Colei che non si deve amare: romanzo - 04

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e parve non curarsi più di lui. Ma c’era l’altro, il Riotti, che aveva
man mano riprese le vecchie abitudini e ficcava il naso in tutti gli
affari de’ suoi vicini. Per un tacito accordo, egli ed Arrigo evitavano
sempre di rivolgersi la parola, ed anche d’incontrarsi, quando potevano
farne a meno. Ma ora che il giovinotto pareva prendersi a gabbo la
faccenda del matrimonio, e di tutt’altro si curava che d’essere il
fidanzato dell’Eugenia, il farmacista non seppe tacere più a lungo,
ed una sera fece pregare padre e figlio di venire in bottega da lui.
Era presente anche l’Eugenia, la quale si faceva rossa come fuoco
non appena udiva pronunziare il nome d’Arrigo. Costui venne con la
sigaretta in bocca, senza mostrare il minimo impaccio, senza parere
affatto compreso della solennità con cui l’accolse il Riotti. Questi
entrò súbito nell’argomento.
— Per mia norma vorrei conoscere il giorno che avreste fissato per il
matrimonio, — disse con voce beffarda, fissando l’uno e l’altro con
aria di provocazione.
— Caro amico, — Arrigo rispose con spavalderia, — credete forse che
si prenda moglie come si beve un bicchier d’acqua? Ci vuol tempo a
riflettere. Quanto al giorno, francamente, non vi ho per ora nemmeno
pensato.
S’udì la seggiola che portava il peso del Riotti scricchiolare
sinistramente.
— Di questo non dubitavo! — disse. — Ma è per potervi pensare insieme
che vi ho pregati di venir qui.
— Mio caro e buon Riotti, — l’interruppe Arrigo, — lasciamo le pompe, i
modi magnifici ed il tono d’accademia; discorriamo da buoni amici, con
semplicità. Finora ho evitato di venirvi a parlare perchè mi sentivo
in colpa verso di voi e non volevo sprecare molte parole inutili. Ho
commesso una sciocchezza, ed ora che l’occasione si presenta, ve ne
chiedo scusa; di tutto cuore ve ne chiedo scusa.
Obbligatissimo! — borbottò l’altro, un po’ sorpreso tuttavia.
— Ma, quando si è fatto il male, chiederne scusa non vuol dir nulla;
bisogna ripararlo piuttosto, ed io sono pronto a farlo, se così vi
piace. Solo vi pongo una domanda: Come posso io prender moglie? In che
modo le darei da mangiare?
L’altro volle interromperlo.
— Lasciatemi finire, — seguitò Arrigo. — Voi sapete benissimo che non
possiedo un soldo, nè il mezzo di guadagnarne, per ora. Soggiungerò io
stesso, per non lasciarlo dire da voi, che non ho alcunissima voglia
di lavorare, che son pieno di debiti fino al collo, che amo giuocare,
andare a teatro, spendere, divertirmi con le donne... vivere insomma!
Se vi riesce tuttavia di trovare in me la stoffa d’un marito, parola
d’onore, ve ne sarò gratissimo!
Il Riotti fu percosso d’un tale stupore che non ebbe fiato per
rispondergli e fissò l’occhialaio con uno sguardo smarrito.
— Dunque... — volle dire.
— Dunque, concludiamo, — fece Arrigo. — Ho abusato di vostra figlia,
ed è naturale che ripari al malanno, sposandola. Solo non venite a
parlarmi del giorno, del mese, e neanche dell’anno, perchè dall’oggi
al domani non si conclude nulla di buono e di serio. Appena sarò in
condizioni da poter prender moglie decorosamente mi ricorderò della
promessa che ho data. Ma fino a quel tempo, vi prego di lasciarmi
vivere in pace. Tanto più che, se io m’impegno a sposar l’Eugenia,
l’Eugenia viceversa è liberissima di sposare chi vuol lei, qualora nel
frattempo le cápiti un giovine che valga un po’ meglio di me.
— Ah, cáspita! — scoppiò a dire il farmacista, che aveva finalmente
ritrovato l’uso della parola. — Cáspita! cáspita!... Questa è un po’
grossa!
— Vi ho parlato da galantuomo, signor Riotti, e spero che in séguito me
ne terrete conto.
— Da birbante, hai parlato! da malandrino! da canaglia! Ah, no, per
Dio! non credere d’aggiustarla così!
— Sentite, signor Riotti, — concluse Arrigo, — io son uomo di poche
parole: quel che dico dico, e non c’è forza al mondo che sappia
rimuovermi da una decisione presa. Inoltre non mi piace d’essere
insultato nè di venire a male parole con uomini più vecchi di me. Per
il che vi riconfermo quel che ho detto e vi auguro la buona sera.
Se ne uscì calmo calmo, accendendo un’altra sigaretta. Poco dopo
l’occhialaio, riconosciuta vana ogni speranza di ragionare col
farmacista, pensò che meglio fosse andarsene, e fece come lui.
Arrigo si diresse verso la solita bisca, ove da qualche tempo gli
arrideva una straordinaria fortuna. Dopo aver pagate, come ogni altro
giocatore, le spese del suo noviziato e maledetta l’ingiusta fortuna e
trascorse ore insonni a ragionar col demone che dispone fortuitamente
le carte sui ciechi tavolieri, dopo aver osservato col suo freddo
spirito coloro che perdevano sempre e coloro che più spesso vincevano,
egli era divenuto in breve uno di que’ freddi e cauti giocatori che
sanno in fin de’ conti aver ragione anche dell’azzardo capriccioso,
contrapponendo alle altrui debolezze la propria inflessibile virtù.
Non più le carte amava nè l’alea che tende i nervi e tien sospeso il
respiro sopra il sorteggio d’un punto; ma s’era invece prefissa una
nitida volontà di vincere, di afferrar nel suo pugno quel denaro che
tanto gli era necessario per i suoi prossimi destini. Conosceva i suoi
compagni di gioco, aveva esercitato sopra ognun d’essi un esame acuto,
e quand’essi, eccitati o stanchi, nell’ore tarde rincorrevano il denaro
perduto, egli, che tutta sera aveva temporeggiato, apriva sagacemente
la sua battaglia senza lasciarsi vincere da alcuna ingordigia nè
distogliere da alcuna pietà. Si era persuaso che al giuoco pure,
come nell’altre contese della vita, la fortuna conta per molto ma
il carattere fermo vale ancor più. E da qualche tempo la sorte lo
compensava di aver fiducia in sè stesso più che in lei. Durante gli
ultimi tempi aveva raggranellata una considerevole somma.
Allora donò al fratello Paolo tutta la sua guardaroba d’elegante
suburbano e si fece rinnovare le squamme dai primi abbigliatori della
città. Sapeva che sarti e calzolai creano la più immediata, forse la
maggior distinzione fra uomo ed uomo, poichè, in questo mondo bizzarro,
che vive d’apparenza e si pasce d’esteriorità, il prossimo fa sempre
miglior viso al cerretano bene agghindato che non al galantuomo il qual
non cura l’eleganza de’ suoi modi e del suo vestire.
Allora cominciarono a giungere nella modesta casa dell’occhialaio
fattorini e commessi, che portavan pacchi enormi, ben ravvolti in una
carta soffice, dalla ditta vistosa; le sorelle accorrevano a guardare
con una curiosità mista d’invidia quelle meraviglie che il ricco
fratello si comandava per i suoi diletti.
Con questi abiti nuovi, con queste camice fine, che la mamma non
avrebbe osato affidare alla lor semplice lavandaia, con quelle scarpine
lucide, odorose di buon cuoio, con que’ fazzoletti sottili come tele di
ragno, con que’ capelli tirati a lustro, d’una forma un po’ eccentrica,
e tutto quel lino e tutta quella seta e tutta quella buona materia
delicata, rara, odorosa, — una specie di aureola s’involse intorno al
primogenito. Ne furono tutti sorpresi, ed un poco anche il padre, quel
buono semplice padre, che non poteva scordarsi d’aver concepita sopra
il suo primogenito qualche speranza veramente ambiziosa.
— Ho vinto al giuoco, — questi raccontò, per spiegare ogni cosa. E
siccome non era punto avaro, dispensò regali ad ognuno.
— Bada, — lo ammoniva il padre: — oggi si vince, domani...
— Domani si può vincere ancora.
E spiegò al padre che il giuoco è un affare, come ogni altro affare,
dove il sangue freddo ha onestamente ragione dei nervi altrui. Poi
sapeva, a tempo e luogo, essere carezzevole, persuadente; nella casa,
nonostante i suoi continui malanni, si era sempre nutrita per lui
una certa predilezione, ed ora, con quella coscienza pieghevole della
gente borghese, finirono con pensare che in fondo, se gli riusciva di
menar la vita del gran signore senza commettere alcunchè di male, non
bisognava poi dargli torto nè condannarlo per partito preso. Faceva
piacere a tutti vederlo uscire, attillato e azzimato come un damerino,
sapere che alle volte pranzava nei ristoranti più cari e si metteva
l’abito nero per andarsene a teatro in poltrona. Che buon profumo
avevano, in quella retrobottega odorosa d’aglio, i suoi fazzoletti
fini, quando se li toglieva di tasca! S’era cambiata la pettinatura,
il taglio dei baffi, il modo di camminare, il modo di fumare la
sigaretta, e pareva quasi che parlasse una lingua più forbita, che
gettasse un riverbero d’eleganza su tutte le cose ch’erano intorno a
lui. Questo era avvenuto rapidamente, in pochi mesi. Ognuno si sentiva
quasi lusingato d’avere un vincolo di parentela con lui, e da quella
trasformazione ognuno sperava di poter trarre un suo particolare
vantaggio. Il padre avrebbe forse potuto in séguito risparmiare
quell’assegno mensile che gli faceva un gran vuoto in cassa; la madre
e le sorelle contavano di tempo in tempo su qualche regalo costoso; il
fratello, quel buon Paolo sempliciotto e modesto, era il solo forse che
in verità non sperasse nulla e che osservava tutte queste cose con un
certo sdegno indifferente.
Il Riotti, che di lontano aguzzava l’occhio a tante novità, non
osava dir nulla in modo aperto, ma obliquamente faceva certe sue
grandi prediche velenose contro le bische, i nottambuli e le donne di
malaffare.
Con la Mercedes era capitato un guaio. Buona ma gelosa, disinteressata
ma piena d’amor proprio, come tutte le donne venali quando si dànno
per amore, aveva tollerato, sì, che Arrigo rendesse incinta una ragazza
per bene, perchè le signorine, via, quasi non contano, e tutto questo
era stato, come diceva lui, uno scherzo... ma non poteva mai, mai,
tollerare che le si facesse un torto con donne del suo mestiere, perchè
in tal caso, oltre la gelosia, c’entrava lo scredito e c’erano in più
le beffe.
Appunto era capitata lì, nel teatrucolo dov’ella cantava, una
danzatrice Tunisina, la quale, sotto il pretesto di esibire certe
figurazioni estetiche, si mostrava in scena sconciamente nuda, con
un gran dimenìo d’anche formose, una bella curva di reni, una ricca
plastica di poppe arrossate, sotto lo schermo di pochi veli. Fece
chiasso; la sala per tutta la quindicina rigurgitò. E gente venne che
per solito non bazzicava in quel teatro, gente che poteva, senza ledere
il suo prestigio, dare una capatina in quei ritrovi equivoci, a brigate
di cinque o sei, farvi un rumore indiavolato e poi andarsene via con
un affettato sorriso di noia. Venivan taluni con le loro amanti, lucide
di gioielli, ondose di piume, e le povere cortigianelle di quel teatro
suburbano tutta sera stavano a rimirarle con occhi affascinati, quasi
fosser idoli.
Miris la Tunisina eseguiva una danza del ventre in verità irritante,
che poteva qualche strano miracolo anche sui noiati ammiratori delle
danze di Salomè, ed aveva, come disse argutamente uno scultore allora
in voga nei cenacoli cittadini, «le più belle ginocchia di maomettana
che mai fosse stato lecito vedere sopra un altare della cristianità.»
Quando molti l’ebbero goduta, un uomo dabbene, calvo di cranio e
ricco d’esperienza, che aveva una fonderia di metalli ed era qualcosa
nelle cariche del Comune, la tolse dalla scena e se la fece sua. Sua,
beninteso, come piace o come torna comodo a questi noleggiatori di
donne, che si recano a trovarle prima del pranzo in vettura chiusa
e vi tornan la sera, imbacuccati nella pelliccia, quando non devon
accompagnare a teatro la consorte, ahimè, legittima. Consuman poco
e pagan bene, lasciano forzatamente una grande libertà, sono la vera
provvidenza delle donnine allegre e di tutti coloro che, per spender
meno, accettano i ritagli di tempo e divengono «amanti del cuore.»
Miris fu la prima donna, forse l’unica donna, che Arrigo pagò. Ma era
Tunisina, e gli parve con questo di umiliarsi meno. Se n’era fortemente
incapricciato per quel sapore che aveva di lussuria esotica, ed una
sera la condusse a cena. Fu male forse, perchè la Mercedes non meritava
questo affronto. Ma egli sperò che la Mercedes nulla ne sapesse.
Purtroppo invece non mancò il premuroso informatore.
Ella non si morse le dita nè si strappò i capelli, ma con quella bella
risolutezza delle donne di temperamento, appena vide Arrigo, gli lasciò
andare due stupendi manrovesci, e mamma Gilda si mise a ridere di così
buon cuore che Arrigo non seppe più se dovesse imbizzarrirsi o riderne
a sua volta.
Del resto era stanco della Mercedes; ella dal canto suo, cominciava
col noiarsi di quella vita monotona, che le faceva perdere molte buone
scritture: l’occasione si presentava propizia, e da quel giorno non si
videro più.
Ma lo sorprese l’uomo dabbene in casa della Tunisina, certa volta
che vi capitò fuor d’ora. E in letto li sorprese, che prendevano il
caffelatte verso le due del pomeriggio, con un appetito invidiabile.
Colui si chiamava Cesare Farra; era un uomo senza nervi, con una
lanugine ancor biondiccia intorno al mento grasso, le labbra tumide,
gli occhi piccoli e furbi sotto gli occhiali a cerchio d’oro. Non si
scompose, non si meravigliò; chiese venia del disturbo, e da quell’uomo
d’affari ch’egli era, tratto di tasca il portafogli, liquidò seduta
stante il suo debito con la Tunisina. Miris, per urbanità voleva
infilarsi la vestaglia ed accompagnarlo almeno fino all’uscio. Ma egli
rispose che conosceva la strada, e se ne andò com’era venuto.
Che fare? La Tunisina era donna di spirito e non perdette il tempo in
querimonie vane.
— In fondo in fondo preferisco ballare! — disse ad Arrigo che cercava
di scusarsi. — Poi, se non fosse capitato con te, sarebbe capitato con
un altro... Dunque non ci badare.
E siccome avevan sonno ancora, spenser la lampadina e beati si
riaddormentarono.
Ma da questo fatto incominciò a correre la fama d’Arrigo nella
combriccola dei giovani signori che, sempre all’erta di scandali e di
peripezie, non avevano tardato a sapere il come ed il quando Cesare
Farra avesse côlta in flagrante la sua bella Tunisina. E quel nome
di Arrigo del Ferrante, che doveva più tardi suonare su le bocche di
tutti, fu per la prima volta commisto alle risate che si fecero in
danno del loro amico beffato. Poichè Cesare Farra si compiaceva di
frequentare la gioventù e viveva con essi le ore notturne, da buon
camerata, egli pure tavernando e giocando con lena instancabile.
Raccontò agli amici la sua disgrazia, con disinvoltura lepida, quando
comprese che tutti la sapevano già.
A quelli cui la medesima sorte può capitare da un giorno all’altro, dà
sempre allegrezza e conforto il conoscere un cornuto di più.


X

Cantava quell’anno al teatro d’Opera una cantante russa dalla voce
soave, una donna coperta di gioielli da capo a piedi, leggiadrissima e
capricciosamente onesta. Era stata, dicevasi, l’amante d’un Granduca,
poi d’un Pascià egiziano, che avevano profuse ricchezze intorno alla
sua voluttuosa persona.
Di fattezze non era veramente bella, ma possedeva quella singolare
dolcezza delle donne slave, quello sguardo innamorato, pieno di sogno,
di lontananza, di malinconia, che talora inebbria e talora comunica
l’inesprimibile angoscia del suo smarrimento. Aveva una scollatura
magnifica, le spalle ben tornite, che si aprivano con la mollezza d’un
grande ventaglio, le braccia lente, insidiose, morbide, quasi rotte
nelle giunture, che parevan assumere talvolta l’ondosità e la dolce
forma d’una sciarpa di seta; braccia che, tese e congiunte, avrebbero
portato così bene ai polsi una catena greve, capaci di supplicare come
una voce umile, di carezzare fino al tormento, godendo e prodigando
un lentissimo piacere. Ed al pari di quelle braccia flessibili,
tutta la sua persona pareva muoversi e vivere in una musica veramente
appassionata.
La sua voce le somigliava, come un profumo può somigliare al suo
fiore. Calda era la sua voce, soave, tormentosa, piena di castità
limpidissime, di liscivie opache; profumata era, come se lasciasse
ondeggiare nell’aria qualcosa di sè, qualcosa che penetrava nei sensi,
e li stringeva, e li opprimeva, come un dolore inebbriante.
Si chiamava Tatiana Ruskaia; aveva cantato per le maggiori scene
del mondo, innamorando le platee con la sua passione veemente. Or la
tentava la fama antica, se pure oggimai vacillante, di quel teatro
italiano che aveva dato all’arte del canto i più sacri battesimi,
quando ancora le opulente Americhe non ci avevano barattato a prezzo
d’oro per quest’ultima supremazia.
Il suo canto infatti aveva riscosso grandi applausi, ma ella stessa era
piaciuta forse più del suo canto. E sopra tutto era piaciuta in quella
gaudente compagnia di giovini signori che tengono i palchi, i ridotti,
i camerini de’ teatri, gli scanni delle bottiglierie, le tribune degli
ippodromi, le sale fortunose dei circoli ed i salottini delle cene
notturne; gaia combriccola di gente scioperata, che mangia, beve,
gioca, fa all’amore, sopporta la vita senza soverchia fatica e cerca di
spendere il tempo nel miglior modo che sia.
Giovini e vecchi insieme, alcuni ricchi, altri quasi poveri,
intelligenti alcuni ed altri meno assai che mediocri varii di nascita,
d’educazione, d’apparenza, d’animo e di costume, formano insieme quasi
una grande, privilegiata famiglia, che in cambio d’affetti vicendevoli
campa d’abitudini comuni.
E costoro, tutti costoro insieme, s’erano commossi di lei; avevano
iniziata la gara del giunger primo, ed alla testa s’eran messi coloro
che si reputavan adorni d’una qualsivoglia irresistibilità.
Ma la Ruskaia era veramente quella invincibile torre eburnea che
riesce a disperare la pazienza de’ più accaniti assalti. Li conobbe, li
accolse, ne adulò alcuni, altri ne derise: fu soverchiata di mazzi di
fiori, fu tempestata di lettere d’amore, non ebbe che a scegliere fra
chi le offriva denaro, passione o protezioni; la sua casa fu vigilata,
la sua vettura inseguita, il suo camerino ingombro, ma tuttavia nessuno
l’ebbe. E questo fu noto, se per taluno millantò.
La cosa impensieriva. Ne fu discusso a lungo, anche nei palchi, durante
le visite che si facevano alle belle signore.
Gli ingenui, e furon pochi, si persuasero della sua naturale onestà;
i romantici la credettero innamorata; gli esperti immaginarono che
aspettasse il bue d’oro; i maligni la supposero malata.
Non era così, affatto. Amava l’arte, il canto, la sua bella voce,
i libri snervanti, i viaggi lontani, le immaginazioni tormentose.
Aveva tanto denaro da non saperne che fare, tanti gioielli ch’era
quasi fatica doverli custodire. Non era nè onesta nè innamorata nè
avida nè malata; ma non voleva darsi vanamente, senza esaltazione e
senza scopo, così, al primo venuto. Preferiva inasprire i più vivi
desiderii col suo pertinace rifiuto che assoggettarsi ad un mediocre
amore; poichè nel letto solitario d’una donna bella, ove serpeggia
di notte l’insoddisfatta bramosia di molti sconosciuti forse qualche
brivido passa, più voluttuoso e più torbido che la medesima voluttà.
Poi era noiata: quel Pascià ricco e geloso l’aveva ridotta quasi
all’esasperazione; avrebbe potuto domandargli la valle del Nilo,
ed egli le avrebbe data la valle del Nilo. Era fors’anco un uomo
piacevole, ma con quel po’ di sangue turco che gli era tuttavia rimasto
sotto le pelle europea, non le concedeva mai pace. Erano avvezzi ancora
alle donne velate, laggiù. Un bel giorno ell’aveva di nascosto fatto
i bauli, complice la sua cameriera, ed insieme se n’erano fuggite via.
Sapeva che il Pascià ne avrebbe forse pianto come un bambino, ma questo
pensiero non la trattenne. Per ora voleva soltanto cantare, darsi
all’arte, mettere tutta l’anima sua nell’interpretazione della musica,
e venne perciò in Italia, dove non aveva cantato ancor mai.
Del resto si sarebbe anche abbandonata, se ne avesse avuto appena il
desiderio. Ma invece passava una crisi, una di quelle sue crisi che le
avvolgevano d’inerzia i sensi, le fasciavano le vene in una specie di
torpore delizioso. Trascorreva il tempo libero studiando l’italiano,
questa lingua musicale che rende più armonioso il canto; e per quella
facilità nell’apprendere i linguaggi ch’è comune agli slavi, i suoi
progressi eran veloci. Di natura un po’ nomade, amava i cieli diversi e
le diverse vite. A stagione chiusa, avrebbe fatto un giro per l’Italia;
voleva conoscere questa terra leggendaria, questo paradiso emerso
dal mare con un destino di fiori e di sole. V’era giunta, per vero
dire, con una certa curiosità degli uomini d’Italia, poichè non v’è
donna straniera che non ne abbia tacitamente sognato, ripensando alle
infinite leggende che ne raccontano i libri d’amore.
Quelli che aveva conosciuti fino allora, in quel principio di stagione,
l’avevano per vero dire alquanto delusa. Su per giù li trovava come
tutti gli altri; un poco più vivaci, un po’ meno corretti, con qualche
indolenza felina, qualche sgarbo simpatico, una certa spavalderia
nel trattare con le donne, il denaro facile, il lazzo qualchevolta
triviale. Ma insomma eran gli stessi che altrove, vestiti sul figurino
di Londra, con le stesse pettinature lustre di pomate, i baffi
tagliati a fil di labbro, lo sparato impeccabile, un grande fiore
all’occhiello... E poi? Si era costrutta nella fantasia un bruno
tipo di maschio, tutto vibrante come una musica concitata, un tipo
di possessore impetuoso e dolce, con lo sguardo pieno di menzogna,
di crudeltà e di carezze, con la voce ch’entrasse fin nell’anima,
subdolamente, come un veleno. E qualche volta sognava di sdraiarsi
vicino a lui, tutta morbida, tutta pigra, con un gran desiderio di
sentirsi prendere... Ma erano cose recesse, fuggevoli, che accarezzava
con la fervida immaginazione, quasi per divertire la capricciosa
bambina ch’era nascosta in lei.
Arrigo la vide per la prima volta sulla scena, e tornò a casa irritato,
svogliato, alla fine dello spettacolo, soffrendo quel male sottilissimo
che una donna appena intravveduta lascia qualche volta in noi. La sua
voce gli era penetrata nell’intimo, gli si aggirava nell’eco dell’anima
come una tormentosa carezza; la sua figura, i suoi gesti, quel suo
camminare lento e quasi guardingo, gli si avvincevano alla memoria dei
sensi con un voluttuoso piacere.
Egli non era facile all’amore; ma i sensi talvolta gli si accendevano
d’improvvise demenze, prostrandolo in una specie d’ebetudine dolorosa,
che aveva il triste fuoco ed il profondo malessere dell’amore. Qualche
volta gli pareva di nascondere in sè un nemico terribile, che avrebbe
d’un tratto potuto soverchiarlo, annientarlo, e questo nemico egli non
conosceva; ma gli pareva che fosse una forza oscura, insidiosa, un male
antico, ruggente nell’intimo delle sue fibre, come un rumore d’acque
sotto una terra che ha sete. E v’eran giorni che un gran buio gli si
addensava nel cervello, pieno di fiamme indistinte, guizzi di cose
non vedute, non sapute, balenii di gioie formidabili, ombre di peccati
senza nome.
V’eran giorni che tutta la sua gioventù si stancava d’una stanchezza
enorme, si perdeva in un vuoto di cose più alte che il desiderio, più
forti che la possibilità, e il gran tumulto dell’anima gli traboccava
nel cerchio delle vene, martellando, rombando, con una piena sì forte,
che gli pareva non ci fosser argini per contenerla tutta in sè. Qualche
volta gli pareva insieme di odiare acerbamente sè stesso e la sua vita
mediocre, il padre, la madre, che l’avevan generato fra così bassa
gente, la sorte che lo aveva chiuso fra così anguste pareti. Poi tutto
si placava; la sua fredda e nitida volontà riprendeva il sopravvento.
Agli ozii dell’anima sua non aveva concesso che un amore: la musica; e
tra le ansie del gioco, tra l’imperioso bisogno di denaro che talvolta
lo assillava, questo amore puro e nascosto si accresceva continuamente
in lui, metteva luce, vita, calore, nel silenzioso gelo del suo
spirito, lo inebbriava di sentimento, era la sua voluttà spirituale.
Leggendo, ascoltando, frequentando i concerti, s’era formato una
piccola erudizione musicale, che da sè stesso andava elaborando con la
sua straordinaria sensibilità. Prendeva sempre lezioni di violino, ma
nascostamente da’ suoi, nascostamente dagli amici, quasi vergognandosi
del fatto che un uomo ruvido e forte com’egli voleva essere potesse
chiudere in sè una passione così delicata.
Ora la Ruskaia, con il suo canto, con la sua strana bellezza, lo
aveva prostrato in una di queste crisi torbide. Ritornò ad ascoltarla,
per meglio imbeversi della sua voce, per saturarsi del suo malefico
prestigio, e venne via più triste, più solo, perchè intorno a quella
donna bella come un sogno si accendevano quadri di vita maravigliosa,
quadri nuovi ed abbaglianti, ov’ella signoreggiava, tra uno sciupìo di
ricchezze, tra un nembo di splendente irrealità.
Intorno a lei era quel color di vita che pare ai lontani quasi una
favola, e per altri uomini ella era fatta, per altri che possedevano
il privilegio di tutte le cose a lui negate. Non un amore desolato
nasceva nel suo spirito, ma un imperioso desiderio di possederla,
d’impadronirsene come d’una bella preda e profumare la sua vita povera
con la fragranza delicata che veniva da lei. Cercò di sapere dove
abitasse; lo seppe, l’attese, la vide, gli piacque ancor più. Ella
divenne il suo capriccio, l’assedio delle sue notti, il rifugio de’
suoi pensieri.
Gli parve d’esser ancor prematuro ad un’ambizione così grande, ma per
ciò appunto quest’ambizione gli piacque, sapendo che spesso nella vita
il maggior premio tocca alla maggiore temerità.
Quando una risoluzione gli era entrata nell’animo, egli non indugiava,
non esitava un istante nel compierla.
Si mise lungamente a ragionare fra sè.
Non aveva denaro da offrirle, non amicizie dalle quali farsi condurre
fino a lei, non era un critico d’arte, non era un giornalista, non
era insomma alcuno di que’ molti che per ragioni di mestiere hanno
a che fare col palcoscenico; non poteva contare che su la propria
persona e su la propria scaltrezza. Era cosa per lui difficile poterla
avvicinare, foss’anche di sfuggita. Nel medesimo tempo non voleva
piombarle addosso come un inseguitore stradaiolo nè parerle uno di
quegli innamorati clandestini e feroci che piantonano le portinerie.
Bisognava dunque aver l’aria d’incontrarla per caso, e d’inseguirla,
sia pure, ma come per caso, e farsi notare da lei senza darle noia, e
piacerle sopra tutto per una di quelle subitanee simpatie che nascono
dalle più futili cose. Bisognava esser agile, destro, paziente, trovar
la maniera di esprimerle un desiderio più profondo che la curiosità,
mostrarle una timidezza non ridicola ed insieme un’audacia rispettosa.
Quel giorno faceva un bel sole. Ogni strada era limpida; l’anima della
città brillava. Ella era uscita di casa, a piedi, verso le tre del
pomeriggio. Portava un abito di panno scuro, che tra mantello e gonna
formava tre balze distanti, con un triplice orlo di pelliccia scura; la
medesima — forse un dorato zibellino — che le formava intorno al collo
un boa leggero, le guerniva il cappello, e si scioglieva nell’ampiezza
d’un manicotto voluminoso.
Forse nelle caviglie flessibili, forse nelle ginocchia dolcissime,
nella cintura svelta, nel collo morbido, forse in tutte le sue
giunture delicate, aveva quella grazia inimitabile del camminare,
quel suo leggiadrissimo segreto di agilità. La seguì egli di lontano,
irresoluto. Ella si fermava ogni tanto alle vetrine, ogni tanto entrava
in un negozio, usciva, riprendeva la sua passeggiata pomeridiana,
godendo il bel sole. Egli le stava dietro, quasi presso; udiva il suo
piccolo tacco battere sul marciapiede con un ritmo veloce; udiva quel
rumore tepido di pelliccia e di panno, che veniva da lei commisto a
profumo.
La vide entrare da un fiorista; egli si fermò davanti al negozio. C’era
nella vetrina una grande cesta di bellissime orchidee, color malva,
erte su gli steli esigui, fra un merletto di capelvenere.
Gli venne un’idea, lì per lì, buona o cattiva: entrò egli pure. Ella
stava presso il banco scegliendo un mazzo di violette di Parma. Arrigo
domandò la cesta d’orchidee. La portarono sul banco, fra lor due.
Erano così belli, que’ fiori senza profumo, tra l’erba tremula che li
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