Colei che non si deve amare: romanzo - 02

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di abbandonarsi ad un’altra follia... E così avvenne. Andarono a casa
quella sera, stretti stretti, in una carrozzella con le ruote di gomma,
sotto il cielo che stellava...
Mercedes la bruna era una donna elegante: per lei bisognava giocare di
più, perdere di più; furono malanni gravi. Al termine di qualche mese
Arrigo dovette confessare al padre un debito, anzi molti debiti, che
facevan insieme una sommetta rotonda. Il poveraccio non li aveva. Ne
ammalò. Non li aveva insomma! Inutile gridare, minacciare tragedie!
inutile mettere di mezzo la madre, che si teneva sempre in tasca le sue
lacrime di coccodrillo! Non li aveva, nè poteva già far stringhe della
sua pelle o vendere la bottega. Appunto quell’anno aveva l’intenzione
di ampliare il negozio, povero vecchio Stefano!... Invece, dando tutte
l’economie, appena appena avrebbe raggranellato insieme la metà di quel
che occorreva. Fu Arrigo stesso che gli diede un cattivo consiglio:
— Domanda il resto al Riotti. È sempre fra i piedi; si renda utile
almeno, quando può!
— Al Riotti? Un brav’uomo, sì, non lo nego, ma, lo sai, è avaro. Fiato
sprecato. Umiliazione inutile. Neanche se ci vedesse morir di fame...
Prestare, metter mano alla borsa, non entra ne’ suoi principii.
E Arrigo: — Non si sa mai. Tentare non nuoce. Si tratta d’un prestito,
in fin de’ conti, e con un buon interesse lo si potrebbe forse
persuadere. Già, tu non vuoi per orgoglio. Ma quando si tratti di
salvare il proprio figlio, l’orgoglio lo si mette via!
Donna Grazia fu di questo parere, e tanto l’accerchiarono, tanto lo
spinsero, che il povero Stefano curvò ancora la testa, prese il Riotti
a parte e fece la domanda.
Costui scoppiò in un riso formidabile, un riso così enorme, che
tutta la corte l’udì. Ma davvero?... Che lui, proprio lui, Riotti,
avesse a sborsare un millesimo per i debiti di quel farabutto, di
quello scalzacane?... E rideva, rideva a crepapelle. Gli pareva
davvero inverosimile che lo credessero capace di una tale generosità.
Gl’interessi?... Ma non faceva mica l’usuraio, lui!
Il Ferrante se ne tornò via, col suo passo lento, a capo chino.
Ma questa cosa piaceva tanto al farmacista che venne in bottega
dell’occhialaio un’ora più tardi per farci sopra un po’ d’ironia.
«L’onore — spiegò il Riotti — è ben altra cosa che non s’intenda
nelle bische o nei postriboli: ci son debiti che vanno pagati, altri
no. Se lui, Stefano, voleva rovinarsi per le cattive azioni di suo
figlio, padrone, padronissimo! Ma che avesse pensato a rovinare anche
lui, questa era proprio madornale! Oh, intendiamoci: i denari lui li
aveva e gli sarebbe costato anche poca fatica andarli a prendere... Ma
rendevano già bene dov’erano e per una inezia di più su l’interesse
non valeva certo la pena di metterli a repentaglio. In tutt’altra
occasione si sentiva uomo capace di fare qualsiasi sacrifizio per un
amico, — ma non voleva incoraggiare il vizio con le proprie liberalità.
E poi, vediamo: quali garanzie potevan offrirgli per il suo denaro? Si
fa presto a dire l’otto per cento! Ma su cosa poi? Su quattro stanghe
d’occhiali d’oro e qualche lente convessa? Eh, cápperi! Gli affari si
trattano in ben altro modo. Del resto era stato uno scherzo, ed egli
avrebbe avuto la delicatezza di non parlarne più.»
Invece ne parlava ogni momento e finì con darli. Vi mise un poco di
buon cuore ed un poco d’avarizia, perchè un uomo non è mai cattivo
interamente nè interamente buono, mentre ha sempre paura di nuocere a
sè stesso nel far del bene al suo prossimo. Aveva una certa affezione,
lui, persona autorevole, lui, uomo di scienza, per quella gente da
nulla capitata lì vicino; voleva bene a quel timido occhialaio come
ad uno di quei decrepiti cani infermi che si tengono in casa per
misericordia, e donna Disgrazia gli sarebbe forse piaciuta, una volta,
gli sarebbe forse forse piaciuta ancora, se lei... Ma sopra tutto aveva
un non so che per quel discolo prepotente e sfacciato, ch’era sempre in
mezzo alle sottane, sempre intorno alle tavole da giuoco, sempre pieno
di debiti, e che, per quanto a lui desse un insopportabile fastidio,
doveva pur suonare con una certa maestrìa se tutti gli abitatori della
casa d’un tratto si affacciavano alle finestre non appena l’udivano
appoggiar l’archetto sopra il suo maledettissimo violino...
Su di lui anzi aveva già formato un suo piano recondito, ma nessuno al
mondo ne doveva saper nulla, per ora...
E ciò che forse lo tentava più di tutto era la prospettiva di poter
finalmente entrare in quella casa come un despota, come un arbitro,
come un donatore. Finalmente avrebbe parlato lui, a quattr’occhi,
senza peli su la lingua, con quel tomo che non ascoltava nessuno, e si
vedrebbe infine cosa volesse dire sentirsi uomo! Dava, e in fondo senza
rischiar nulla, poichè Stefano era galantuomo; per di più si creava
intorno una specie di vassallaggio con la forza del suo denaro, ed
avrebbe potuto trattarli tutti come tanti suoi domestici, se così gli
fosse piaciuto, da quel giorno in poi.
Arrigo si sottomise a tutte le condizioni che gli vennero dettate,
messo com’era con le spalle al muro. E le condizioni furono che andasse
a passare con la famiglia i venti giorni di villeggiatura de’ quali
ogni anno l’occhialaio soleva provvedere a’ suoi di casa; ma che,
non appena tornato in città, rinunziasse alla sua vita indegna per
accettare un impiego qualsiasi, trovatogli dai padre, o dagli amici del
padre, o da lui stesso, Riotti, in persona.
Arrigo disse di sì, risoluto a mantenere almeno la prima delle sue
promesse. Venti giorni di villeggiatura, con quel caldo della prima
estate, gli avrebbero riposato i nervi, lo spirito ed il corpo,
lasciandolo finalmente dormire in pace dopo tante notti vegliate con
affanno su la crudele ambiguità delle carte.
Poi, la sera, sovra un balcone semibuio, tra una ventata di buoni
odori, avrebbe suonato con passione, con perdimento, il violino,
pensando in quelle veglie d’estate alla dolce bocca rossa di Mercedes
la bruna...


IV

Donna Grazia faceva i bauli; Stefano, dopo aver chiusa la bottega,
fumava una certa sua pipa di schiuma, complicato e raro gioiello
ch’egli serbava per le delizie del dopo cena. Luisa, la secondogenita,
una ragazza sui diciassette anni, dalle fattezze un po’ dure ma con
il corpo snello, ne stava sotto il lume ultimando un suo ricamo di
cattivissimo gusto. Ricamava in fretta, con le dita agili, la faccia
intenta e china in un cerchio d’ombra. I suoi capelli grevi e lisci,
annodati con semplicità come quelli di un’educanda, le giravano intorno
alla nuca, intorno alla fronte, con una specie di pigrizia, come se
li avesse pettinati così per abitudine, senza neppure guardarsi nello
specchio.
Era infatti una ragazza pigra, quieta, un poco marmottona, che in
inverno amava i cantucci presso il fuoco, gli sciallini di lana, poichè
aveva le spalle sempre infreddolite; una ragazza che amava l’ago, il
refe, la macchina da cucire, e se ne stava in cucina volentieri a veder
bollire le pentole, come parimenti sapeva, con un prematuro istinto
materno, cullare i marmocchi in fasce quando cominciavano a strillare.
Paolo, il fratello, minore di lei d’un anno, e che ora, da qualche
mese, frequentava un laboratorio per imparare il mestiere del padre,
adesso era intento ad acuminare col temperino un piuolo di legno per
costrurre una sua certa scatola ad intarsio ed a fuoco, lavoro di cui
dilettava per solito la sua digestione lenta. Era un bimbotto semplice,
dai capelli rasi sur cranio rotondo, di carattere attento, di natura
sobria.
Anna Laura, la più piccola, che aveva dieci anni a quel tempo,
era sopra con la mamma, a chiacchierare senza tregua, a far celie,
a mettere il suo nasino impertinente in tutte le cose che non la
riguardavano affatto.
Entrò il Riotti, al quale dopo il desinare s’infocavano le guance ed
il naso, benchè cercasse di mangiar poco per non aiutare una molesta
pinguedine; entrò con un risolino affabile, dondolando il corpo
maestoso su le gambe tozze, e subito la Luisa, interrompendosi dal
ricamo, gli versò quel solito bicchiere di vin spumante ch’egli si
centellinava piano piano, discorrendo col suo tono autorevole, senza
nascondere qualche largo sbadiglio di tratto in tratto. Narrò d’una
vicina, che aveva mandato a chiamare il medico lì per lì, essendo
prossima a sgravarsi e temendo un parto difficile.
— Queste benedette donne del giorno d’oggi!... non sanno più nemmeno
partorire! Figurátevi che mia moglie, tre giorni dopo l’Eugenia, era
in piedi e sgambettava. A proposito dell’Eugenia, avrei quasi una mezza
intenzione.... Visto che andate in campagna, mentre qui si scoppia dal
caldo, ve la confiderei per qualche giorno, se la cosa non v’incomoda.
— Ma, — obbiettò Stefano — sai bene che non avremo posto.
— Oh Dio, — fece il Riotti, — dove si sta in cinque si sta pure in sei.
Vediamo un po’: l’Annetta può dormire con la mamma, e facendo mettere
un altro letto in camera della Luisa tutto s’accomoda, mi pare. Ma se
deve essere un disturbo, — aggiunse con dignità — sia per non detto e
grazie di tutto cuore!
— Per me... — rispose Stefano mansuetamente. — Io tanto me ne resto
qui. Bisogna che tu te l’intenda con mia moglie.
Donna Grazia non l’aveva in grazia quella figliolona del farmacista,
grassa, inerte, insipida, che si girava sette volte la lingua in bocca
prima di lasciarne cadere una sillaba. Il Riotti arricciò il naso e gli
venne fra la barba corta quella cattiva piega ch’era il segno evidente
del suo malumore.
— Non voglio chiedere favori a nessuno! — disse con una specie di
sibilo. — Se non desiderate prendere con voi mia figlia, ho dieci altri
amici che ne saranno invece onoratissimi.
Stefano aveva qualche volta quella irritante caparbietà del silenzio
ch’è peggiore di una cattiva risposta. Se ne stette zitto ed il Riotti
s’inviperì.
— Del resto, va bene! — mugghiò. — Agli amici si ricorre quando se ne
ha bisogno, dopo si mandano al diavolo. Così va il mondo e non c’è da
farsene maraviglia. Per tua regola, però, non intendevo caricarvela su
le spalle a vostre spese; avrei pagata la mia parte, perchè ci tengo —
io! — a non dover nulla a nessuno.
Nonostante l’allusione terribile, s’accomodarono da buoni amici e
l’Eugenia andò in campagna con la famiglia del Ferrante, poco lontano
dalla città, in una rustica villetta che apparteneva ad un vinattiere
del sobborgo, fattosi ricco a furia di misturar vino ai clienti e
fornir denaro clandestinamente agli usurai della città. Ma era in fondo
un buon diavolo, e per amicizia verso l’occhialaio gli aveva ceduto
quattro o cinque stanze ad un prezzo assai mite.
Questa Eugenia era d’indole assai diversa da quella del padre, ma
fisicamente tanto gli rassomigliava quanto una ragazza di vent’anni può
somigliare ad un uomo di cinquantatre. I suoi vent’anni le fiorivano
indosso, scempi ed aperti come papaveri di campo, prendevan su la
sua gota fresca un colore quasi paonazzo, le rompevano fuori dal
corsetto con una rotonda esuberanza di seni. Era del resto bonaria e
semplice; aveva i capelli d’un color castano scuro, pettinati con la
riga nel mezzo come le nutrici lombarde, i denti bianchi e forti, la
cintura larga, le mani ed i piedi un po’ grandi. C’era in lei qualcosa
d’incerto fra la bella contadina, la massaia diligente e l’educanda
timida. Parlava poco e rideva molto; aveva una fame insaziabile ed una
passione vorace per i romanzi d’amore. Da molto tempo, nel suo cuore
nascosto, nudriva un tenero per Arrigo; una di quelle passioncelle
dolci e quiete che scorron via come ruscelletti, senza far rumore.
Trovava Arrigo molto bello, molto elegante, e l’amava sopra tutto per i
suoi malanni.
C’era intorno a lui quel sapore di vizio che non manca mai di turbare
le fanciulle, ancor più se hanno il cuore onesto. Aveva inteso parlare
della Mercedes, della famosa Mercedes la bruna, nome che le sorelle
d’Arrigo pronunziavano con un ambiguo rossore; e per lei, l’uomo
ch’era l’amante di Mercedes, una donna tutta pizzi gioielli e profumi,
una canzonettista, una «cocotte»... — oh parola enorme che le faceva
sognare! — quell’uomo per lei possedeva, come gli eroi da romanzo,
qualcosa di magico, una specie di bellezza fatale che intorbidava di
sogni la sua curiosa verginità.
Ella forse non lo avrebbe amato mai, se il padre stesso non le avesse,
per un capriccio, suggerito, educato e comandato questo amore. Il
farmacista s’era fitto in capo di maritare sua figlia col primogenito
dell’occhialaio: nulla poteva ormai distoglierlo da questo progetto,
nemmeno la certezza di rendere infelice sua figlia. Era fra quegli
uomini cocciuti che abbracciano senza riflettere un’idea, e quanto più
essa risulti cattiva, tanto più vi s’incaponiscono.
Arrigo invece non si curava di lei. Aveva indovinate vagamente, come
tutti in famiglia, le mire del farmacista; ma con la ragazza parlava di
rado e sempre con aria di compatimento.
Ora, per distrarre i lunghi ozî campestri, s’era messo a far la corte
ad una marchesina che abitava una villa nei dintorni: corte per modo di
dire, che cioè la saettava d’occhiate amorose ogniqualvolta la vedesse
per il cancello del suo giardino o l’incontrasse la domenica in chiesa,
dov’egli andava azzimato come uno zerbino.
Ma fosse la lontananza della Mercedes o il calor dell’estate, gli
cominciò a bruciare nel sangue un’accensione voluttuosa, che non gli
dava pace, sopra tutto nelle calme sere, quando veniva dal balcone
aperto, sopra il suo letto insonne, un odor forte di rosai che
vampavano, di caprifogli che sfiorivano, come grandi profumiere che
bruciassero nella notte d’estate.
La sua camera era contigua con quella ove dormivan insieme l’Eugenia e
la sua sorella maggiore; un uscio mal connesso le divideva; s’udivano
tutti i rumori.
Una sera, mentre stava sul balcone fumando una sigaretta prima di
coricarsi, e pensava con una triste gelosia alla Mercedes, alle sue
belle brancia bianche, vôlto che si fu, poichè non v’era lume nella
sua camera, vide filtrare alcuni spiragli di luce per le connessure
dell’uscio e intese lo strepito che facevano le due fanciulle
svestendosi e cicalando.
In quella calda sera d’estate il suo sangue ribolliva di ardori
contenuti, la sua testa era torbida e greve. Mai come in quella sera
aveva respirato con l’anima e coi sensi la fragranza delle rose, gonfie
di rugiada, il profumo intenso dell’erbe aromatiche. In quel piccolo
giardino, tra il buio e la luce, nascostamente serpeggiava un tremor
di vita, un fervere di sussulti notturni, che lo facevano trasalire.
Facilmente si trema talvolta per un rumore che nella notte sembri un
congiungimento d’esseri o di cose.
A poco a poco, in quell’ombra si accesero nudità, fiammarono, si
contorsero, giacquero supine. I capelli bagnaron nelle fontane, i seni
erti s’imperlarono di gocciole vive, le braccia stanche si allentaron
nell’erba rinfrescata. E sentì l’odore di quei corpi salire a lui come
una vampa, nell’odore delle piante aromatiche.
Poi vennero ancora più altre, ch’egli aveva baciate con febbre nei
torbidi sogni dell’adolescenza, e il giardino si converse in un
letto, in un letto molle, profondo, su cui correva come un brivido la
fragranza de’ rosai, cadeva il pòlline di certe grandi rose gialle,
vellutate, quasi bianche, rotonde quasi, come seni gonfi e maturi.
Ed una musica venne, su dalla fontana, che fece tornare le donne
ignude alla fontana, e si chinarono per specchiarsi, ridendo d’un
riso lascivo; e nel chinarsi le loro poppe oscillavano come grappoli,
tutt’intorno, quasi con un tintinno di carne molle, piano piano,
come se danzassero, tutt’intorno, con un tintinno, sopra il riflesso
dell’acqua insidiosa....
Di là, oltre l’uscio, intese il rumore dell’acqua versata in un catino.
Entrò nella camera un po’ ebbro; intese un rumore di pianelle, o gli
parve, di sottane, o gli parve.... Non ricordò nemmeno chi fosse, ma
volle guardare; guardò.
Una — la sorella — era davanti allo specchio e si pettinava. L’altra,
un po’ curva sul catino, si lavava le mani. Erano semivestite ambedue.
Luisa, con il busto ancor serrato ed una sottanella corta che le
copriva le caviglie, teneva le braccia sollevate dietro la nuca,
girandosi con una mano la treccia e con l’altra puntandovi qualche
forcina. Egli vedeva le sue spalle rotonde fare una bella piega di
carne intorno all’orlo del busto cilestrino ed il volto sorridente
riflettersi, con un pettine fra i denti, nello specchio incline. Mai la
sua semplice sorella gli era parsa leggiadra così.
E l’altra, egli la vedeva di pieno, con le rotonde braccia quasi
tuffate nel catino, avendo riflesso nel volto il piacere dell’acqua
fresca sul calore della pelle trasudata. Non aveva più che la camicia
indosso, la camicia da giorno, scollata, non tenue, ma che traverso la
luce delineava con mollezza i contorni della persona opulenta. Vedeva
l’acqua luccicante scorrere giù in rivoletti per le braccia grasse,
vedeva il seno florido espandersi mollemente ad ogni oscillazione del
corpo, vedeva i duri capezzoli sbocciare, quando s’alzava, come ghiande
sotto la camicia tesa.
Non molto si lisciarono. Una, la prima, se n’andò verso il letto; con
le mani riverse dietro la schiena slacciò il copribusto leggero, le
mutande gonfie; con le mani un po’ irose contro la resistenza degli
uncini disfece il busto che conteneva la snella ricchezza del suo
corpo e si strofinò con le palme, sopra la camicia un po’ arricciata,
da pelle solleticosa. Poi si fece passare sopra il capo la camicia da
notte, lunga e chiusa come una tunica, lasciò che l’altra di sotto
le scivolasse ai piedi, sedette su la sponda, incrociò le gambe per
togliersi le scarpine, le calze, poi, frettolosa nel suo timore, si
cacciò sotto il lenzuolo.
Ma colei ch’era sopra il catino, amava più indugiare. Tuffò nell’acqua
la faccia, e quando la trasse gocciolante, rise, parlò. Si mise a
camminare per la stanza, rasciugandosi. La sua pelle riceveva dallo
strofinìo del lino un più vivo colore. Ora egli la vedeva interamente,
in quella corta camicia che scopriva i polpacci tozzi, le caviglie
un po’ grosse. Vedeva la forma rigogliosa della sua carne piena di
tremolii, di curve. Andò alla pettiniera e s’incipriò le braccia, il
collo. Certo non pareva così raffinata e lisciarda com’era, quella
calma Eugenia! Fece un giro per la camera, trascinando le pianelle di
panno, lasciò calare una cortina, distese la gonna su gli appoggiatoi
d’un seggiolone, poi trasse il pettine dal nodo dei capelli, e le
trecce caddero giù per le spalle, in disordine. I suoi capelli non eran
lunghi, ma folti; in quella luce parevano quasi neri. Allora li prese
tutti in un pugno, se li fece passare sovra una spalla, li contorse,
e legatili nel mezzo con un nastro, li ricacciò indietro. Rideva; era
contenta di sentirsi libera e rinfrescata.
Parlarono.
Colei ch’era nel mezzo della camera domandò alla compagna, ch’erasi
coricata:
— Vuoi già dormire?
L’altra stirò le braccia voluttuose, le gambe già pigre, diede un lieve
sbadiglio e con la voce piena di sonno rispose:
— No... ancora non vorrei dormire.
L’Eugenia andò verso il proprio letto, ch’era vicino all’altro,
raccolse la camicia da notte stesa su la coltre e vôltasi al letto
dell’amica la buttò di traverso sul corpo di lei che giaceva.
— Come diventa liscia la pelle con un po’ d’acqua ed un po’ di cipria!
— disse alla Luisa. — Tocca.
Ella trasse dal lenzuolo un braccio, e poichè la manica troppo larga
le si era in quel movimento ripiegata fin sopra il gomito, col mezzo
braccio ignudo toccò il braccio dell’altra, che le stava presso. E
lungamente lo toccò, soavemente, con una specie di delizia, con un
semiriso di piacere.
— È vero, — fece. Carezzò di nuovo: — È vero. — Poi chiuse gli occhi.
— Tu hai sonno, — disse quella che amava indugiare.
L’altra riaperse gli occhi e rispose:
— Anzi non ho sonno. Discorriamo, se vuoi.
Pigramente l’Eugenia slacciò i bottoni che le tenevan la camicia
su la spalla, ed appoggiatasi contro la sponda del letto perchè non
scivolasse interamente, se la lasciò cadere fino alla cintola. Il corpo
ne sbocciò fuori come una pannocchia dal cartoccio.
Ora le sue reni profonde, poco arcate, larghe, apparvero intere a
chi guardava. E i fianchi troppo robusti apparvero, e di scorcio
la tondezza del ventre, il dondolìo di quei due seni grandi, un po’
cascanti, quasi sciupati. Con le due braccia incipriate se li accarezzò
lentamente, poi li contenne, sollevandoli, non nei palmi delle mani ma
sui polsi e su gli avambracci. Rideva e guardava l’amica, tra sfacciata
e confusa.
— Un po’ troppo?... — interrogò.
— Forse... — disse l’altra. E risero.
— Tu, meno assai...
— Sì... — Ma per pudore si rannicchiò nel lenzuolo.
Tuttavia la curiosità di quel discorso e di quella vista la pungeva.
— Mi hanno detto che si può dimagrirli, e indurirli... Sono un po’
molli...
— Ah, sì?...
— Tocca...
— Ma no... — fece, con un riso, la più timida.
— E perchè?
Ella sporse la mano, toccò quasi con timore, in fretta, l’uno, l’altro,
le punte, poi ritrasse la mano come scottata.
Allora l’Eugenia aperse pian piano, dal basso, la camicia da notte,
e vi si cacciò dentro come in una fodera, raccolse dallo scendiletto
quella che aveva lasciata cadere, la buttò sopra una seggiola, e piano
piano, facendo scricchiolare le molle, si distese a giacere.
Si volsero l’una verso l’altra, sotto i lenzuoli, e risero.
— Tu non pensi mai?... — fece l’Eugenia; poi s’interruppe.
— A cosa?
— Al desiderio di avere un marito...
— Oh... sì...
Poco dopo spensero il lume.


V

Quando, il giorno seguente, Arrigo rivide l’Eugenia, l’avvolse tutta
in uno sguardo lento, iroso, lascivo, di cui la fanciulla si sentì
turbata. Egli la rivedeva com’era la notte innanzi, ritta e nuda, con
le due braccia ricolme de’ seni gonfi. Ed aveva subitamente concepito
sopra di lei un pensiero avido, che non gli si staccava dal cervello.
Cominciò a farlesi attorno, carezzevole, audace, prendendole qualche
volta una mano, se la sorprendeva in una stanza o nel giardino, sola.
Ed ella si faceva rossa, cercava di schermirsi con una sorridente
ritrosia, bruciando insieme dal desiderio ch’egli osasse ancor più.
Tutti i romanzi d’amore letti con tanto fuoco le risalivan ora nella
fantasia. Il suo calmo e pudico desiderio aveva qualche momento di
perdizione.
Una volta, in un angolo buio, Arrigo la baciò; e vi era in quel
suo bacio tanta violenza torbida che la fanciulla se ne sentì come
sopraffatta. Anche a lei l’estate metteva nelle calde vene un male
indefinibile. Ora lo seguiva, lo cercava, temendo ch’egli se ne
avvedesse, temendo che quella sua bella e rossa bocca le potesse dare
un bacio più forte, il più forte bacio... Sentiva nascere il peccato
in sè con uno sfinimento ch’era come una morte voluttuosa. E cominciò
dalle piccole colpe, con lui, ch’era un maestro lento e paziente, un
tentatore pieno di temerità.
Seppero l’odore dell’erba calda, dietro i cespugli, la mollezza
della riva del fiume, e s’incamminarono sotto il sole, per la strada
polverosa, verso il bosco taciturno. Poi, una sera, egli le disse per
le scale:
— Vieni da me.
Ella attese, attese; attese che l’amica dormisse, che il campanile
suonasse nella notte un’ora inoltrata, che la luna compisse un mezzo
giro per la camera, che tutti i mobili avessero scricchiolato nel
silenzio, facendola sussultare... si volse, si rivolse nel letto,
volle, non volle, fredda, sudata, attenta, paurosa, tesa come una corda
vibrátile... poi scese piano piano, tutta tremando, a piedi scalzi... —
e v’andò.
. . . . . . .
— Mi sposerai?
— Certo.
Egli aveva le labbra odorose d’altri baci, soavi e selvagge come un
ricco miele.
Allora ella gli parlò dell’avvenire, d’una casa che avrebbero, intima
e tranquilla, d’una fedeltà indissolubile, d’un amore senza fine. Ed
egli nel cuore cinico ne rise, perch’era di quelli che feriscono senza
conoscere il male che fanno.
Venivano al sabato sera il Riotti e il del Ferrante insieme;
ripartivano col primo treno del lunedì. Eran gite, la domenica,
scampagnate per i colli, merende nei boschi, sorbetti variopinti e
fette di cocomero, la sera.
Si ballava, sotto i padiglioni, si ballava, con l’organo di Barberia
infaticabile... Il Riotti e donna Grazia, una domenica sera, fecero un
giro di polca insieme: egli n’ebbe male alla schiena per una settimana,
ella ne ringiovanì. Paolo andò a caccia di grilli, e ne trovò uno che
cantava — come cantava! — tutta notte, sul poggiolo. La piccola Anna
Laura colse frutte nei frutteti, e montò sopra l’asinello di un vicino,
e finì con rotolare in un fossato, senza farsi male, però. Ma sgualcì
l’abitino che portava, il suo più bello.
E Stefano pagò le spese, rimanendo curvo tutta la settimana a
metter lenti negli occhiali. Ed i roseti apersero tutte le rose e le
stracciarono fiocco a fiocco, lembo a lembo, come ventagli di carta;
e le more, lungo i fossi, tra i dirupi, cominciarono a vaiare; ed il
grillo del poggiolo scappò via, quando la luna finì... E l’Eugenia
rimase incinta, quando la luna finì.
Si ballava, sotto i padiglioni, si ballava...


VI

Ritornarono tutti alle contigue botteghe, tra lenti e fiale, ognuno
alle proprie abitudini quotidiane. L’anno interrotto ricominciò. Fuori
divampava un autunno più rosso dell’estate, ma nessuno pensava ormai a
lamentarsi del caldo, poich’era trascorso il tempo della villeggiatura.
La sola che non riuscisse a togliersi la vampa di dosso, era quella
povera Eugenia, che ciondolava di qua e di là, da un angolo all’altro,
da una seggiola all’altra, come un’anima senza pace.
Incinta!... incinta!... Questa parola viscida, oscura, funesta, le si
divincolava intorno come un viluppo di serpi, la mordeva nel ventre,
che le pareva crescesse a vista d’occhio, le attanagliava i seni,
dolorosi di trafitture, le serrava la gola dandole un’impressione
soffocante di nausea, le passava dal cervello alle calcagna come una
lunga fredda lama. Intorno a lei non danzavano più che tanaglie di
medici, rivoli di sangue, rotoli di fasce, teste implumi e bavose di
bambinelli appena sgusciati fuori. Non osava più guardare in faccia il
suo padre maestoso, nè guardare alcuno; le pareva che tutti protessero
leggerle nelle pupille dilatate il suo materno segreto.
«Mi sposerai?» — «Certo.» Aveva detto: «Certo.» Ma ora non la guardava
quasi più, era diventato ruvido, la maltrattava, sopra tutto dal giorno
in cui la ragazza, presa dal terrore, gli aveva confessata quella
terribile verità. Per poco egli non erale piombato addosso coi pugni
serrati; poi lo aveva udito profferire una bestemmia fra i denti, e
l’aveva guardata, fissata, un attimo, implacabilmente, con gli occhi
pieni d’odio.
— Non c’è più che un mezzo... — aveva ella tentato di dirgli fra i
singhiozzi e le lacrime.
— Quale?
— Confessare tutto e sposarci súbito.
— Ah?... ti pare! — fece Arrigo, duramente. — Ci penserò.
E volse le spalle mettendosi a fischiettare.
«Sposarla? Nemmeno se cadesse il mondo, quella grassa dagli occhi di
lumaca! Toh!... ci aveva pensato seriamente, lei! E con qual candore
veniva a dirglielo!... In ogni modo era una seccatura.»
Accese una sigaretta e se ne andò a trovare la Mercedes. Quella brava
ragazza doveva esser pratica di queste cose. La Mercedes a quell’ora —
erano le tre — si stava mettendo il busto. Bisognava stringere molto
i legacci, e per aiutarla era venuta la padrona di casa, o meglio
l’affittacamere, una donna ch’era stata in altri tempi desiderabile
assai, ed ora, tenendo pigione, faceva insieme l’usuraia la mezzana
e la domestica delle sue clienti. Non vedeva di buon occhio Arrigo,
perchè, con quella praticaccia che si prende nel mestiere, aveva súbito
compreso come ci fosse in lui piuttosto la stoffa del mantenuto che
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