosce il mio nome, ignora dove abito, cosa
faccio, chi sono. Quanti giri per sviarlo! Capirai: neppur io ci tenevo
a lasciargli sapere che siamo bottegai. Vedi, son già più di due mesi
che ciò continua e tu non ne hai saputo nulla. Vuol dire che non dubita
nemmeno.
— Che nome gli hai dato?
— Un nome a caso: Montaldi.
Egli rimase qualche attimo pensieroso, poi soggiunse:
— Un uomo ricco; ricco sfondato e libero. Il padre non c’è più. Sono
due fratelli.
Si lasciò di nuovo afferrare, avvolgere, dall’ombra di un pensiero
nascosto, poi ripetè quasi meccanicamente:
— Ricco e libero.
— Che vuoi dire? — fece la sorella.
— Cosa voglio dire non so... Rifletto.
Successe una breve pausa, durante la quale si guardarono.
— Se Rafa... — diss’ella, esitando.
— Se Rafa... — egli ripetè, come per aiutarla.
— ... fosse davvero innamorato di me, potrebbe anche darsi...
— Che ti sposasse? Chissà mai. Per riuscire a qualcosa nella vita
bisogna credere con fermezza nelle possibilità e nelle speranze più
assurde. Però...
Ella rideva, rossa in volto per il piacere che le davano queste parole.
— Però?... — fece.
— Non lo credo capace di una vera passione, — disse Arrigo, — ma di
commettere qualsiasi sciocchezza per un capriccio, sì.
— È appunto su questo che ho contato, — ella rispose con una singolare
freddezza.
— Ah?
— Te ne meravigli?
— Un poco.
— Vuoi farmi da moralista ora? Tu? proprio tu? con la vita che fai?
— Ella metteva nelle parole una squisita ironia, ed i suoi occhi lo
sogguardavan con malizia, facendo battere le ciglia lucenti.
Fra loro si adagiava la mollezza del letto largo e tepido, fra loro
aleggiava, come un fumo torbido, l’ambiguità delle parole che dicevano.
— Non da moralista; qui non c’entra la morale, o per lo meno è un
affare che riguarda te sola. Ma siccome dobbiamo parlarci chiaro, ti
avverto che io non ti lascerò divenire l’amante del Giuliani.
— Ah?... E perchè?
— Me lo domandi? Sono tuo fratello prima di tutto...
— Poi?
— Poi, non credo che ti convenga.
— Oh, bravo! Adesso ragioni meglio.
— Non credo che ti convenga in nessun modo, ma sopra tutto non così
leggermente com’egli forse immagina.
Ella si fece piccola, carezzevole, insinuante come la più scaltra
donna, e curvata un poco sopra di lui, quasi pareva che tentasse di
fasciarlo nell’insidia della sua femminilità.
— Aiutami Rigo... — ella disse.
— Io?
— Sì, tu, proprio tu, Rigo! Lascia da parte i rigori da fratello
maggiore... Fra te e me si può fare un patto. Io conosco la tua vita
meglio che tu non creda; tu non conosci nulla della mia, però ti
rassomiglio. Vorrei, come te, giungere lontano, il più lontano che sia
possibile: per quale strada non importa. Guardami: ti sembro nata per
fare la bottegaia? E non ne ho voglia, sai! Tu solo puoi comprendere
con quanta forza non ne abbia voglia... Senti: ho pensato qualchevolta
di scapparmene via di casa e venire da te. Insieme si vivrebbe forse
bene.
— Tutto quello che mi dici è un poco strano, — egli rispose, turbato.
— È strano, ma è vero. Perchè non puoi ammettere che anche a me, come
a te, sorrida una vita più bella? Probabilmente Rafa non mi sposerà, ma
potrebbe in altro modo essere l’uomo al quale dovrei la mia fortuna.
— Quest’altro modo, — egli la interruppe, — vorrebbe dire vendersi.
— Rigo... — ella fece con un’aria canzonatoria. Ma quella sola parola
chiudeva un infinito scherno; pareva quasi domandargli: E tu? — Egli
comprese l’ironia della sorella, tuttavia scosse il capo.
— Non posso, non devo ascoltarti! — esclamò duramente. — Almeno, se
vuoi far questo, non raccontarlo a me.
— Forse lo farei lo stesso, e lo farei male. Mentre, se tu m’aiuti,
Rigo, se mi consigli, se mi guidi con l’esperienza che hai, mi sentirò
sicura. E non ne saprebbe nulla nessuno; sarebbe un patto silenzioso
fra me e te, fra noi due soli... Perchè, vedi, ho per te un sentimento,
una simpatia, una fiducia, non di sorella, ma più forte... Nel venire
qui tremavo un poco, perchè sapevo già che t’avrei parlato di tutte
queste cose... Ora che sono qui, mi sembra quasi che tu abbia un altro
nome, e che non sii tu...
Gli diceva queste parole pianamente, con una intonazione quasi ambigua,
con tutta l’anima sul fiore della bocca, nel desiderio d’essere intesa.
— Rafa non mi piace, — esclamò repentinamente, quasichè sentisse il
bisogno di fargli questa affermazione. — Non mi piace, ma può essere
molto prezioso per me, per noi... Non credi?
— Forse... — egli si lasciò sfuggire.
— Per questo l’ho tenuto a bada.
Nel suo viso di fanciulla splendeva una lucida perversità. Ella
interruppe un lungo silenzio con queste parole:
— Ti vedevo così di rado, e pensavo ogni giorno a te. Quando in casa
t’accusavano, io ti difendevo sempre. Quando venivi, ero contenta.
Egli si agitò come per un malessere.
— Allora cosa vuoi? — disse.
— Nulla; che tu m’aiuti. Consigliami: t’obbedirò.
— Proprio?
— Sì, sì, si! — esclamò con effusione, serrandogli un braccio.
— Perchè vuoi questo?
Ella arrossì un poco, indugiando nel rispondere.
— Così... voglio essere la tua amica...
— Ma se io, senza volerlo, ti consigliassi male?
— Non fa niente. Poi non sarà.
Egli rise, d’un riso torbido.
— Ne sei certa?
— Oh, sì!
Il velo del paralume diffondeva per la camera una dorata penombra, e da
quel chiuso, da quella coltre, da quelle parole, saliva per entrambi un
insopportabile calore.
— Allora, — egli disse con una voce lenta, — io vorrei prima tentare
che ti sposasse. Ma per questo non c’è che un mezzo, quantunque
ardito e pericoloso per me: lasciargli appunto comprendere che sei mia
sorella, senza che tu glielo dica. Ci veda insieme, per esempio.
Ella non riflettè neppure un attimo; quella proposta le parve
ammirevole.
— Sì, Rigo! — esclamò, battendo le mani per la gioia.
— Dimmi: sei ben certa che Rafa non sappia assolutamente chi sei?
— Certissima! E so inoltre una cosa: che posso fargli credere tutto
quello che voglio.
— Infatti avevo inteso parlare di questa sua nuova passione, ma non
immaginavo mai che fossi tu.
Risero entrambi ed ella esclamò: — Quel povero Rafa!...
— Ma dove ti sei fatta così donna? — domandò Arrigo.
— Bah!... ho molte amiche; le vedo coi loro amanti; imparo. Poi, non
so... forse questa è la mia natura.
— Dunque, — diss’egli repentinamente, — combineremo tutto fra noi: quel
che si deve dire o nascondere, fare o non fare. Intanto potremo una
sera andar a teatro insieme.
— Sì?... — ella fece, con un grande palpito, nella commozione che le
stringeva la gola.
— Bisognerebbe tuttavia che tu avessi qualche bell’abito.
— Non ne ho.
— Va da una buona sarta e comándane. Falli mandare qui, perchè a casa
non conviene.
Anna Laura non sapeva rispondere.
— Belli, — seguitò Arrigo, — e non badare al prezzo. Ci penserò io.
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