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Colei che non si deve amare: romanzo - 06

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  odorosi, fatti per bisbigliarvi dietro una parola furtiva, per
  soffocare un riso inverecondo, per nascondere uno sbadiglio, di questo,
  insieme con altre frivolezze si parlava. E poichè gli amori delle
  cantatrici interessano le signore almeno tanto quanto l’arte loro,
  don Carletto Santorre, don Antonino Vernazza, il marchese Minardi
  ed altri gentiluomini, erano andati in giro di visita in visita a
  comunicare quest’ultima notizia della cronaca teatrale con la educata
  circospezione ch’è di rigore nella buona società. Si videro molte
  belle bocche sorriderne, compiaciute che ci fosse una donna di meno
  irreprensibile nell’opinione altrui, e furon mandati frizzi e leggiadre
  ambasciate a quelli che notoriamente eran rimasti in asso, mentre una
  certa onda di curiosità si sollevava intorno alla persona d’Arrigo
  e insistenti canocchiali si piegavano, tutta sera, dai davanzali dei
  palchi a riconoscere l’avventuroso.
  Da quella volta in poi, quand’egli entrava in teatro, taluna diceva
  a tal’altra sottovoce: «Ecco il bel Ferrante!» Ed avendolo consacrato
  con questo appellativo, molte, nel guardarlo, pensavano in cuor loro
  ch’egli era veramente un giovine di piacevole aspetto.
  Intanto nel camerino della Ruskaia, che non cessava d’essere assediato,
  Arrigo potè conoscere alcuni di quella beata signoria ingombratrice di
  palcoscenici, alcuni di que’ signori, che scivolando fuor dai palchi
  di famiglia vengon tra le quinte a combinarvi una cena e son poi tutti
  insieme i benemeriti e spesso gli arbitri del teatro lirico italiano,
  come protettori del corpo di ballo.
  Egli non fu geloso; non domandò alla Ruskaia di allontanare quegli
  importuni, che or forse pensavano di potergliela portar via da
  un giorno all’altro, e frattanto lo colmavano di garbatezze. Rafa
  Giuliani, Lanzo Malatesta, il marchese di Sant’Urbino, capitavano
  qualchevolta, verso le cinque, in casa della Ruskaia per domandarle
  una tazza di tè. Venivan pure il principe d’Albi, vecchio mecenate del
  teatro lirico, il conte Aimone dell’Ussero, membro della Commissione
  teatrale e forsennato amatore di piccole ballerine, il direttore del
  teatro, il direttore d’orchestra, moltissimi altri ancora, e Totò
  Rígoli fra questi, non per corteggiare la cantante, ma per ficcare il
  naso nelle cose altrui.
  Arrigo faceva discretamente gli onori di casa, destreggiandosi nella
  sua difficile condizione con una abilità singolare. Lo trovaron
  simpatico e modesto, poichè sapeva solleticare la vanità di ognuno
  senza mai cadere nell’adulazione. Il principe d’Albi lo prese a
  benvolere dopo che l’ebbe udito suonare il violino, ed una sera,
  nel ridotto, si fece vedere in pubblico a discorrere con lui. Questo
  principe d’Albi, come decano della nobiltà, esercitava su lo stesso
  patriziato una specie di supremazia; il fatto ch’egli avesse rivolta la
  parola in pubblico ad Arrigo, escludeva per sempre qualsiasi obbiezione
  che altri potesser muovere a suo danno. Il marchese di Sant’Urbino, or
  Abate dei Mammagnúccoli, ma che in passato si ricordava d’aver avuto
  qualche debolezza per gli uomini belli, sentì forse rinascere, davanti
  alla sua virile bellezza, certa lontana oscura memoria; e similmente lo
  prese a benvolere.
  Il direttore del teatro, il direttore d’orchestra entrarono a lor
  volta in una certa dimestichezza con Arrigo, avendo essi l’abitudine di
  tollerare, insieme con le artiste, tutte le lor parentele e clientele
  per importune che siano. Totò Rígoli, il quale, per istinto di beffa,
  sin dal principio si era schierato per il del Ferrante contro i suoi
  detrattori, durò nel primo impulso, ed un poco altresì per quella
  smania di proteggere o di combattere ch’egli aveva nella sua piccola
  persona, prese a trattar familiarmente Arrigo e fu pronto a spezzare
  qualche lancia in suo favore.
  Così, avvalendosi con accortezza di tutte queste cose insieme,
  calcolando le proprie mosse con la prudenza di chi muove le pedine
  sopra uno scacchiere, Arrigo potè finalmente rompere il cerchio di
  ferro che lo divideva da quella gioventù dorata, ricca d’ogni facile
  dono che possa concedere la vita.
  Il suo sogno non era stato troppo superbo. Gli si aprivano le porte
  vietate, cominciava intorno al suo nome il chiasso delle indiscrezioni
  mondane. Dalla bottega umile, nascosta nella lontananza della strada
  suburbana, egli entrava nel cuore della sua città, con una bella donna
  al fianco e molte nascoste invidie che intorno gli serpeggiavano,
  curiose del suo mistero. La fortuna pertinace delle carte gli offriva
  largamente, facilmente il denaro; un respiro più largo e più giocondo
  riempiva il suo petto capace.
  Ora, dall’uno all’altro, le conoscenze s’eran fatte innumerevoli.
  Cominciarono con accettarlo nelle cricche oziose che si formano su gli
  angoli delle bottiglierie, ove di donne si parla, di cavalli, di gioco,
  e s’intesson le frivole maldicenze dirette a smascherare i segreti
  altrui.
  Totò Rígoli una sera l’invitò a pranzo; Carletto Santorre gli disse
  un’altra sera: — Perchè non venite mai nel nostro palco?
  Egli v’andò qualche volta, però con discrezione, riuscendo a piacere.
  Spesso, dopo teatro, conduceva la Ruskaia a cenare in un ristorante
  famoso, che da immemorabile tempo riuniva nel suo piccolo cerchio i più
  dissimili esemplari delle classi e della vita cittadina.
  Era questo un cenacolo d’arte, un focolare di guerriglie politiche,
  un tempio di ciarlataneria, dove tra cene scapigliate infuriavano
  pettegolezzi mondani. Era nel medesimo tempo una casa di giuoco
  indisturbata, inevitabile; un ritrovo era d’aristocratici dopo il
  ballo e di istrioni dopo lo spettacolo; rifugio di nottambuli nelle
  tarde ore e di pedine infreddolite, campo neutro dove l’usuraio
  costeggiava il duca indebitato e la cortigiana sfacciata spauriva co’
  suoi pennacchi, con le sue risate, la piccola borghese domenicale;
  dove il commediografo si bisticciava col suo critico, l’impresario
  col suo pubblico, dove il gesuita giocava a carte con l’ebreo e l’uomo
  d’ingegno si lasciava beffare dai buoni a nulla o dai perditempo.
  Sovente, presso il Mammagnúccolo impettito nell’intonaco della sua
  camicia, sedeva un chiomato pittorello, dalla cravatta floscia, che
  ingoiando a lenti sorsi un mezzo cálice di verde acquavite, andava
  schizzando profili sul marmo del tavolino, mentre i divi di tutte
  le arti, di tutti i mestieri, di tutte le ciurmerìe, tenevan corte
  bandita con gli avversarii e co’ seguaci. Bellimbusti e belli spiriti
  si facevan critici o banditori delle cronache cittadine; giornalisti
  scribacchiavano articoli frettolosi; medici ed avvocati venivano
  in cerca di clientele; giocatori combinavan partite, donnaiuoli
  adocchiavan prede. Tutto il rigurgito dei teatri, delle sale,
  dei focolari, delle biblioteche, delle redazioni, dei circoli, vi
  sboccava transitoriamente come in un’anticamera della più nascosta
  vita notturna, e tra il fumo, le risate, i romori delle mense, nella
  impunità promiscua della mezzanotte, tutti vivevano qualche ora di
  concordia e di sollievo dopo l’ansie numerose della giornata.
  Un buon sopraccuoco ed un’ottima cantina avevan dato fama in origine a
  questo ristorante; poi la moda se n’era mischiata, e qualche partita
  disastrosa, qualche ubbriacatura forsennata, qualche alterco fra
  gentiluomini l’avevan accreditato in modo stabile nel favore dei
  gaudenti. Sebbene fosse un luogo pubblico, fra tutti i frequentatori
  correva una specie di familiarità, quasichè si trattasse d’un circolo
  a porte spalancate, ove l’adito era per tutti ma l’ammissione per
  pochi. Varie cricche vi si formavano, vivendo a lato senza darsi noia,
  ma disprezzandosi a vicenda. E ciascuna teneva un settore, un nucleo
  di tavolini, stretta intorno ad un suo capo che le dava lustro e la
  guidava nelle idee.
  Presso il marchese di Sant’Urbino, signore delle cene, inventore
  d’usanze, consacratore di Mammagnúccoli, un vecchio e scapigliato Don
  Giovanni del quarantotto, saldo ancora nella sua carcassa incrollabile,
  ancor lampeggiante negli occhi cigliosi, capitanava un’adunanza di
  antichi gentiluomini, avversatori di cose nuove, abbottonati nelle
  marsine vetuste, che, insieme, del buon tempo trascorso e della bella
  gioventù discorrevano, quando, nella cinta delle vecchie mura, più
  stretta e più gioconda era la città che dominarono e più gentili
  costumi vi reggevano, così a dir loro, quando impazzavano per le strade
  i carnovali memorandi e con meno denaro si facea più vita, più calore
  avevano le donne e più rigoglio nei robusti fianchi.
  Ivi era una tavolata di teutoni rubicondi, che alternavan la pallida
  birra con il Barbera spumante; nemici, nel cuore, della città che
  sfruttavano, impadronendosi de’ suoi rigogliosi commerci con una lenta
  ma sicura supremazia. Ivi era un bizzarro convegno di giovinetti,
  contraddistinti solo dal diverso abito che portavano, ricco semenziere
  dal quale sarebber usciti i Mammagnúccoli del domani.
  E più oltre, intorno alla tavola delle Tre Marie, — ch’eran tre sorelle
  galanti, le quali avevano in tanto volger d’anni battesimato o assolto
  quasi tutti gli imberbi o i decrepiti peccatori della città, tre
  sorelle d’una magrezza disperatissima, dal viso adunco, imparuccate
  oltre il verisimile, con certe mani grifagne che un tal pittore imitò
  per i suoi scheletri della Morte, — cinque o sei noiati sbarazzini
  vomitavan sconcezze nel gergo più triviale dei lupanari plebei, e
  nutricando lentamente la fame delle bocche sciupate pensavano alla
  notte dolorosa, in cui avrebber voluto esser uomini.
  Più oltre una contessa di casato autentico, in compagnia d’una serva
  impennacchiata, sorbiva lentamente il veleno dei piccoli calici,
  e scesa dal letto al barlume dei lampioni elettrici s’apprestava
  a menare una vita quasi onesta e certamente signorile per gli
  stambugi malfamati, accompagnandosi alla cricca dei nottambuli che la
  dilettavan di celie bizzarre, sè stessi talora dilettando con le facili
  compiacenze della pulzella soccorevole.
  Qua un principe germanico, esiliatosi per un impari amore, volgeva
  intorno la stanchezza sorridente dell’occhio cerulo, non più memore
  del fasto imperiale nè dei grevi reggimenti che marciano impaurendo
  l’Europa, malcontento forse d’aver chiusa la sua grande sorte in un
  piccolo cuore. Vicino a lui, bella ed altera come una sovrana, la
  sua compagna reggeva la corte dei gentiluomini d’onore, e la piccola
  curiosità provinciale si sbizzariva in commenti svariati, indiscreta ma
  pur genuflessa, con quell’istinto invincibile della plebe, che sempre
  accorre come una docile mandria per le strade ove passano i re.
  Quivi erano musicisti e cantori; colà drammaturghi ed istrioni;
  drammaturghi sopra tutto, chè questo malanno è assai diffuso al giorno
  d’oggi, nè ormai può trovarsi alcuna persona rispettabile che non
  abbia scritto commedie, che non abbia per una volta sentito in cuor
  suo il fuoco echìleo del sollevare le platee. Drammaturghi fischiati
  una sol volta o fischiati assai più, che per quell’unica sera campale
  tutta la vita rimarrebber uomini di penna e di pensiero; e più oltre,
  insieme, in un bel disordine, altri commediografi ancora ed altri
  commediai, poeti e verseggiatori che vanno alla burchia, romanzieri
  e imbrattatori di pagine, autori pregevoli e filosofi da dozzina,
  pensatori di certo ingegno ed uomini di lettere cui meglio sarebbe
  convenuto per natura il trincetto e lo spago del ciabattino: tutto un
  piccolo mondo d’intelligenza e d’abbrutimento, di modestie rare e di
  insane alterigie; un piccolo mondo d’uomini rampicanti, che si erano
  degnamente o vanamente affaticati per quell’erta scabra la quale ha su
  l’ápice il sole tormentoso della gloria.
  V’erano giunti alcuni, ed uscivano da quella folla per starsene soli,
  per riparlare delle antiche battaglie con gli emuli antichi.
  Ed uno v’era, dalla bella fronte, dal profilo faunesco, dalla bocca
  ruvida e sarcastica, il quale aveva dato un teatro nervoso alla
  fiacchezza della scena italiana; un altro, pieno d’irrequietezza nella
  stretta persona, pieno di brio nel volto segaligno, che ammulinava
  senza tregua parole come il vento le foglie cadute, ed aveva
  satireggiato lungo tempo in un teatro mondano prima di scoprire in sè
  la vena drammatica.
  Un altro, dalla testa ieratica, gli occhi lucidi nelle occhiaie
  profonde, con qualcosa di adunco e pur di dolce in tutta la sua
  persona secca e stracca, il quale aveva tormentato in più modi il suo
  sogno d’arte, aborrendo il mestiere, correndo intorno alla propria
  anima visionaria, lanciando nel suo buio qualche bellissimo raggio,
  per poterla illuminare tutta, e sentendo con un cuore morto i più
  vivi palpiti della vita. E v’era, lì accanto, per lo più, un uomo
  silenzioso, dal volto arcigno e scontento, che aveva la bocca ormai
  contratta e suggellata in un sorriso pieno d’indelébile scherno e che,
  per sola conciliazione con la vita nemicissima, aveva conservato un
  appetito prodigioso e taciturno. Uomo d’altri tempi, bella tempra di
  combattitore, lucida mente d’osservatore, s’era divertito a sciuparsi,
  a manomettersi con una voluttà crudele. Poneva lo stesso ingegno
  nel compiere un’opera insigne o nel far cosa di nessun pregio; tutto
  aveva sofferto nella vita, le cose più logoranti per la tempra umana:
  l’amore, l’ambizione, il disprezzo, il tormento dell’arte, la lussuria,
  e fors’anche la fame.
  Un altro, dal viso delicato, che rimaneva giovine e quasi monacale nel
  volgere degli anni, poeta di rime cesellate, intorneatore di versi un
  poco artifiziosi, che pareva un essere pressochè incapace di sopportare
  la brutalissima vita moderna, ed avrebbe forse voluto vivere in quella
  remota età ove una bella rima s’incoronava con rami d’alloro. Un
  altro, che aveva portato seco dalla calma laguna la freschezza d’uno
  spirito goldoniano, e vinceva rapidamente la sua battaglia in più
  tenzoni dissimili. Poi v’erano i nomadi, quelli che di tempo in tempo
  giungevano d’altre città, a mescersi per qualche sera nei cenacoli
  d’arte; venuti a spalleggiare un dramma, a proporre una pubblicazione,
  a recitare un poema. E v’erano, ma più spesso in disparte, i giovini
  corteggiatori del grande idolo dalla tromba d’oro, che gareggiavano
  di versatili bizzarrìe, stretti intorno ad un poeta conquistatore di
  stelle, che tutti li soverchiava col suo burrascoso ingegno e tutto
  osava per infuturarsi con una bella temerità.
  V’era un soppraggiunto romanziere, dalla pallida e bella faccia di
  efebo, che si lisciava i lucenti capelli con un gesto discontinuo della
  mano imbrillantata, ascoltando il parlar grasso del bolognese venuto in
  fama di scrittor libertino con un libro d’elogio al lupanare e molte
  istorie di carne venduta. Talvolta era insieme con loro un pallido
  fiorentino, che aveva nella sua faccia mansueta una volontà incisiva
  e già s’era provato in più giostre onorevoli, deciso a conquistarsi la
  vita con un disperato eroismo; mordace, attento, vivo, secco, sicuro,
  raggruppava in sè le sue forze feline per dare il balzo che lo avrebbe
  svincolato dalla folla.
  E più altri che invano contendevano per lo stesso miraggio, discepoli
  d’arti vicine, che avrebbero tenacemente squassato nel buio perpetuo
  la lor fiaccola vacillante, e però si dilettavano d’accanirsi con una
  furia bizzarra contro i più lontani ed i più alti, ai quali la gloria
  aveva già fasciata la fronte con i suoi veli meravigliosi.
  Ma v’erano, tra queste voci discordi, talune voci pacate, ferme, che
  molto rare discorrevano per difendere o per ferire, con la medesima
  giustizia serena. Uomini solitari, cui dilettava lo spettacolo di
  quella sala clamorosa, e venivano a cogliervi qualche significante
  attitudine umana od a temperarvi in silenzio acutissimi strali.
  Fra tutti costoro, lentamente, Arrigo del Ferrante fu accolto. Annodò
  di sera in sera le più svariate conoscenze, sicchè in capo di qualche
  tempo si trovò ad essere un familiare del luogo, ben accetto alle
  diverse compagnie, per quel fascino singolare ch’egli sapeva diffondere
  intorno a sè. Gli artisti lo accolsero in grazia di quel suo fine gusto
  musicale che gli faceva dire cose profonde con una piacevole modestia,
  ed anche perch’egli aveva il dono innato dell’adulazione non servile,
  di quell’adulazione che si lascia credere, che accarezza, che piace. I
  buontemponi lo vollero compagno nelle cene per il suo gaio spirito e la
  sua facile dimestichezza; i donnaioli lo corteggiarono per la sua bella
  donna; i giocatori lo tolleraron nelle partite perchè nessuno trovava
  il pretesto nè il coraggio di metterlo al bando.
  Poi l’abitudine fece il resto, e nessuno pensò più ch’egli fosse un
  intruso.
  Tutto questo gli apriva il cammino per andar oltre. Di lì, alle
  soglie dei circoli mal vietati, alle sale dei palazzi mal vigilati, il
  tragitto non era più che una distanza breve. Bisognava unicamente che
  la fortuna delle carte o la versatilità de’ suoi ripieghi bastassero a
  tenerlo in bílico durante quest’ultima battaglia decisiva.
  Le cose andaron bene e male; ma egli vi rimediò sempre con infiniti
  strattagemmi. Tutto gli servì a trovar denaro nei giorni di bisogno, e
  poichè sapeva di camminare in equilibrio lungo l’orlo d’un precipizio,
  lottò con l’unghie, coi denti, senza riposo e senza mercede. Spolpò
  il padre, la madre, divorò i piccoli risparmi delle sorelle, si fece
  prestare persino l’economie della domestica di casa, firmò cambiali
  agli amici del padre, che, sapendo l’occhialaio abbastanza danaroso,
  fingevano di credere alle sue fiabe e gli davan chi tanto, chi poco.
  Riuscì perfino a riconciliarsi col terribile Riotti e manovrò in guisa
  da potersi creare un piccolo debito con lui.
  Il farmacista, allettato dalle più vicine promesse di matrimonio, si
  turbò al racconto immaginoso che Arrigo gli fece del proprio onore
  compromesso, di quel nome che Arrigo gli dava, chiamandolo suo secondo
  padre, finchè, raschiandosi molto la gola per nascondere una stupida
  commozione, il buon farmacista finì col cedere e slegò i cordoni della
  borsa.
  Ma tutto questo non bastava. Le spese della sua vita crescevano a
  dismisura. Con molti buoni pretesti aveva lasciato comprendere ai
  genitori che non gli era più possibile vivere in quel sobborgo fuor
  di mano, e s’era preso per sè solo un bel quartierino verso il centro
  della città. Lo aveva arredato con mobili presi a credito, ma scelti
  con eleganza, quasi con lusso. Egli desiderava che fosse impossibile a’
  suoi nuovi amici ritrovar la strada tortuosa per la quale era giunto
  sino a loro, e voleva che per nulla al mondo potessero mai venire a
  conoscenza della sua stirpe bottegaia.
  In quel momento le carte gli volser male, e fu la miseria nera,
  assoluta, irreparabile, che gli si mise alle calcagna. Ma il suo
  carattere tuttavia restava in apparenza gaio e speranzoso. Con
  pochi franchi in tasca, lo si vedeva, elegantissimo nell’abito nero,
  girar per i teatri a fianco della Ruskaia sfavillante di gioielli,
  scarrozzare per la città, pranzare nei ristoranti più costosi. Aveva
  il gesto del gran signore anche nel pagare l’ultimo soldo, e nessuno,
  tanto meno la sua dolce Tatiana, doveva sapere quanto costassero a
  lui di fatica e di scaltrezza quelle poche decine di lire ch’ella gli
  faceva spendere, per esempio a cena, in capricciose ghiottonerie.
  Aveva debiti piccoli e grandi per ogni cantuccio; la sua spavalda
  presenza e la sua parola convincente pagavan nel frattempo le più avare
  impazienze. Di notte in notte poteva capitargli di tornarsene a casa
  con le tasche rigonfie d’oro, lo spirito allegro; ma bisognava intanto
  subire le settimane avverse, lottando con eroismo e senza mettersi al
  repentaglio di non poter pagare una perdita al gioco, il che lo avrebbe
  per sempre perduto e bandito.
  Sapeva che in fondo una salvezza c’era per lui: quella di chiedere
  all’amante. Ell’avrebbe dato, senz’alcuna obbiezione, forse con gioia.
  Nella sua frivola incoscienza femminea ella non sospettava nemmeno le
  battaglie del suo Rigo: lo sapeva poco ricco, ma ormai, nel vederlo
  spendere da gran signore, se n’era quasi dimenticata. La donna sovente
  non ha il dono di contare il denaro che si sperpera intorno a lei.
  Qualche volta, vedendolo un po’ buio, pensava che fosse stanco
  d’amarla; s’attorcigliava a lui, gelosa e piagnucolosa, voleva qualche
  giuramento, un bacio, un lungo bacio, e tutto passava. Ma s’egli avesse
  chiesto, certo ell’avrebbe dato, e Arrigo lo sapeva. Egli però esitava,
  già da lungo tempo, non per scrupolo forse, ma per quella diffidenza
  innata che gli suggeriva di non mai darsi materialmente in balía
  d’una donna. Un buon senso naturale gli faceva riflettere che il cuore
  d’un’amante è mutevole, come la sua secretezza malcerta.
  Oggi, innamorata, dà, e la cosa le par semplice; ma domani, stanca o
  abbandonata, si ricorda, nella invincibile avarizia del suo sesso,
  di aver pagato, e inutilmente, sicchè se ne duole. Chiacchiera, e,
  magari per vendicarsi, con due parole avventate perde un uomo. Si sa:
  da un amante la donna passa all’altro, sopra tutto quando crede di
  appartenere per tutta la vita ad uno solo; e la coltre del letto è
  cattiva guardiana di secreti.
  D’altra parte si mormorava già che la Ruskaia gli desse aiuto. Ma erano
  dicerìe timide, campate in aria, che non potevan nuocergli gran che.
  In mancanza di prove concrete, molti consideravano sopra tutto come
  l’affabilissimo Arrigo avesse in ogni caso due spalle ben quadrate,
  una cert’aria da allegro bastonatore, cosicchè il mormorare che si
  faceva di lui rimaneva lontano e sommesso, in quella specie d’atmosfera
  intermedia che sorpassa già la maldicenza comune ma non è ancora la
  gogna pubblica, dalla quale non c’è più salvezza.
  E però il bisogno incalzava; da tutte le parti egli era stretto in un
  cerchio di ferro; aveva esauriti gli altri espedienti; non gli rimaneva
  che tentare quest’ultimo, qualunque ne fosse il rischio, poichè un
  grande amore si ferma talvolta davanti ad una piccola spesa, ed egli
  non si faceva illusioni. Inoltre c’era in lui quasi un vestigio di
  rettitudine o di fierezza, che gl’impediva quest’azione triviale. Dire
  alla sua Tatiana, alla sua piccola amante capricciosa e voluttuosa,
  questa parola orribile: «Dammi!» vedere il denaro monetato passar
  da quella morbida mano bianca nella sua propria forte e rapace, non
  poterla più guardare negli occhi con quell’imperio assoluto che gli
  dava una così bella fierezza di sè, doverle confessare le sue notti
  angosciose, le sue corse affannose per i vicoli oscuri della città in
  cerca dell’usuraio da convincere o dell’amico dal quale estorcere le
  poche lire che avrebbe spese la sera in una bottiglia di Sciampagna,
  e sentirsi addosso quelle due pupille chiare, ferme, attente, con uno
  sguardo quasi di compassione... tutto questo gli repugnava, per quanto
  fosse in lui disperata la volontà di vincere la sua battaglia.
  Ma la cosa nacque da sè, necessariamente, nel modo più semplice. Non
  poteva ella tollerare quelle grandi ombre che si addensavano talvolta
  negli occhi luminosi dell’amante, nè quel segno amaro che gli vedeva
  sovente su l’orlo della bocca, nè quel sapore d’angoscia che tante
  volte si sprigionava da’ suoi baci violenti. Era una dolce amante,
  curiosa di tutte le piccole vibrazioni dell’anima nascosta, gelosa di
  ogni secreto, paurosa di poter perdere in un giorno solo, per una cosa
  minima, tutta la voluttà di quell’amore; e gli diceva qualchevolta,
  fasciandolo con le braccia molli, dandogli su la bocca il suo più caldo
  respiro:
  — Che hai? che hai? Perchè non vuoi dirmi di cosa ti tormenti?
  Egli nulla confessò da principio; tacque, la racconsolò. Ma poi,
  una volta, si lasciò sfuggire qualche mezza parola, fra istintiva e
  calcolata, che gli veniva dal cervello e dal cuore insieme, una di
  quelle parole ambigue che nell’amore fanno tanto male....
  E crollò il capo come per cacciarne una torma di pensieri bui, come
  per ribellarsi contro quel principio di confessione che gli era
  venuta su le labbra. Un’altra volta, parlando dell’avvenire, disse
  che dell’avvenire nulla sapeva, nulla poteva ormai sapere, ed anzi
  non osava guardare più in là del domani, spingere il proprio desiderio
  oltre l’oblìo delle loro voluttuose carezze... Ed accennò vagamente al
  giorno in cui gli sarebbe stato necessario sparire, andarsene chissà
  dove, in cerca di chissà mai qual fortuna, solo e perduto, con questo
  suo terribile amore, che gli avrebbe devastata l’anima sino all’ultimo
  giorno della vita... Nel pensiero di tutto questo, che in fondo poteva
  essere la realtà, qualche lacrima gli luccicava nell’occhio fermo,
  qualche battito forte rompeva il suo cuore violento, perchè, nonostante
  la sua freddezza, era un po’ malato in verità di quella sua bella
  amante dalla boccuccia sempre semichiusa, dalle manine di bambola, che
  aveva in sè stessa la morbidezza delle sue stoffe di seta, l’odore del
  profumo che portava, la musica della sua propria voce.
  E tutto questo finì con una scena violenta, nel mezzo della quale,
  fattosi mettere alle strette, egli giunse a confessarle, scapigliato e
  convulso, con un rantolo nella voce:
  — Ebbene, se lo vuoi sapere, ecco... Non ho più denaro, affogo nei
  debiti, sono in piena rotta con la mia famiglia... devo lasciarti, devo
  andarmene, devo non vederti più, non baciarti più... partire! Capisci
  che significa «partire»? E lo avrei già fatto... ma non posso! Avrei
  taciuto ancora, come taccio da tanto tempo, ma tu hai preteso darmi
  anche questa umiliazione... ecco, ed ora lo sai!
  Per una settimana ella offerse, egli rifiutò. Poi si miser di mezzo una
  cambiale che scadeva, una partita disastrosa, una lunga notte d’amore,
  e da quel tempo, nei giorni critici, la Ruskaia provvide alla vita di
  Arrigo, lasciandolo dilapidar nel suo con la più bella tranquillità.
  Ciò divenne anzi per entrambi la cosa più naturale del mondo.
  
  
  XIII
  
  Ed allora la fortuna tornò; gli arrisero giorni d’abbondanza, sicchè il
  denaro gli affluiva nelle tasche senza quasi ch’egli se ne avvedesse;
  il denaro facile, che viene dal tavoliere, che si vince con un punto
  alto, che si spende con disinvoltura. E la Ruskaia risparmiò, perchè in
  tali faccende Arrigo amava essere onesto e gli pareva di riacquistare
  prestigio quando poteva rispondere alla sua Tatiana: — Grazie, non mi
  occorre nulla.
  Anzi le regalò un bell’anello, dove c’era una pietra che nei giorni
  di bisogno aveva ricevuta contro cambiale da un usuraio, per un
  prezzo indecente. La fece rilegare da un buon orefice; la pietra
  brillò degnamente sul dito esiguo della Ruskaia. Se alcuno potesse
  conoscere la storia di certi gioielli, avrebbe forse di che scrivere
  un libro comico e triste insieme, perchè intorno a tutte le cose che
  rappresentano valore s’annoda sempre uno straordinario viluppo di
  passioni e di bassezze umane.
  Poich’era d’animo liberale, quando aveva denaro spendeva largamente.
  Si risovvenne de’ suoi, fece dono alla famiglia di molte cose che
  sapeva essere nel desiderio del padre, della madre, del fratello, delle
  sorelle; infine, per mettersi un poco in pace con quel bravo Riotti,
  che non poteva rassegnarsi al dilungar delle nozze, pensò di far bene
  arrivando un giorno in negozio con un braccialetto per la sua paziente
  fidanzata. Egli conosceva il cuore umano e sapeva il gran prestigio
  delle cose d’oro.
  Quando l’Eugenia mostrò al padre il braccialetto di Arrigo, il Riotti a
  suo malgrado si lasciò sfuggire una esclamazione di sorpresa.
  — Per Dio, che bel capo! — disse. Poi s’inforcò bene gli occhiali sul
  naso, prese il braccialetto, lo pesò due volte, tre volte, nel palmo
  della mano, con una cert’aria dubitosa, infine lo mise su la bilancia.
  — Ma questo non è oro! — esclamò incredulo, vedendo il peso greve.
  — Altro che oro! — asserì la fanciulla. — Vuoi che Arrigo mi dia roba
  falsa?
  — Allora quello spiantato si è messo a fare il ladro, perchè questo è
  un gran valore, sai!
  E venuto su la soglia della bottega, lo cominciò ad esaminare traverso
  la lente.
  — Il marchio c’è... — borbottava.
  Per maggior sicurezza andò da un piccolo orefice ch’era lì vicino, e un
  po’ confuso d’avere in mano un oggetto simile pregò l’amico di provarlo
  con gli acidi per sapere se fosse oro proprio di zecca, e a diciotto
  carati.
  
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