Colei che non si deve amare: romanzo - 18

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— E come finì?
— Andò a finire che al mese di Maggio se la prese il mugnaio... per un
fiore.
Ella si mise a ridere, sommessamente, con ironia, della sua fiaba
improvvisata, e senza nascondere il rossore che tuttavia le dava la sua
temerità. Poi congiunse i palmi, appoggiò le labbra nell’incavo dei due
póllici, e parve assorta in una lunga preghiera.
Ma egli restò confuso e non seppe con quali parole rispondere alla sua
fiaba. Quell’allusione lo aveva un poco sbalordito, se ne vergognava
egli stesso più di lei.
— Allora tu sei la bambina che va al mulino, per prendere farina, tutte
le mattine... non è vero? — disse finalmente, continuando la celia.
— Io prego... — ella mormorò senza batter ciglio.
— E il peccatore sarei dunque io, non è vero?
— Prego... — ella ripetè, premendosi la bocca sui póllici esigui.
— Ma chi sarebbe il mugnaio? — domandò Rafa, più forte.
Ella si volse a lui, lo guardò, rise.
— Ah?... chissà mai! — fece, interrompendo la preghiera.
Il giovine le dette un bacio, rapidamente, prima ch’ella se ne
schermisse, un bacio sul collo, tra la nuca, dove i primi capelli eran
tenui come biada nascente.
Nell’alta chiesa l’organo di sette canne, avvolto in un fascio di sole,
mandava dal suo curvo metallo una musica di fiamme.


XI

Aver fatto un grande cammino traverso la vita, essersi cacciato
innanzi, palmo a palmo, per conseguire una vittoria lontana, aver
studiati gli uomini, essere sceso a patti con loro, averne adulati
alcuni, dominati altri, essersi fatto servire dai più; aver costrutto
l’edificio della propria vita con una pazienza ed una volontà
instancabili, essere passato in mezzo alle tentazioni con una
magnifica spavalderia, aver condotto il proprio cuore per mano come
un fanciullo ubbidiente, essere stato il servo astuto ed ingegnoso
della propria ambizione, sacrificandole tutto quanto poteva insorgere
nei duri istinti, nelle intime ribellioni della sua focosa gioventù;
aver sorseggiata con delizia la coppa dei primi trionfi e mietuta con
ilarità una larga messe, già preparandosi le corone di pámpini della
imminente vendemmia; e tutto questo per trovarsi un giorno il cammino
precluso da un ostacolo impreveduto, per sentirsi vittima e prigioniero
di un agguato invisibile, tutto questo per finir con distruggere lunghi
anni di fatica in un attimo solo... era cosa ben triste per colui
che, su la propria strada, non aveva incontrato ancora nè un ostacolo
insormontabile nè l’angoscia di una vera perplessità.
Egli era uscito da una bottega, ed aveva incominciato a salire,
pazientemente, con le sue forze sole. Si sentiva chiamato, da
un’ambizione oscura ma imperiosa, a vivere tra quelli che vantavano
il primato gentilizio, cui la ricchezza ed il lusso erano retaggio
inalienabile. Per giungere sino a loro, qualsiasi frode gli era parsa
lecita, e s’era mondata la carne plebea in un bagno di signorilità.
S’era cacciato per strade oblique; nell’ombra s’era fatto il cammino.
Aveva scelto con un singolare intuito quelli o quelle che lo potessero
condur oltre; s’era piegato, s’era fatto agile, scaltro, violento,
audace qualche volta, qualche volta umile.
Di alcova in alcova, di sala in sala, valendosi della sua maschia
bellezza contro il debole cuor femminile, rimanendo inaccessibile
ad ogni altra passione, chiuso nella sua funesta volontà, camminava
guardingo, in attesa dell’ultimo assalto, pronto a carpire la più bella
sua preda con l’audacia definitiva.
Quand’ecco, a quel punto del cammino, un amore insolito, spaventoso,
lo fermava; un amore nefando e impossibile, che trovava una specie
di oscuro divieto nella sua medesima volontà. E, cosa più terribile
ancora, colei ch’egli amava, amava lui pure, gli veniva incontro a
braccia aperte, piena d’incoscienza e di fremiti, offrendogli un sorso
di veleno con il sorriso più innocente.
Era la sua sorella di carne e di sangue, aveva nel nascere lacerata la
stessa ferita, macchiata la stessa coltre; aveva saziata alla stessa
poppa la prima fame lamentosa.
Eppure egli non sentiva queste cose; queste cose erano solamente nel
suo pensiero.
Qual altra salvezza poteva esservi per lui, fuorchè il fuggire?
Egli pensò di fuggire; fece i bauli, s’apparecchiò. Ma nell’ora della
partenza, l’immagine di colei che amava gli si mise davanti alla porta
e così forte l’avvinse nel piacere delle sue braccia colpevoli, che da
lei non seppe disciogliersi, ed il terrore della rinunzia lo assalì.
— Badi, signore, lei perde il treno, — disse il domestico, entrato
nella camera per prendere il suo bagaglio.
— Sì, va bene, — rispose Arrigo. — Lasciami stare.
— Ma guardi l’ora... Lei perde il treno.
— Non importa; lasciami stare.
Il domestico, senza nulla comprendere, ubbidì. Arrigo s’era sprofondato
in una poltrona, e vi stava, piegato su sè stesso, con una specie di
sinistra immobilità. Come un cane alla catena, avrebbe voluto assalire,
mordere. Si vedeva, lontano da lei, in un’altra città, in un albergo,
fra la gente, solo. S’immaginava il domani, il risveglio del domani,
se pure avesse trovata qualche ora di sonno. Ecco: non avere più lei
vicina, rinunziare alla funesta inebbriante gioia di rivederla, di
respirare l’alito della sua bocca, di toccarla, di camminarle presso, e
curvarsi, pur disperatamente, su la vertigine di quel peccato. Andare
via così, di nascosto, senza darle un bacio, senza dirle nemmeno
addio...
Ella verrebbe a cercarlo, forse quella sera stessa, prima del pranzo,
come soleva; e non lo troverebbe più. Sarebbe rimasta su la soglia,
perplessa, un poco pallida; poi se ne sarebbe tornata via, tacendo, a
fronte china, con qualche lacrima negli occhi. Tutta la notte avrebbe
forse pianto, senza potergli scrivere una parola, senza poter conoscere
in alcun modo il suo distante rifugio. Chissà, forse avrebbe anche
pensato ch’egli non l’amasse più.
Era una fanciulla nel primo fiore, con l’anima irrequieta e gaudiosa,
con un cuore lieve; la lontananza l’avrebbe insensibilmente guarita: e
questo egli non voleva.
Ma invece, per guarire lui, nè il tempo nè lo spazio non sarebbero
mai bastati; quel fantasma l’avrebbe inseguito come una presenza
dappertutto visibile, per ogni strada ove andasse in cerca di riposo e
di oblìo. Mesi ed anni non sarebbero bastati a guarirlo di quel male,
tanto le sue carni soffrivano di lei, tanto ella si era già mesciuta,
commista, nelle sue profonde vene.
Nè i mesi nè gli anni per guarire lui, e non la lontananza e non gli
svaghi e non più alcuna fra le cose che un tempo erangli piaciute. Ora
si mutava; un uomo dissimile da quello ch’era stato veniva con questo
male ad abitare in lui. Cercava sè stesso e si ricordava di sè come
d’uno straniero.
— Signore... — disse timidamente il domestico, avanzando ancora il capo
dietro l’uscio.
— Che vuoi?
— Parte forse ad un’altr’ora?
— No, non parto! non parto più! — egli rispose impetuosamente. — Apri
quei bauli.
— Riaprire i bauli? — fece il domestico, pieno di maraviglia, senza
osare alcuna domanda. — Va bene.
Ed entrò nella camera per mettersi all’opera.
— Ossia, lascia stare, — disse Arrigo. — Partirò forse domani.
— Come vuole, — rispose il domestico, guardandolo con una curiosità
rispettosa. — Qui ci sono le chiavi.
E le depose sopra un tavolino.
— Che ora è, Filippo?
— Sono le cinque meno un quarto.
— Allora vattene pure; non ho più bisogno di nulla per oggi.
— E non si cambia il signore?
— No, questa sera non mi cambio.
— Sta forse male il signore?
— Sto benissimo; va pure.
— Allora a rivederla, signor Arrigo.
— A rivederci.
Stava per uscire, quando il campanello squillò. Arrigo d’un balzo fu
ritto.
— Chi è? Va a vedere chi è — disse febbrilmente.
Avanzò dietro l’uscio per ascoltare. La intese nell’anticamera,
riconobbe il fruscìo della sua gonna, l’udì parlare, intese che diceva:
— Parte? Voleva partire? Ma, come mai?
Quasi di corsa ella entrò nella camera, vide i bauli chiusi, vide
la sua faccia sconvolta e si fermò attonita. Per le cortine calate
filtrava un giorno vaporoso; la strada mandava rumore, i veicoli
stridevano; dai quadri, dagli specchi, da ogni cosa lucida saettava un
polveroso riverbero.
— Parti? — ella domandò, senza osare avvicinarsi.
Il fratello non rispose.
— Parti?
— Forse.
— Come forse? Hai già i bauli pronti. E non mi dicevi nulla?
— Perchè dirtelo? — egli rispose con asprezza. — Parto domani: ecco.
La ragazza divenne assai pallida, lo guardò nel viso, e tacque.
— Anzi dovevo partir oggi, ma ho perduto il treno.
L’ombrellino che portava le sfuggì di mano, ed ella non si chinò a
raccoglierlo. Fece due passi per andargli vicino, ma si fermò.
— Allora...
— Nulla, nulla! Parto domani, è deciso. Domani parto.
— E dove andrai? — gli domandò la fanciulla dopo una lunga pausa, con
la voce che le tremava.
Quel suo pallore, quel suo tremore gli producevano al cuore la
sensazione d’una carezza. Egli fece con la mano un gesto vago:
— Non so, non importa... molto lontano. Per respirare!
— Ah...
Egli si compresse con le due mani il petto e ripetè:
— Per respirare!
Capricciosa com’era, bambina com’era, ella s’andò a sedere sopra
una poltrona e ruppe in lacrime. Egli si mise a camminare senza
guardarla; ma quando le passava presso aveva ogni volta la tentazione
di afferrarla tra le braccia. Ella era poggiata contro la spalliera,
il viso raccolto nel braccio, a metà seduta sul fianco, a metà
inginocchiata. Le usciva di sotto la gonna la balza d’una sottanella
greggia con i pizzi bianchi; ad ogni suo singhiozzo gonna e gonnella
facevan romore. Una mano le cadeva lungo il fianco, stringendo un
fazzolettino intriso di lagrime.
La guardava e soffriva. Era una cosa sua, nella sua casa, nella sua
camera, vicino al suo letto; avrebbe potuto chinarsi e baciarla,
dirle una parola d’amore, fra i baci, e farla sorridere di nuovo.
Era così facile far sorridere quella sua bocca rossa! Avrebbe anche
potuto svestirla, prenderla in braccio come una bambola viva, odorosa,
disciogliere i suoi capelli, assaporare la sua bocca, coprirle di
carezze la gola, il seno, le spalle, stringerla fino al dolore nelle
sue braccia forti, sciuparla con la sua passione, saziarsi di lei...
Tante cose avrebbe potuto, e non osava. Nessuno era fra loro, e pur non
osava. Quale forza oscura impediva il suo terribile amore? Quali abissi
erano in lui, che si colmavano di spavento?
E quasi gli piaceva di vederla soffrire. Nulla disse, non le diede
neppure una carezza, e tuttavia si sentiva felice ch’ella fosse lì,
felice di non essere partito, di non aver rinunziato ancora, per
sempre, a quel tormento ineffabile.
Camminò per la camera toccando vari oggetti ch’erano sui tavolini.
Prese le chiavi lasciate dal domestico, se le mise in tasca, e
suonarono. Andò verso la finestra semiaperta, si lasciò investire,
avvolgere, dalle tende che un soffio di vento gonfiava come pigre vele;
passò vicino ad un vaso dov’erano alcune rose ancor fragranti, che
cadevano, raccolse un pugno di petali, e tenendoli nel palmo vi tuffò
la bocca, vi morse.
Dalla strada veniva sempre quel rumore di veicoli e di gente, or forte,
or lieve, quel rumore incessante, confuso, discorde, che sale dalla
vita di tutti, mentre, dietro i muri e nel silenzio, per le case degli
uomini, passa talvolta la tragedia senza mandare un grido.
Un lume d’oro si diffondeva nella camera col cader del giorno; una
lama di sole, entrando per la tenda gonfia, colpiva uno specchio su la
parete opposta rompendolo nei colori del prisma.
Ella si levò; aveva gli occhi rossi, i capelli in disordine, un
singhiozzo fermo a sommo del petto, nel gonfiore della gola. S’avvicinò
a lui, esitante, lo prese per un braccio:
— Davvero te ne vai?
Egli chiuse gli occhi per non guardarla.
— Sì, Loretta, vado via...
— Perchè?
— Lo sai perchè.
Ella si torse, con un movimento femineo, come per fargli sentire su
tutto il corpo la carezza della sua persona; gli venne contro, gli
nascose la faccia ancor umida contro la spalla, e disse piano, ma con
un singolare brivido:
— Portami via con te.
Egli ebbe un sussulto.
— Con me?...
La visione gli balenava in tutto l’essere, radiosa.
— Sì, con te! dove tu vuoi... con te.
Le sue braccia gli si annodavan intorno al collo, formando una fragile,
fortissima catena. E così vicini, così avvinti, guardarono per un
momento la felicità che passava nel loro impossibile sogno.
Andare via, fuggire, perdersi, vivere tra gente straniera, che
ignorasse il loro peccato; contaminarsi della colpa irredimibile,
scendere nel divino perdimento, con la sola paura che fosse necessaria
per goderne ancor più... Ed ella, che ignorava il peccato, tremò, come
se ne fosse già tutta coverta.
Ma egli ancora si vinse, ancora si sciolse da lei.
— No, lásciami, lásciami! Tutto questo è un tormento che uccide!
Gli errava per la faccia livida una buia disperazione, le sue mani
brancolavano sul tremore di lei. Era venuta ella stessa in tanta
esasperazione che ormai non poteva essergli vicina senza che una specie
di svenimento le scendesse per tutte le vene, soave come una morte che
disánimi a poco a poco, senza far male. Talvolta un dolore acutissimo
le batteva nel grembo, la torceva come una mano crudele.
— Anch’io non posso più... — balbettò. — Quando mi tocchi, quando mi
guardi, mi sento così male, così male...
Egli ripetè sordamente:
— Lásciami.
— La notte non dormo, — ella disse; — la mattina non riesco a levarmi
dal letto. È come se mi avessero battuta. Mi ammalerò. Tutto questo,
perchè ti voglio bene. Di giorno, qualche volta, bisogna che mi butti
sopra una poltrona e stia lì ferma, come se fossi morta. Allora mi
sembra che tu venga, e mi baci, mi baci... Fa tanto male... Se tu
sapessi come fa male!
Egli rise d’un riso rauco, affannoso; ella ricominciò:
— Anche tu sei cambiato; diventi pallido, qualche volta mi fai paura.
Gli strinse ancor più le braccia al collo, e qualche lacrima tremò
nella sua voce.
— No, non andartene, — disse. — Oppure, se parti, conducimi via con te.
Egli scosse il capo con violenza, come per ribellarsi alla tentazione
che lo assaliva.
— Pórtami via! Saremo felici qualche giorno insieme...
Ne’ suoi occhi di fanciulla perduta brillava lo splendore della sua
calda anima, il dolore della gioia non goduta.
— Hai paura forse? hai paura?... — ella domandava.
— Ho paura di me.
— Non dirmi di no... È la prima volta che ti chiedo qualcosa. Vuoi che
ne divenga malata? Io ti starò vicina coma fossi una piccola cosa tua;
non ti accorgerai di me. Qualche giorno soltanto... non dire di no!
Farai di me quello che vorrai, anche nulla se vorrai. Sarà un secreto
nostro, nessuno mai lo saprà. Pensa, Rigo, qualche giorno per noi due
soli...
Lo tentava con tutta la sua grazia, con tutte le insidie della sua
femminilità, con il calore che usciva da lei come il profumo da un
cálice, lo tentava con le sue braccia avvinghianti, con la sua voce
torbida.
— Pórtami via con te... non ho paura, io, dell’amore...
Moriva il sole nello specchio; negli occhi loro passava il miracolo di
una lontana felicità.


XII

La tentazione lo vinse; poichè una fatalità voleva ch’egli soffrisse
tutto l’abominio del suo peccato.
Per dare un pretesto alla famiglia, Loretta simulò di star male,
d’essere accasciata da uno di que’ mali primaverili che vengono con la
prima calura. Il fratello propose allora di condurla seco a respirare
un po’ d’aria salubre, in qualche paese di collina o su le rive d’un
lago tranquillo; e benchè la insolita premura di Arrigo dovesse un poco
sorprenderli, tuttavia l’onesto padre finì con accondiscendere a quella
partenza.
L’albergo dove scesero aveva un grande giardino, che dondolava su
l’acqua azzurra le sue spalliere di selvatici rosai; un giardino
esuberante, che allora, sul finire del Maggio lacustre, aveva più
fiori che foglie, più ombre che sole. L’albergo era quasi pieno,
ma di que’ forestieri un po’ lugubri, che viaggiano tutta la vita,
chiusi ermeticamente in sè stessi, maltrattati ed insensibili come i
loro bauli. Mangiano, dormono, guardano il cielo, cercano di adunare
ne’ propri occhi la maggior confusione possibile di cose vedute: son
puntuali come l’orario, minuziosi come la carta topografica, pieni
di ricordi come un albo di cartoline illustrate; delle cose altrui si
curano poco, delle lor proprie, sembrerebbe, ancor meno.
E il lago faceva oscillare le sue calme onde luminose davanti alla
contemplazione de’ lor occhi senza colore; le montagne, fasciate di
vapori turchini, buie di foreste, bianche di ville, drizzavano contro
il cielo fiammeggiante i loro impetuosi vértici; la riva, coltivata a
vigne, dorata di frumenti, sciorinava la sua pigra fecondità sotto la
magnificenza del sole.
Eran dunque partiti, ma non senza contrasti, poichè la famiglia non
vedeva di buon grado quella inattesa partenza. Certo nessun dubbio
contaminava quelle anime semplici; ma, forse un presentimento oscuro,
un sospetto senza precisione, generato anche dalla lor titubanza,
persuadeva i genitori a non favorire questa soverchia familiarità del
fratello con la sorella minore.
Inoltre, da qualche tempo, Loretta era mutata in un modo singolare;
le si leggeva nell’espressione del volto un non so che d’ambiguo,
d’insolito; ed era mutata proprio da quando Arrigo aveva cominciato
a prendersi cura di lei. Ella, involontariamente, odiava questa sua
famiglia, dalle idee grette, severe, meschine, questa famiglia ch’era
il solo inciampo alla possibilità d’ogni suo desiderio, ed oscuramente
lasciava sentire quest’odio, lasciava comprendere ch’era solo felice
quando poteva uscirsene con Arrigo, evadere dalla prigionìa familiare,
allontanarsi dalle mediocri loro abitudini.
Ed il primogenito, che una volta bazzicava così di rado nella casa
paterna, or vi giungeva quasi ogni giorno, qualche volta stralunato,
qualche volta con l’attitudine e con il pretesto di colui che voglia
nasconder la ragion vera della sua visita. Non era stato mai tenero
d’affetti familiari, e queste sue più che fraterne attenzioni per
la sorella minore sembravano per lo meno singolari. Poi, quest’uomo
arrogante, che non aveva mai sofferto alcuna ingerenza ne’ fatti suoi,
or qualchevolta appariva titubante, quasi umile, e si studiava di dare
una ragione d’ogni suo passo; talvolta guardava il suo vecchio padre,
la sua vecchia madre, con uno sguardo paurosamente filiale, che i suoi
occhi non avevan mai saputo esprimere.
Paolo, il fratello minore, il giovine dal cranio rotondo, dagli occhi
un po’ intontiti, Paolo, che mostrava per la sorella un’antipatia
irriducibile, per il fratello un certo disprezzo, non lesinava le sue
ironie un po’ grossolane su que’ due che se la facevano da signori,
prendendo a prestito le penne del pavone. E poi c’era quel terribile
Riotti, che per nulla al mondo avrebbe rinunziato a soffiare quali
che malignità su quanto accadeva nella casa del vicino. Non che la
sua mente sobria potesse mai giungere a concepire manco per sogno la
possibilità d’un amore simile; ma egli vedeva la cosa sotto un altro
punto di vista, e cioè vedeva che la figlia ultima dell’occhialaio
stava per divenire in femmina ciò che il primogenito era stato in
maschio. E comprendeva benissimo, lui, che facessero buona lega
insieme, que’ due caporioni, e s’aiutassero del loro meglio a
scandalizzare la gente per bene.
Oh, lo aveva detto in casa del Ferrante! detto e ripetuto ben forte!
«Ma sì! era proprio ad un uomo di quel genere che dovevano confidare
la loro ragazza! e una ragazza — senza farle torto — che di serio
non aveva nemmeno un capello. Perchè non le insegnavan piuttosto a
diventare una buona madre di famiglia? Altro che vestitini e ciprie e
gingilli e teatri e villeggiature! Anche le villeggiature adesso! Ma
sicuro, alla fine di Maggio, quando ancora non fa gran caldo — anzi, la
sera si sta meglio con il soprabito che senza, ed è il momento migliore
per la città, — alla fine di Maggio si sente il bisogno d’andare a
prendere una boccata d’aria sui laghi. Figuriámoci!... un viaggetto per
i luoghi e per gli alberghi eleganti, a imparare altri capricci, come
se non ne avesse abbastanza! Ma, già, quando si è ricchi!... quando si
può!... Il signor Arrigo, lui, di soldi ne ha a palate! Spende, spande,
viaggia, tiene appartamento e cameriere. Poverino! E perchè allora
non invita suo padre, o meglio sua madre, a vedere un po’ di lago, che
sarebbe tanta salute per lei? Nossignore! Invita la sorella invece; e
perchè? Perchè ha le «toilettes» eleganti, perchè va in giro come una
farfalla, perchè è una civetta, la signorina, e questo a lui piace,
si sa, a lui!... a quello sciupone! a quel borioso! La finisse con gli
scandali, e pensasse una buona volta a riparare i suoi malanni! O non
cercasse almeno di corrompere anche la sorella, che, scherzi a parte,
ne sapeva già più di Bertoldo! E lui, il vecchio, debole anche in
questo, come in tutto, debole fino alla viltà! Del resto, facessero poi
loro, che lui, Riotti, com’era suo principio, negli affari altrui non
desiderava mettere il becco...»
Ma Loretta non aveva pazienza con i suoi di casa; quando appena la
contraddicevano, dava in ismanie, dichiarando che intendeva esser
libera e vivere a modo suo. Finissero di seccarla una buona volta
per i suoi vestiti troppo eleganti, per i suoi cappellini ed i suoi
mantelli, visto che una ragazza dell’età sua non poteva già convocare
il consiglio di famiglia prima di scegliersi una camicetta!... Quindi
le facessero il santo piacere di non volersi mischiare anche delle
sue «toilettes», dal momento che non potevan nemmeno rimproverarle di
spender troppo, e ciò in grazia del suo buon gusto, della sua grande
abilità nel fare le compere. Che se poi Arrigo di tempo in tempo le
faceva qualche regalo, nessuno in fin dei conti aveva il diritto di
trovarvi a ridire. E volevano saper la ragione per la quale andavano
così d’accordo lui e lei?... Ma era naturale! Avevano gli stessi gusti,
e dopo tutto eran fratello e sorella. Inutile! non cercassero di far
di lei una bottegaia, perchè un marito dei loro non lo avrebbe sposato
mai. La lasciassero in pace! la lasciassero in pace! Quanto a lei,
saprebbe trarsi d’impaccio da sola. E finalmente anzi aveva deciso:
voleva studiare e diventar cantante. Questo le avrebbe servito almeno
ad esser libera.
Cantante!?... Il fratello Paolo ne scoppiò a ridere, d’un riso cattivo,
insultante. Lo andò a raccontare al Riotti, il quale, appena la vide,
cominciò con chiamarla Adelina Patti. Fece anzi un lungo e dettagliato
racconto d’una serata in cui aveva inteso la celebre cantante;
criticò la scuola moderna, la dizione moderna, la musica barbara e le
grottesche teorie dei wagneriani; poi spiegò tutti gli inconvenienti
che può incontrare una donna sul teatro. Ma poi concluse che, alla fin
fine, se questa era proprio la immutabile sua vocazione, si mettesse
almeno a studiare seriamente, perchè sul teatro, come in tutte le
cose, si riesce o non si riesce, ma quando non si riesce, poichè il
denaro occorre lo stesso, le donne per lo più arrivano a fare un altro
mestiere... E la voce? Ma sapeva lei quanto ci vuole per giungere a
trovare l’intonazione giusta? E le movenze? i gesti? la padronanza
della scena? Aveva dunque un’idea approssimativa dell’assiduità che
occorre per imparare tutto questo? Anni ed anni di studio! Poi bisogna
esserci nati sul teatro, od entrarvi molto giovani...
Secondo lui per Anna Laura era già troppo tardi.
In merito a questa gita, Arrigo ebbe dal canto suo qualche noia con
Clara Michelis.
Un vago sospetto cominciava oscuramente ad agitarsi nel suo cuore
attento e geloso. Ella pure aveva notate alcune circostanze fuggevoli,
senza valore per sè stesse, che potevano parer accidentali, ma che,
legate insieme da quel sottile intuito che ha la donna quando ama e
quando si sente minacciata nel proprio amore, finivano con darle una
strana chiaroveggenza sul cuore di Arrigo.
Ella pure trovava incomprensibile questa subitanea cura che l’amante si
prendeva de’ suoi doveri fraterni, e trovava strano che una ragazza di
vent’anni ed un giovine come lui se ne partissero insieme, senz’altro
scopo nè altra meta che di veder la primavera fiorire su le rive d’un
lago tranquillo.
Inoltre ella sapeva leggere in lui con singolare penetrazione, e da
qualche tempo lo vedeva mutato, cupo, irascibile, come se un funesto
pensiero si agitasse dietro la sua fredda impassibilità. Questi due
fatti, il suo mutamento e le sue premure fraterne, eran nati insieme.
Le rare volte che aveva potuto indurlo a parlare di Anna Laura, gli
occhi dell’amante non avevan osato più guardarla in faccia, s’eran
fatti obliqui e fuggevoli, s’eran empiti insieme di sospetto e di
lampi. Nella casa dell’amante aveva scoperta qualche traccia d’un’altra
visitatrice; nel suo letto stesso aveva sentito che quest’uomo non era
più suo, non era più di nessuna, tranne che d’un suo terribile nascosto
amore.
Ma egli era un violento, ella una rassegnata. Non potè impedirgli di
partire, anzi nulla confessò a lui de’ suoi dubbi angosciosi, e rimase
ad aspettarne il ritorno con il perdono su le labbra, la morte nel
cuore.
Ella non si vedeva, non si sentiva più giovine; la vecchiezza vicina,
questo ch’è forse il più terribile supplizio, la più irrevocabile
condanna per l’amore, le faceva comprendere che ormai ella doveva
solamente rassegnarsi e perdonare e patire in silenzio, perchè lottare
nè ribellarsi non poteva più. Arrigo era stato l’ultimo episodio nella
sua storia, e le donne forse non ricordano che due uomini: l’ultimo ed
il primo.
Ora che il sospetto era nato in lei, non aveva più pace. Si sentiva
sfiorire, mentre la giovinezza di lui splendeva più rigogliosa.
Quest’uomo, che aveva prima lottato per averla, ella poi lo aveva
conteso, lo contendeva ad altre con ogni mezzo, per tenerlo presso
di sè. Da dominatrice era diventata la sua schiava; perchè non si
stancasse di lei gli aveva permesso tutti i capricci, secondato tutti
i vizi; per essere la sua amante, s’era alienate molte conoscenze,
s’era veduta male accolta in qualche sala della più severa società;
per passare qualche lunga notte, fino all’alba, con lui, per sedersi
su le sue ginocchia e baciarlo, nella propria casa, quand’egli veniva
a trovarla, non s’era quasi curata dei testimoni domestici nè della
bambina che intanto cresceva e vedeva; perch’egli fosse ricco, si era
fatta più povera; avrebbe reso povera anche la sua bambina, che pure
amava, avrebbe fatto per lui qualsiasi altro sacrifizio, pur di non
perderlo, pur di riavere qualche volta i suoi violenti baci.
Ed ora si contentava di poco; sapeva ch’egli era giovine, che aveva
bisogno di vivere, ch’era un ambizioso, un uomo in balìa d’una sorte
precaria, e gli perdonava molte cose, troppe cose. Lo aspettava qualche
volta per giorni interi senza vederlo, ed allora le sue notti erano
insonni, ma lottava con disperazione contro la voglia di piangere
per non sciuparsi la faccia. Egli la tradiva spesso; e pur avendone
la certezza ella non osava ribellarsi nè muovergli alcun rimprovero.
Sapeva che i suoi amori eran fuochi di paglia, galanterie cui si dava
talvolta per capriccio, talvolta per opportunità, e rassegnatamente
aspettava di vederne l’ultime faville, le ceneri.
Ormai si contentava di poco, di così poco! Ch’egli venisse a darle un
bacio, la sera, prima del pranzo, e qualche volta restasse a tavola con
lei, o venisse dopo il pranzo, prima d’andare a teatro, senza nemmeno
togliersi il soprabito, senza ch’ella potesse baciarlo con piena
libertà, per non sciupargli la cravatta bianca, per non spettinare
i suoi capelli così ben ondeggiati. Si contentava d’andare qualche
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