Colei che non si deve amare: romanzo - 17

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anonimi che si trovano sempre in mezzo alla folla.
— Lo crede lei? — fece Arrigo, ironico.
— Ma certo!
— Lo ha giocato?
— Si capisce. Guardi: cinque biglietti del totalizzatore.
— Auguri allora!
E puntando il canocchiale si mise a guardare verso i nastri di partenza.
— Com’è nervosa quella bestia! Ho paura che parta male.
— Chi?
— Arianna.
Rafa, in quel mentre, vedendo Arrigo tutto rivolto verso i cavalli
partenti, cercava di parlar sottovoce a Loretta. Ma ella, dopo avergli
fatto qualche segno perchè smettesse, deliberatamente gli volse le
spalle, e, poggiatasi contro il fratello, si sporse in fuori onde
scorgere i cavalli.
— Ecco: partono! — esclamò Arrigo. — Poi súbito: — No, hanno strappato
i nastri. Partenza falsa. Peccato! Arianna partiva bene.
— E Missolungi? — domandò l’interlocutore, che, piccolo, senza scanno,
schiacciato tra la folla, non poteva puntare il suo binoccolo.
— Missolungi anche, — rispose Arrigo.
La partenza fu lunga e laboriosa; finalmente s’intese da più parti un
grido: Sono partiti! E il campanello squillò.
— Una partenza magnifica! — disse Arrigo. Loretta gli si era poggiata
sul braccio e guardava sopra la sua spalla.
Un sole in cui pareva scintillasse il pallido oro dei primi frumenti
si aperse un varco nel sereno e di nuovo inondò tutto il campo. Veniva,
davanti al manipolo volante, per la terra sonora, un rombo sordo.
Erano tutti in gruppo, a un’andatura velocissima, con Missolungi in
testa e Samaritana poi, i due francesi su l’ala, Arianna allo steccato,
Bloomy Boy in coda. Passarono in quest’ordine alle tribune, senza che
nessuno cedesse d’un palmo. Alla prima curva Bloomy Boy guadagnò tre
posti; all’altra curva il gruppo s’allentò un poco. Nel prato la gente
correva inseguendo i cavalli; nelle tribune era un gesticolar confuso,
un vociare altissimo. Missolungi era sempre in testa e galloppava con
lena. Questo nome già empiva l’aria.
— Dov’è Arianna? — domandò Loretta.
— È quinta; ma va bene.
— Come la vedi?
— La vedo; sta zitta.
Fontenay venne avanti; Gabriel gli serrò addosso; Bloomy Boy, che dalla
coda era passato nel gruppo di testa, non stava più che poche lunghezze
dietro Gabriel. Arianna invariabilmente teneva lo steccato, senza
perdere nè guadagnar terreno. Spuntavano già alla curva di destra, nel
fondo; la giubba chiara di Missolungi biancheggiava per prima, con
quelle de’ due francesi a ridosso, tanto vicine che parean confuse
in una, mentre Samaritana stava già per cedere. Bloomy Boy aveva
sorpassato Arianna, ma i tre primi, nella curva, li avevan un poco
distanziati tutt’e due.
— Missolungi è finito, — disse Arrigo, un po’ ansante perchè vedeva i
due francesi prevalere.
Gabriel infatti con forti lanciate stava per prendere la testa.
— Gabriel! — tuonò la folla, che li vide così sbucare dall’ultima
curva, in dirittura. — Gabriel! Gabriel!
— Come va Missolungi? — domandò il piccolo uomo, incapace di
estollersi, sopraffatto all’intorno da una specie di muraglia umana.
Arrigo non rispose. Fontenay cedeva, Gabriel era in testa nettamente,
Bloomy Boy a due lunghezze, Arianna e Versilia di paro. Si vide
Versilia, sotto una tempesta di scudisciate, buttarsi avanti,
pareggiare Bloomy Boy, minacciare il vincente. Fu un urlo discorde,
assordante, di due partiti che si combattevano:
— Gabriel! Versilia! Versilia!....
C’era nell’aria elettrica la sospensione di tutti i cuori.
Erano alle prime tribune, e Bloomy Boy cedeva, Versilia pareva ormai
incapace di contendere la vittoria al più robusto francese, benchè
assillata dagli urli de’ suoi partigiani, quando si vide Arianna, su
cui nessuno più contava, con una volata magnifica saettar fuori dal
gruppo, e frustata, e spronata, e portata di peso dal suo fantino,
assalire i tre primi, giungere con il muso alla coda di Gabriel. La
folla, che improvvisamente cambia idoli, negli ippodromi come nelle
piazze, non dette che un urlo frenetico: — Arianna! Arianna!....
— Vince! Vince! — gridò Loretta, piena di trepidazione, al fratello che
sentiva leggermente tremare.
Egli non rispose: voleva con la sua forza spingere la generosa bestia
sfinita.
Gabriel non aveva contato sopra quest’avversaria inattesa, credeva
per sè la vittoria e quell’uscita era stata così fulminea che s’era
lasciato avvicinare alla sprovvista. I due fantini battevano, battevano
a forza di braccia, di pugni, di sprone, per quel centimetro che li
avrebbe fatti vincere.
Mancavan pochi metri al traguardo, e Arianna stava ora con il muso al
ventre di Gabriel, alla sua spalla, al suo collo... era quasi con lui.
La folla ondeggiava burrascosa, urlando, acclamando. Non erano più due
cavalli, ma due razze, due paesi, due patrie in gara. Tutto il cielo
era ingombro di questo nome d’Arianna, che in quel momento suonava come
il nome d’Italia.
Sfiniti, quasi convulsi, il loro cuore d’animali da corsa, nobile come
un cuore d’uomo, li reggeva in piedi, li faceva lottare disperatamente
per quell’ultimo palmo di terreno.
Allora fu la potenza della folla che la portò, fu la spinta di quelle
centomila anime protese verso di lei, fu la volontà tremenda, immensa,
fisica, della moltitudine, che le fece fare nell’ultimo metro il
salto più lungo, che le fece avere nell’estrema tensione il più lungo
respiro, e forse perchè v’era nel suo nome un grido di patria, col suo
piccolo muso di gazzella, sul filo del traguardo, Arianna passò.
Una specie di delirio sollevò la folla; si vide gente correre, ballare,
invadere la pista, scender giù dalle tribune a precipizio, battendo le
mani, gridando.
Cavalla e fantino ritornarono tra un’ovazione di popolo.
E il piccolo britanno, dalla faccia arida, che non segnava un’età
definibile, curvo in sella, con la briglia rilasciata, passava in
mezzo a quel trionfo rasciugandosi nel palmo la bocca umida, il naso
grondante, e rispondeva con un semplice: «All right!» al suo rosso
allenatore, che aveva presa per mano la cavalla e carezzava sul collo
la bella saura balzana.
Il cuore le pulsava come un timpano sotto i fianchi fragili, rigati di
sangue; il sudore le gocciolava dal ventre come se le avessero buttato
un secchio d’acqua su le reni; le froge fumanti parevano fiatar sangue
e tutta le sue vene gonfie la vestivano d’una fittissima rete viva. Ma,
quasi comprendendo la sua vittoria, volgeva intorno la piccola testa
nervosa, allungava il muso candido, guardando la folla co’ suoi grandi
occhi di gazzella cerchiati di nero.
Terzo era giunto Bloomy Boy, quarta Versilia, quinto Missolungi.
Loretta, appesa giocondamente al braccio del fratello, si rallegrava
della sua vincita, ch’era d’alcune migliaia di lire, e domandava ad
Arrigo senza tregua:
— Sei contento? Sei contento? — mentre andavano a veder scendere i
fantini per passare il controllo della bilancia.
Ella era divenuta loquace, un poco impertinente; nella lor natura di
piccoli borghesi, tanto lei come il fratello non sapevan nascondere
il piacere che ad essi proveniva dal denaro vinto. E Loretta molestava
Rafa:
— Dunque lei non ritira nulla su Thermosiphon?
— Rida, rida, signorina! Mi burli pure! Una volta o l’altra le farò
veder io quel che si vince scommettendo su gli sfavoriti!
— Glielo auguro di tutto cuore. Ma quel povero Thermosiphon, spero che
l’avrà giuocato per l’ultima volta! Già, com’è possibile dare un nome
simile ad un cavallo da corsa? Io, se avessi un cavallo da corsa, lo
chiamerei....
— Come lo chiamerebbe, sentiamo?
— Non so, non ci ho mai pensato ancora, perchè tanto non ne ho.
— Bene, ci pensi.
— Ecco, ho trovato! — ella esclamò con malizia. — Lo chiamerei Rafa!....
Appena detto il nome, tutt’e due, tutt’e tre, ne rimasero come
atterriti, e Arrigo, volgendo la faccia, fulminò la sorella con uno
sguardo veloce.
Ella non seppe come nascondere la sua confusione. Poichè, infatti non
avrebbe dovuto nè potuto sapere che il conte Raffaele Giuliani da’ suoi
amici era chiamato Rafa.
Fu Arrigo che provvide ad accomodar la cosa.
— Come sai che il Giuliani si chiama Rafa? — domandò con naturalezza.
— Forse che per caso t’ho chiamato io così? — soggiunse, rivolto al
Giuliani.
— Ho inteso appunto che lo chiamavi tu con quel nome, e questo mi
ha fatto un po’ ridere... scusi sa, signor Giuliani! — ella rispose,
cavandosi d’impaccio con una squisita impertinenza.
— Ma io non me ne offendo affatto, signorina. Anzi mi chiami pur Rafa,
se vuole... Questo la divertirà!
Arianna, senza sella e senza briglia, con una cavezza di corda
intrecciata, usciva dal recinto del peso condotta a mano dal suo
palafreniere.


X

Ella incontrò Rafa due giorni dopo nel solito viale. Il Giuliani
aveva talmente insistito per rivederla, ch’ella, temendo qualche sua
temerità, non seppe rifiutargli un altro appuntamento. Arrigo non
le parlava più di lui, anzi pareva che volesse ad ogni costo evitare
questo penoso discorso. Ella indovinava l’oscura gelosia del fratello,
ma, per un crudele istinto femineo, le piaceva talvolta esasperare
in lui questa profonda irritazione. La giornata di corse, che aveva
costretto Arrigo ad una lunga e tacita sofferenza, era stata invece per
lei un godimento sottile. Ora la piaceva sentirsi avviluppata e contesa
fra il desiderio di due uomini, e ciò sopra tutto le piaceva, perchè
nella dura gelosia d’Arrigo vedeva più palese il suo violento amore.
Di questi due uomini, uno rappresentava il gioco, l’altro il pericolo:
due sensazioni che raramente vanno disgiunte. Al ritorno dall’ippodromo
Arrigo non le aveva mosso alcun rimprovero, non le aveva detto la
benchè minima parola intorno all’accaduto; s’era fatto solamente un
po’ scontroso, un po’ aspro. Ed ella, sebbene maravigliata, non osò
parlarne con lui.
Ma ora le premeva risolvere in un modo qualsiasi la sua malcerta
situazione con Rafa. Ora che una passione struggente l’aveva tutta
pervasa, continuar quel gioco le pareva inutile, più che inutile,
sommamente dannoso. E tuttavia, nel suo scaltro animo donnesco, nella
sua mente calcolatrice, le pareva peccato buttar via quella carta
senz’averne conosciuto e valutato il preciso valore, chiudersi dietro
le spalle una porta equivoca senz’aver prima guardato al di là.
Ora non pensava più di darsi a Rafa, nè per poco nè per molto denaro.
Quelle speciose teorie, que’ gravi discorsi, che lì appunto, in
quel giardino, gli aveva sciorinati con amabile serietà, quasi per
dilettarsi nel recitare una commedia, si erano a poco a poco infiltrati
nel suo cervello, ed anzi le pareva contenessero una incontrastabile
verità. Ma invece, quello che un giorno era stato appena un sogno, un
di que’ sogni assurdi che non giungon nemmeno ad invogliare la nostra
tentazione, tanto ci sembrano lontani da noi, ora, che la sua fiducia
in sè stessa era smisuratamente cresciuta e la vita le pareva più
facile, quel sogno inverosimile si riaccendeva come una possibilità
remotissima negli oscuri meandri del suo pensiero. Ella chiudeva in sè
un torbido amore, ma sapeva che questo amore non sarebbe la sua vita;
sapeva che questa sua disonesta passione avrebbe dovuto per sempre
nascondersi, vivere così profondamente rifugiata nel suo spirito, che
mai non fosse lecito ad alcuno indovinare il suo palpito. Ma, insieme,
c’era tutta una vita da vivere, tutta una conquista da tentare senza
esitazione, fosse pure a prezzo di qualsiasi frode. E in verità poteva
darsi che quel buono, quell’innamoratissimo Rafa, arrivasse un giorno a
commettere la più grande pazzia per lei, nè potendo altrimenti averla
si lasciasse trascinare fino ad offrirle il matrimonio. Chissà mai?
Ben altre, da una condizione minore della sua, eran salite più in alto
ancora. O, se questo pure non accadesse, bisognava tuttavia rompere con
Rafa quel mezzo legame ozioso e dannoso, sfuggirgli, dopo esser quasi
scivolata fra le sue mani, e lasciarlo perplesso, deluso, nei vincoli
d’un amore insoddisfatto, perchè, se caso mai ella s’avesse a pentire
della propria risoluzione, potesse in ogni tempo ritrovarlo qual era:
un uomo capace di gettare a’ suoi piedi tutto quanto può sedurre un
desiderio femminile, e comprarla, sia pure, ma comprarla sontuosamente.
Voleva insomma non perderlo per sempre, ma fargli tuttavia comprendere
quanto vana era l’insistenza de’ suoi tentativi.
Del resto il matrimonio non la seduceva oltremodo; era troppo giovine,
troppo curiosa di sensazioni, troppo ansiosa di piaceri, perchè la
famiglia, anche la più ricca, potesse avere molto fascino sopra di
lei. L’altra vita invece la tentava, quella che nessuna legge severa
governa, nessuna immutabile fedeltà, quella che miete nel piacere
come una falce instancabile nei prati più folti, quella che seduce il
frivolo cuore della donna con più forti allettamenti.
Aveva un suo recondito sogno: voleva cantare, essere un’artista,
libera, festeggiata, corteggiata, famosa... Di ciò non si era confidata
con alcuno, forse per una timida gelosia di fanciulla, ed anzi voleva
tacere, finchè non le paresse giunta l’ora propizia.
Da principio aveva sperato di trovare in Arrigo l’uomo che volesse
aiutarla nel compiere il suo grande sogno; era stata sul punto di
confidarsene con lui, ma s’era presto avveduta che Arrigo non le
avrebbe favorito quel disegno, ed ogni giorno più smarriva il coraggio
di parlarne con lui a cuore aperto.
Il solo che l’avrebbe ciecamente ubbidita, il solo che avrebbe potuto
con ogni mezzo appianare la sua difficile strada, era dunque Rafa, il
suo devoto e ricchissimo Rafa; perciò non lo voleva del tutto perdere,
allontanandolo da sè irremediabilmente.
— Siete stato un poco temerario!... — ella disse per prima cosa, quando
s’incontrarono.
— Ti sembra? Era la cosa migliore che potessimo fare. Ci pensavo
da tempo. Adesso che ti son stato presentato da tuo fratello, tutto
diventa più semplice.
— Non vedo la semplificazione, — ella rispose con tono canzonatorio,
poichè quell’uomo aveva talvolta il dono d’irritarla singolarmente.
— So invece che a momenti ci si tradiva, e mio fratello, dopo, m’ha
tormentata un bel pezzo per quel nome di Rafa!
Egli si mise a ridere.
— Dovevi stare più attenta.
— Già, si fa presto a dirlo! Ma io non ho l’abitudine di recitare due
parti in commedia. Meno male che non gli è rimasto alcun sospetto. E sì
che voi avete fatto il possibile perchè se n’avvedesse!
— Che ho fatto io?
— Mi siete stato sempre ai panni, anzitutto; poi, Arrigo non
poteva volgere il capo altrove senza che vi metteste a bisbigliarmi
sciocchezze. State all’erta, Rafa! perchè mio fratello non è un uomo
comodo... ve l’ho già detto.
— Sono disposto a rischiare tutto per te, Loretta!
— Ma io nulla per voi: ecco la differenza.
— Davvero?
— Proprio; e venivo a dirvelo.
— Cioè?
— Cioè debbo dirvi che a questo modo non è possibile continuare. Ho
paura; sento che corriamo incontro ad un pericolo molto grave.
Egli cercò di prenderle il braccio, amorosamente.
— No, lasciatemi, — disse Loretta sciogliendosi da lui. — Non posso far
altre pazzie. Ho commessa una leggerezza imperdonabile, ve lo ripeto,
ma spero che sarete così gentiluomo da non farne troppo ricadere il
peso e la vergogna sopra di me.
— Allora, tutte le volte che ti vedo, Loretta, mi accogli a questo
modo? — egli esclamò con una voce dolorosa ed umiliata.
— Ma cosa volete che faccia, santo Dio! Mi trovo io stessa in una
condizione insostenibile. Voi mi siete simpatico, Rafa, oserei dire che
vi voglio un poco di bene... certo non vorrei parervi brusca... ma voi
mi scrivete certe cose, mi costringete a certe cose, che io non devo nè
ascoltare nè fare. Insomma, ragionate un poco: io sono una signorina,
dopo tutto, una vera signorina, ed ormai lo sapete... Dunque il fatto
solo che mi trovi qui, con voi, è già un pericolo gravissimo; non vi
pare?
— In questo hai ragione. Ma perchè rifiuti allora tutte l’altre mie
proposte? Non vuoi vedermi altrove che in questo giardino, forse per
diffidenza, forse per paura....
— Certamente ho paura, non lo nego: paura.
— Ebbene, fídati una buona volta! La tua paura è insensata! Non sono
certo un uomo capace di atti brutali. Vieni almeno in un luogo dove si
possa parlare; qui non è possibile.
— E dove allora?
— Senti: ho l’automobile fuori dal giardino; vado avanti e ti aspetto;
andremo in un paesello dei dintorni.
— Ma no, ma no!
— Insomma, te ne prego! Per una volta, per l’ultima volta...
— Cos’avete a dirmi?
— Tante cose. Vieni, sii buona.
— Dov’è l’automobile? — ella fece perplessa.
— Al cancello, dietro le cascate.
— Bene, sentite: io verrò con voi, ma solo ad un patto...
— Quale?
— Che sia l’ultima volta, e poi non mi scriviate più, non domandiate
più di vedermi.
— Loretta!... — egli fece, supplichevole.
— No: assolutamente!
— Ebbene, ascolta. Se, dopo averti parlato, rimarrai nondimeno ferma
nella tua decisione, ti prometto che farò tutto quanto posso per
riuscire a dimenticarti. Va bene?
— Andate avanti, — ella disse, — vi seguirò.
Il giovine svoltò per un viale che s’infoltava tra gli alberi;
ella fece un lungo giro. Camminava piano, pensierosa, nervosa; con
l’ombrellino molestava l’erbe sul margine dei prati. Si trovava in
uno stato d’animo quanto mai perplesso. Nonostante le sue lunghe
riflessioni, ora non comprendeva più sè stessa, nè il fratello, e
non sapeva più che farsi di questo Rafa così devoto e così ricco. In
fondo al cuore ella si sentiva anche triste; l’amore la struggeva,
la malinconia saliva dal fondo del suo essere, causandole una specie
di lenta soffocazione. Il giorno prima era stata nella casa d’Arrigo,
perchè non poteva più rimanere senza vederlo; lo aveva trovato assorto
e quasi ostile. Non l’aveva baciata, non s’era lasciato baciare; aveva
cercato mille pretesti per mandarla via, e, vicino a lei, pareva su le
spine. Di Rafa non aveva neanche voluto udir parlare; le aveva detto
ruvidamente:
— Fanne quello che vuoi! Non m’interesso più di nulla.
Ed ella si era fatta mansueta, aveva cercato di carezzarlo, gli aveva
detto:
— Lo dovrò vedere domani: dammi un buon consiglio.
Allora egli s’era messo a ridere, d’un riso acre, malvagio, di cui
ella non poteva intendere il senso; poi si era messo a camminare per la
stanza, concitato, accigliato.
— Lo vedrai domani?
— Sì.
— Allora digli ch’è un imbecille! Al suo posto io t’avrei già presa.
— Perch’è parli così, Rigo? — ella gli aveva domandato con le lacrime
agli occhi. E lui a scrollar le spalle, senza rispondere. Poi l’aveva
pregata che se n’andasse, perchè gli doleva il capo e voleva rimaner
solo. Ma su l’uscio se l’era presa in braccio, se l’era stretta fra le
braccia, con passione, e l’aveva spinta fuori.
Più tardi, verso la sera, con il pretesto di chiedere una informazione
al padre, era venuto a casa loro, forse per vederla un momento, per
sorriderle un attimo, dopo essere stato così ruvido.
E s’erano baciati ancora, di nascosto, con più ansia, nella casa
paterna.
Ella non poteva comprenderlo bene. Forse lo struggeva una sciocca
gelosia di quest’uomo che in fondo ella derideva e sul quale faceva
un calcolo così diverso, così lontano dall’amore. Ma ell’avrebbe
rinunziato mille volte a Rafa, s’egli le avesse detta una sola parola!
E perchè non la voleva? Perchè faceva sopportare ad entrambi, con tanta
ostinazione, una sofferenza così logorante?
Dietro la cancellata vide l’automobile ferma; vi corse rapida, vi
entrò. Gli ordini eran già dati al meccanico: partirono in fretta.
Nel caldo pomeriggio le campagne sfavillavan come oro: la strada era
sovrastata da una ferma nube di polvere: i carri enormi, carichi
di mobili o di mercanzie, trascinati da molti cavalli in fila, ne
ingombravan il mezzo e si scostavan lenti, con un gran scricchiolare,
ai segnali della tromba. Quando un’altra automobile passava, rapida,
con urli di sirena, tutto, per un lungo tratto, s’annebbiava in un
folto polverìo, tutto: anche il sole.
Rafa le metteva un braccio intorno alla cintura, ella cercava di
respingerlo, ma debolmente; non era più nè loquace nè gaia.
— Vedete, — diceva, — non posso fidarmi di voi...
Egli ubbidiva e ricominciava.
— Andiamo lontano?
— Non molto.
— Ebbene, cos’avete a dirmi?
— Non ora; parleremo dopo.
— Ah, dopo...
— Sei triste oggi?
— Sì, un poco.
— Perchè?
— Per tante cose... tante cose...
— Raccóntami, Loretta.
— No, che serve? Tanto mi considerate per una ragazza molto leggera...
Sono qui con voi... ne avete anche il diritto!
Ella mescolava ora in un modo singolare, senza rendersene conto,
l’astuzia con la sincerità. Il giovine si chinò su lei, fin quasi a
baciarla.
— Non dire così, Loretta; sai bene che non è vero. Per te sento anche
un profondo rispetto: altrimenti non ti amerei.
— No, voi mi desiderate; questa è la parola giusta. Ma quanto ad
amarmi, è ben altra cosa; non mi fareste venire qui.
— Dammi ancora del tu, Loretta, come l’altre volte.
— Non oggi, non oggi!
— Allora non credi ch’io ti voglia bene?
Ella scosse il capo, incredula, sorridendo.
— Ne sei certa?
— Certissima.
Arrivarono in poco più di mezz’ora ad un piccolo villaggio, che
distendeva le sue case bianche nella grande pianura, percorso intorno
da un fossatello quasi arido, con le due rive coperte di fiori gialli,
tra l’erbe polverose.
L’automobile sostò nella piazza, ed uno sciame di monelli scamiciati
accorse intorno saltellando sui ciottoli a piedi scalzi. C’era un
piccolo giardino pieno di frescura e di pace a ridosso della chiesetta;
una raggiera dorata bruciava, percossa in pieno dal sole, sul
frontone della chiesa, e tanto splendeva, che pareva ruotasse; la casa
parrocchiale, dietro il verde, aveva le persiane delle due finestre
socchiuse; da una pendeva un lenzuolo, dall’altra una camicia di
percallo a righe bianche e blu. Un cagnaccio di color fulvo annaspava
lungo il muro.
— Vieni, — disse Rafa; — c’è un alberghetto in fondo al villaggio: vi
berremo il vin bianco.
— No; voglio andare in chiesa, — rispose Loretta.
— In chiesa?
— Sì.
— Bene, andiamo pure, se vuoi.
Il meccanico si recò all’albergo per attenderli; essi traversarono la
piazza, il giardinetto pieno d’ombra, e salirono i quattro gradini del
sagrato. Molti monelli rincorrevano la macchina fragorosa.
Non era tardi; s’udivano ancora tutti i romori del villaggio: i fabbri
martellare, i falegnami piallare, le tessitrici muovere i telai. Un
bambinotto vestito da chierico leggeva un libro seduto all’ombra nel
giardino. Li guardò e non si mosse. Sotto l’arco luminoso della porta
maggiore si vedevano ronzar sciami. Entrarono. La chiesa era povera,
ma religiosa e chiara come l’anima d’un seminatore; dalle alte vetrate
pioveva il sole scomposto in polvere bionda. Solo una vecchia donna,
confusa nell’ombra dei colonnati, pregava col volto fra le mani; ma era
così ferma, così genuflessa che pareva una suppellettile della chiesa.
La fanciulla intinse la mano nell’acquasantiera e si segnò, piegando
leggermente il ginocchio. Una goccia le rimase su la fronte, nitida
come una perla. Poi girarono tutt’intorno all’abside guardando i quadri
della Passione di Cristo.
L’aria fresca odorava d’incenso evaporato.
— Perchè hai voluto entrare in questa chiesa?
— Un capriccio.
Ell’andava innanzi con un passo elastico, quasi per non far rumore;
la sua ombra s’allungava obliqua sul lucido pavimento. Piegò di nuovo
il ginocchio passando innanzi all’altare, poi sedette sovra un banco,
nell’ombra del colonnato, e si raccolse la fronte nella mano.
Il Cristo crocifisso riscintillava della sua corona d’argento.
— Ed ora che fai? — domandò Rafa.
— Niente. Mi piace.
Egli s’appoggiò alla colonna presso di lei, un po’ curvo.
— Amo le chiese, — disse Loretta — e i canti e gli organi delle chiese.
Rafa la guardò a lungo, poi disse:
— Come sei strana!
Ella gli sorrise levando la faccia. I suoi capelli biondi, in quella
luce bionda, parevano luminosi e davano alla sua faccia, al suo
sguardo, un’espressione spirituale.
— Dimmi qualcosa... — ella mormorò come se fosse turbata.
Il giovine le sedette accanto.
— Qui vuoi che ti parli?
— Sì, mi piace.
Egli le si mise vicino, così vicino che la toccava.
— Senti... — prese a dirle; ma súbito esclamò: — Non è possibile! Non
posso parlarti di queste cose ora.
— Perchè? — fece Loretta con un sorriso perverso.
— Non posso.
— Allora taci.
E si raccolse di nuovo la fronte nelle mani.
Egli si accendeva della sua bellezza, nel guardarla. Tutto gli piaceva
di lei: la mano, il braccio, il colore dei capelli, la schiena divisa
da un’infossatura profonda, il petto che le fioriva tra le braccia
piegate. E l’odore di lei lo stordiva come il profumo di un incenso
irreligioso.
— Io ti voglio avere... — le disse piano, quasi non potesse frenar
quelle parole. E glielo ripetè vicino all’orecchio minuscolo, che le
appariva tra i capelli, come un piccolissimo nido in un cespuglio.
— Come? — domandò la fanciulla senza muoversi.
— Tutta, tutta, in ogni modo!...
Ella, senza muovere il capo, gli volse in faccia gli occhi ridenti.
— È difficile!... — disse con ironia. E le mani congiunte, concave,
serbarono come impressa la forma della sua fronte.
— Lo so, — egli rispose, — ma non importa.
Fece una pausa, poi soggiunse:
— Dimmi: cos’è necessario ch’io faccia per averti?
Ella rideva, la sua bocca era crudele.
— Molte cose... — disse. E ripetè con una cantilena: — Molte cose...
— Per esempio?
— Lo devi sapere tu.
— No, dillo.
— Io non dico nulla.
E si nascose la faccia nelle mani congiunte.
Un raggio di sole, dall’invetriata, cadde sull’organo, lo illuminò.
In quella chiesa era una pace così grande che l’anima vi si riposava.
Lento, accidioso, nel fondo, si udiva il biascicare della vecchia
inginocchiata.
— So una storia... — mormorò la ragazza intrecciando le dita.
E rideva.
— Ah, sì?
— Una bella storia...
— Ah, sì?
— Ma non la racconto.
— Allora perchè la sai?
Ella si prese fra i denti minuti un de’ suoi labbri fini e rossi:
— La storia d’una bambina, che andava al mulino, per prendere farina,
tutte le mattine... una bella bambina. — E cantilenava come se
raccontasse una fiaba.
— E poi?
— ... per istrada la vide un peccatore...
— E poi?
— ... che le offerse di portarle il sacco, perchè la strada saliva,
saliva, e c’era un bosco a mezza via, tutto verde, con un ruscello
d’argento.
— E poi?
— ... ma il peccatore la voleva baciare, ed ogni momento le toccava le
mani, le braccia, la bocca, il mento, la gola, senza darle pace. Ma la
bambina disse: Non stamattina.
— E poi?
— ... anche domani disse: Non stamattina.
— E poi?
— ... anche dopo domani disse: Non stamattina.
— E poi?
— ... poi, un giorno ch’erano seduti presso un ruscello d’argento
a prendere il fresco, la bambina disse al peccatore: Portami un
bell’anello se mi vuoi.
— Allora?
— Il peccatore venne il giorno dopo con una collana di perle, con
un fermaglio d’argento, con uno specchio d’oro. Ma la bambina disse:
Portami un bell’anello se mi vuoi.
— Allora?
— Il peccatore venne il giorno dopo, e le promise un castello, un
giardino, un lago, una foresta, un fiume. Le promise molti cófani
pieni di gioielli, molte guardarobe piene di broccati, un letto d’oro,
un’arpa d’oro, una scuderia con cento cavalli... Ma la bambina disse al
peccatore: Portami un bell’anello se mi vuoi.
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