Colei che non si deve amare: romanzo - 19

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volta a casa sua, quand’era troppo gelosa, troppo triste o troppo
innamorata... Per lo più non lo trovava. Lo aspettava; metteva in
ordine, guardava tutte le sue cose; gli portava mazzi di fiori, glieli
disponeva nei vasi. Toglieva la polvere da’ suoi gingilli, riordinava
i suoi vestiti, i suoi libri; metteva l’ora del proprio orologio con
gli orologi di lui. Ella parlava con Filippo familiarmente; Filippo
era un amico per lei. Spesso gli dava un po’ di denaro o gli portava un
regalo, e intanto, fra un discorso e l’altro, cercava di far raccontare
al domestico tutto quanto sapeva su le abitudini del suo padrone.
Ma il domestico sapeva poco, poi era scaltro. Quand’ella non aveva più
nulla da fare, si metteva in una poltrona, al buio, ed aspettava. Era
paziente; si sentiva quasi felice.
I suoi giorni d’amore divenivano sempre più radi, e però le bastava di
sapere ch’egli veramente non ne amasse un’altra, che a lei rimanesse
anche solo per abitudine o per riconoscenza; le bastava che ogni tanto
egli le sorridesse, con quella sua bella bocca violenta sotto i baffi
sottili, e ogni tanto la prendesse in braccio, la cullasse, lui così
forte, lei così fina, e le dicesse ancora, per ingannarla forse, che
l’amava, che l’amava, con quella stessa voce che gli aveva udita nei
primi giorni, quando non era ancor sua. E le bastava che una volta
ogni tanto ella potesse coprirlo de’ suoi baci avidi e gelosi, de’
suoi baci in cui metteva tutta la disperazione del suo ultimo amore,
poich’ella era più malata che mai, più innamorata, più ardente che
mai. Certo v’era una grande tristezza in tutto questo, ma ella non se
ne lamentava; cercava di essere buona, umile, per soverchiarlo con la
propria dolcezza; e di quel poco era contenta, perch’ella amava sopra
tutto l’amore che aveva per lui.
Ma ora un terribile spavento s’era aperto nell’anima sua; le era parso
d’indovinare la cosa orribile, aveva indovinato, ne era ormai pressochè
certa. Non più il gioco lo distraeva da lei, non le amanti d’una notte,
non le cene, i teatri, gli amici, non la sua tenace ambizione, non la
sua violenta gioventù. Guardandolo talvolta, gli scopriva ora negli
occhi una fiamma non mai veduta prima, e standogli fra le braccia ella
sentiva l’inimicizia, l’avversione, che quest’uomo celava ora contro
di lei. Dunque s’era innamorato, dunque glielo avevano tolto; nel suo
cuore insensibile era nata una passione selvaggia... E per chi? per
chi?
Aveva passati giorni e giorni osservando, indagando nella sua vita
con quella pazienza femminile che noi non conosciamo; poi un barlume,
un dubbio era balenato nella sua mente, le si era infitto nel cuore,
seducendo lei stessa, mentre l’atterriva, con la sua potenza nefanda.
Ch’egli avesse amata un’altra donna, anche giovine, anche bellissima,
questo era forse nella sorte naturale delle cose; le pareva che in tal
caso avrebbe saputo comprenderlo, perdonargli e rassegnarsi anche a
questo nuovo dolore. Poich’ella stessa era desiderabile ancora e poteva
sperare di vincere con la pazienza, con l’amore suo più forte, con
l’indulgenza sua più grande, infine con uno qualsiasi tra que’ mezzi
femminili che valgono a ricuperare un possesso perduto.
Ma invece accadeva la cosa più imprevedibile, si elevava contro di lei
la più inattesa e formidabile nemica. Poich’egli non s’era innamorato
d’una donna che fosse bella o giovine soltanto, che potesse avere
una bocca più fresca della sua, una pelle più morbida, un corpo più
voluttuoso; non solo d’un’amante che fra le coltri lo sapesse meglio
accarezzare, che fra la gente potesse meglio lusingare la sua vanità;
non insomma d’una fra quelle tante che son tutte destinate a perire,
a passare, a conoscere anch’esse il tormento della fine... Ma invece
aveva scaldato in sè il più divorante fuoco, s’era lasciato invadere
da una rossa demenza, si dibatteva in una lotta feroce contro il
demone della sua stessa colpa, voleva cogliere il dolcissimo frutto
avvelenato, quello che torce, che perde, che fa impazzire, quello dopo
il quale tutti gli altri non hanno più sapore.
Egli non amava una donna soltanto; amava la sua sorella, una sorella di
vent’anni, ancora intatta, che forse, che certo amava lui; una sorella
che aveva in più di tutte l’altre il dono d’essere il peccato, il dono
di portare nel suo grembo il sacrilegio, ne’ suoi baci la dannazione, e
di chiamarsi «sorella», ossia di nascondere in questo nome trasparente
come la purità il significato più divino e più terribile che sia
nell’amore.
Forse i grandi peccati propagano intorno a sè una specie di atmosfera
malefica, di ambiguità quasi tangibile, per la quale inevitabilmente
giungono a farsi avvertire dalle vigilanze altrui. Il primo giorno
che questo dubbio era balenato nella sua mente, ella súbito l’aveva
respinto, se n’era sdegnata contro sè stessa, s’era trovata abominevole
per aver concepito un simile pensiero. Ebbe quasi paura che l’aver
pensata una tal cosa potesse rendere una tal cosa verisimile.
E si mise con affanno a cercare un’altra spiegazione, a scoprire
un’altra verità, meno orrida... meno affascinante! Se questo pensiero
assiduo le martellava nel capo, ella compiva uno sforzo quasi fisico
per allontanarlo da sè.
E però tornava, forse rievocato solo dalla paura che ne aveva; tornava,
perchè noi ci somministriamo senza volerlo, con una gioia crudele,
tutte le immaginazioni che ci dànno più tormento; perchè l’orrido ci
attrae, perchè il peccato, anche il peccato altrui, è la più grande
suggestione che possa corrompere lo spirito nostro. Tornava, perchè
pensando alla possibilità di questo amore, alle sue gioie più che
umane, ella sentiva nascere in sè le radici, fremere in sè i tormenti
di questo inconfessabile amore.
E siccome talvolta siamo i peggiori nemici di noi stessi, ella cominciò
a pensare quale sarebbe stata la sua tortura se questo dubbio avesse
presa la consistenza della verità. L’onda sensuale di quella colpa
ineffabile si frammise alla sua paura, alla sua gelosia, corse in
lei, facendole intendere l’ebbrezza che quei due potevano sentire se
veramente s’amavano. E mentre andava cercando le prove che questo amore
non fosse, in verità ella era tentata e soggiogata dalla voluttuosa
paura di scoprirne l’esistenza.
Con lei d’altronde Arrigo non era guardingo abbastanza, poichè non
credeva ch’ella potesse avere sospettato. A lui stesso, qualche
rarissima volta, piaceva parlarle della sorella, cosa che in addietro
non accadeva mai. Gliel’aveva descritta con frasi calde, ma vigilando
insieme le proprie parole, quasi temesse di potersi tradire. Le aveva
pure mostrato un ritratto di lei, un ritratto recente, fattole fare
in quei giorni. Poi, talvolta, son gli estranei, che con una frase
innocua ci rivelano una grande verità. Molti eran venuti, nel modo più
naturale, a parlarle di lui e di lei, narrandole particolari futili,
cose prive per sè stesse d’ogni colpevolezza.
Li avevano insieme veduti per istrada, nei teatri, alle corse, altrove;
li avevan anche ammirati, perchè sembravano volersi molto bene. C’era
chi gliel’aveva descritta: una bionda, ma d’un biondo color cenere, col
visino fresco, il profilo non del tutto puro e però graziosissimo, la
bocca sempre in sorriso, il corpo ammirevole.
Non gli somigliava affatto affatto; aveva l’aria un po’ di scapatella,
e così alcuni, da principio, avevano supposto che fosse una sua piccola
amante... Ecco, alle volte, com’è facile ingannarsi!...
. . . . . . .
— Inségnami a remare! — ella disse allegramente, nel pomeriggio di quel
primo giorno.
— Non ti pare che faccia un po’ caldo ancora? Sarebbe meglio attendere
più tardi.
— No, súbito, súbito!
E calzata di bianco, con una gonnella di tela bianca, che le scopriva
le caviglie, un cappellone di paglia piegato sul viso, ella scendeva
con ilarità per i viali del fragrante giardino, che aveva tanti profumi
e tanti colori quanti ne può adunare insieme una primavera italiana.
Ella si divertiva; tutto questo era nuovo per lei; non s’era forse
mai trovata in un albergo elegante, ben di rado aveva inteso parlare
i linguaggi stranieri, non s’era mai sentita così libera e così felice
come in quel giorno.
Aveva una bella camera, con un terrazzo verso il lago, e la camera
d’Arrigo era comunicante con la sua. Sul terrazzo, ricoperto da una
tenda a striscie bianche e turchine, le avevan messo una seggiola a
sdraio, di vimini, con molti cuscini. Appena giunta vi si era distesa,
un po’ stanca, e s’era messa a guardar intorno, a sognare.
Le si apriva dinanzi il lago immutabilmente azzurro, con le sue rive
dense di villaggi, sparse di campanili e di torri, il lago solcato in
ogni senso da uno sciame di barche, leggere come petali di fiori sopra
una fontana. Pareva le muovesse un dolcissimo vento, non la fatica
dei remi, e cullassero il sonno di gente oziosa. Udiva ogni tanto una
sonagliera di cavalli squillare, lontanando per il bianco scintillìo
delle strade maestre; vedeva le automobili passar veloci, fragorose,
lasciandosi dietro una gonfia nuvola di polverone, i battelli giungere
ad intervalli, carichi d’una folla gioconda, che facendo ressa per le
scale montatoie sbarcava sui pontili d’approdo.
E per lei tutto questo era nuovo, le raddoppiava nel cuore il senso
della giovinezza; voleva in un giorno solo tutto vedere, tutto godere.
S’era côlta nel giardino un bel mazzo di rose gialle, Arrigo ne aveva
tolte le spine, gliele aveva messe alla cintura. Andavan ora verso la
darsena per scender in una barca ed allontanarsi dalla riva.
Egli non era più così tetro come nei giorni passati; un senso di
beatitudine e di pace ritornava in lui; gli pareva quasi che quel cielo
così aperto fosse indulgente alla sua colpa, ed in verità un più sano
respiro dilatava il suo petto capace. Mentr’ella diveniva più fanciulla
e pareva scordarsi fra quella novità il suo torbido amore, egli si
compiaceva nel circondarla di tante piccole premure, come si fa per
un’amante.
La città era lontana, quasi dimenticata; nessuno li conosceva in quel
sereno golfo lacustre, in mezzo ai fiori esuberanti, con intorno la
catena quasi glauca delle montagne, tra l’odor vegetale dei prati
maggenghi, nell’aria limpida e sana. Egli non aveva più il terrore che
alcuno sorprendesse il suo segreto, e vicino a tutte le semplici cose
della terra gli pareva che nel suo sentimento fosse entrata una qualche
purità. Non voleva pensare più a nulla, ma solamente godere con pieno
abbandono quei giorni di oblìo.
In fondo comprendeva che la nostra coscienza è talvolta una semplice
paura dell’opinione altrui.
Scendevano verso la darsena per i viali del giardino traboccante,
mentre di poco il sole aveva sorpassata l’ora del meriggio e traeva
da tutte le cose un insostenibile fulgore. Con il suo vestitino di
tela bianca, la gonnella corta, un velo azzurro su le spalle, il gran
cappello di paglia a larghe tese, ella pareva più giovine di qualche
anno e la sua irrequietezza era veramente quella d’una bambina.
Si chinava tra i fiori, saltava le piccole siepi, gettava sassolini per
rompere lo specchio delle fontane, faceva una piccola corsa, tornava.
Era un po’ accaldata, gli occhi le brillavano, il suo petto si gonfiava
per respirare a lunghi sorsi quell’aria profumata, e parlava, parlava,
ed ogni piccola cosa la faceva scoppiare in una risata così limpida che
i taciturni forestieri si volgevano sorridendo a guardarla.
Egli non viveva di sè, ma di lei sola viveva, con un profondo tremore
d’anima e di amor carnale. Udendola ridere, una grande allegrezza
empiva il suo recesso cuore; s’ella correva per il giardino, avrebbe
voluto egli pure mettersi a correre come un fanciullo; se una cosa le
dava godimento, anch’egli ne traeva piacere, nè mai si ricordava per
l’innanzi d’aver concepito in un modo così elementare il senso della
felicità.
Ma v’era nel suo vigile spirito una parte che rimaneva incapace
d’allegrezza e dove il sole del bel pomeriggio non mandava nessuna
chiarità; una parte religiosa e recondita, che in lui pesava come su
la terra un feretro: quella dove il suo perduto cuore misurava con
spavento e con viltà il rimorso della colpa inesorabile.
Ma quando l’udiva parlare, la sua voce stessa gli prodigava gioia,
correva per entro le sue vene, scendeva in lui come una musica divenuta
piacere; quando la vedeva muoversi, ridere, vivere, splendere, gli
pareva che ogni movimento svestisse di quegli abiti leggeri la sua
perfetta nudità, e mille volte, in quell’ebbro giardino, tra i fiori
gonfi di pòlline, coricava la sua bianca gioventù nel meraviglioso
peccato...

— Remi bene tu? — ella domandò al fratello, saltando nella barca ed
aggrappandosi a lui per non perdere l’equilibrio.
— Una volta, sì, remavo bene; ma ora forse ne avrò perduta l’abitudine.
Tuttavia non vollero barcaiolo; andaron soli, perchè nessuna vigilanza
importuna turbasse il loro intimo godimento. Egli remò con lentezza
finchè furono discosti dalla riva, ed ella, cantando, reggeva il
timone. Il lago era fermo, senza un’onda nè una scìa. Nella sua
limpidità, le alte montagne propagavano una immobile ombra, che pareva
subacquea. Le ville, i golfi, le rive, l’aria, l’acqua, la montagna,
tutto nello spazio brillava d’un glorioso trémito.
Arrigo la guardava: ell’aveva posato i piedi su lo stesso appoggiatoio
contro il quale premeva egli stesso nell’inarcarsi per remare; la
gonna corta erale un poco scivolata in su, ed egli vedeva le sue
fine caviglie uscire dalle scarpette scollate, poi salire con ugual
simmetrìa, come fusi perfetti, e sparire tra i pizzi della gonnella
in un principio d’oscurità. Portava le calze di seta, color cenere,
traforate, luccicanti. Con la punta dei piedini irrequieti, ogni tanto
per ischerzo, ella toccava i suoi. E ridevano, ridevano entrambi, senza
parlarsi.
In quella pace, nella lentezza della remata, nel dondolìo della barca
navigante, comprendevano come la più dolce cosa fosse guardarsi e
tacere.
Egli l’osservava. Nel sole, nella grande vampa, la sua carne
s’impregnava d’una trasparenza bionda, come i cálici delle rose tee; la
vellutatura della sua pelle brillava minutamente, l’ombre ne parevano
più scure. L’esaminò, e si avvide, forse per la prima volta, ch’ella
non aveva la bocca pura, non la bocca dei suoi vent’anni, limpida e
quasi leggera come lei, ma una bocca sensuale, calda, troppo rossa,
troppo viva, una bocca di donna già molto baciata, già esperta di tutte
le lussurie che insegna l’amore. E allentandosi nel colpo della remata,
con il corpo all’indietro e gli occhi semichiusi, egli si stendeva con
un lungo brivido sensuale sotto il bacio di quella bocca impura.
Nel calor del giorno, tra il riverbero del sole sfavillante, lasciava
ella pure che le palpebre le scendessero a metà su gli occhi un po’
ebbri di luce; un senso di stanchezza beata le si diffondeva per il
viso, per tutto il corpo, inondandola di riposo come dopo una fatica.
Ed egli più non rivide in lei quella che nel giardino saltellava tra
i fiori buttando ciottoli nelle fontane, ma un’altra, che aveva su la
bocca il riso della donna perduta, e pareva quasi addormentarsi dopo
aver patito un violento piacere, un’altra, ch’egli si raffigurava
distesa in un letto d’amore, nuda, con le braccia lente lungo i
fianchi, abbandonata nel soave riposo del piacere sofferto, nuda e
stanca in un letto d’amore, con il capo vôlto da un lato fra i capelli
semisciolti, la bocca umida, gli occhi appassiti, scuri come le
violette...
Egli remava lento, lento, nella infinita luce. Una riva s’allontanava,
l’altra era pur lontana, tutto pareva cedere al sonno, sentirsi
opprimere dallo splendore, in quel pomeriggio di sole. Passaron presso
un pescatore, che aveva la sua barca ferma e la lenza nell’acqua. Piano
piano, senza far romore, scivolaron oltre.
Egli l’osservava: teneva in una mano e nell’altra le due funicelle
del timone; ma le due mani le riposavan nel grembo, semiaperte, quasi
addormentate, sicchè al più leggero strappo del timone avrebber forse
lasciati sfuggire i due cánapi. Quelle mani, il sole le dorava; parevan
un po’ scure su la bianchezza della gonna. Anch’esse, come la bocca,
non rivelavano alcuna purità. Eran fatte per tutti i peccati, erano
destinate ad infliggere carezze tormentose, avevan nella lor forma
innocente qualche segno che ne tradiva l’attitudine al vizio. E sul
viso caldo, su la bocca un po’ arsa, per tutto il corpo affaticato dal
lungo desiderio, egli sentì passare la carezza di quelle mani lascive,
una carezza che lo snervava e lo torceva, prodigandogli una voluttà
piena di morte, dalle radici dei capelli fino all’ultime sue vene.
Allora lasciò i remi, si curvò innanzi e la baciò.
— Che fai?... — diss’ella come destandosi, maravigliata.
— Ti amo, — egli rispose, circondandola con le braccia, e guardandola
negli occhi pieni di sole, tutto proteso e curvo su di lei, con la
bocca immersa nel suo vivo respiro. Per scuotersi da quel torpore,
ella si stirò con indolenza sotto di lui che le pesava un poco adosso,
e levate le braccia, con un movimento pieno d’amore gliele strinse al
collo, rovesciando il capo all’indietro, chiudendo gli occhi, beata.
Su l’acqua, su tutta l’acqua, parve correre in un tremor di luce il
palpito delle loro anime innamorate.
— Báciami... — ella profferì, quasi volesse tradurgli con parole quella
pienezza di gioia che le inebbriava i sensi. — Báciami ancora una
volta, come hai fatto prima... così... così...
Egli la baciò di nuovo su la bocca umida, golosamente, come si sugge
un favo di miele. Ed ella passava le dita nella sua capigliatura, gli
scopriva le tempie, la fronte, pettinando piano piano i suoi capelli
con una prolungata carezza.
— Mi sento felice... — ripeteva, gonfiando nel respiro la sua gola
giovine. — Vorrei dire tante cose inesprimibili... vorrei quasi
cantare, sì, cantare di gioia!...
E volse gli occhi tutt’intorno, per quella vampa infinita, e le parve
di abbracciare in sè stessa tutto lo splendore che vedeva.
Egli la fissò profondamente, con una ferma potenza negli occhi:
— Sei mia, o cosa pensi? — domandò con affanno, quasi con ira. E così
forte la strinse nelle sue ruvide braccia, ch’ella parve sentirne
dolore.
— Perchè mi domandi questo? perchè fai così?... — disse, con un’ombra
di paura.
— Nulla, è nulla... non badare a quel che dico. Ridi, Loretta, ridi
ancora!
E si levò, si rimise a remare. Su la sua faccia era nuovamente
scesa quell’espressione di violenza e di tormento che spesso lo
contraffaceva; tutto il suo corpo straordinariamente agile si piegava,
si distendeva, con impeto nello sforzo di arrancar sui remi; lo snello
battelletto correva; l’acqua sferzata saltava con rapidi arcobaleni.
— Che hai? Perchè ti stanchi così?
Egli non rispose, anzi remò più forte.
— Lascia provare a me, — diss’ella; — voglio remare anch’io.
E fece atto di levarsi.
— Non ti muovere, non ti muovere, se no cadrai.
— Voglio remare anch’io; lascia che provi.
— Sì, aspetta. — E ansante abbandonò i remi.
— Come sei forte! Ora si correva!
Egli le sorrise nel tergersi il sudore che gli colava dalla fronte.
— Allora vuoi remare?
— Sì.
— Bene, proviamo: io mi siedo su l’altro banco e tu verrai qui.
Cambiò posto, mise in acqua un altro paio di remi e le tese una mano
per sorreggerla mentre passava. Quando fu seduta, la baciò ancora su
la nuca e su la tempia, la cinse, la tenne imprigionata. Ridendo, ella
premeva la guancia contro il suo collo nudo; poi disse:
— Perchè mi hai fatta quella domanda, Rigo?
— Volevo sapere se mi ami, se mi ami davvero... — egli rispose con una
timidezza d’amante.
— E non lo sai dunque?
L’altro non rispose; le insegnò a tenere i remi, le accompagnò il
braccio nella remata.
— È facile! — rispondeva la fanciulla. — Vedi che so remare anch’io?
— Piano, fa piano, senza stancarti... Non affondare troppo il remo
nell’acqua; così, guarda. Snoda il polso quando ti pieghi avanti,
fletti la mano in basso quando dái la remata... Così, va bene.
Ella si divertiva; guardava un remo, poi l’altro, che non andavano
insieme.
— Perchè non si cammina? — fece, indispettita.
— Si cammina adagio adagio.
— Voglio fare come fai tu.
— Abbi pazienza, ora t’aiuto.
Si mise anch’egli ai remi e navigaron fino a sera; fin quando su le due
rive, sparse d’indaco e d’oro biondo, cominciarono a suonar da lungi le
campane di tutte le chiese.


XIII

S’erano vestiti rapidamente per il pranzo; egli era entrato nella sua
camera ad allacciarle il vestito, poi era mutamente rimasto a guardarla
mentr’ella finiva di lustrarsi l’unghie e di togliersi la cipria
dal viso. Le dolevan un po’ le mani per l’asprezza dei remi e se ne
lamentava ogni tratto con una voce di bimba viziata. Per consolarla,
egli le prese carezzevolmente le mani fra le sue, dicendole:
— Domani remerai di nuovo, il dolore passerà.
Eran poi scesi a pianterreno, discorrendo fra loro di cose gaie, s’eran
fatto apparecchiare un tavolino sul terrazzo ed avevano comandato
copiose vivande, perchè una fame robusta li pungeva dopo quella
giornata d’aria libera.
Le vetrate erano aperte verso il giardino; gli sciami notturni, densi
come polvere infuriata, ronzavano in larghi túrbini assalendo i globi
elettrici sospesi nella compattezza del fogliame; saliva dietro la
montagna dell’altra sponda una mezzaluna bianchissima nel cielo ancor
pieno di crepuscolo.
Molta gente pranzava intorno a loro, e Loretta, curiosamente, osservava
l’un dopo l’altro que’ numerosi commensali. Parlando, considerava i
gioielli che vedeva brillare indosso alle signore, poi sorrideva di
certe scollature ferocemente ossute, di certe pettinature strette
e rade come gomitoli venuti agli ultimi fili. Ma v’eran lì presso
tre giovani signore, che Arrigo suppose fossero Americane, le quali,
senz’essere compiutamente belle, pur avevano in tutta la persona que’
robusti e gentili segni di eleganza che formano la particolare bellezza
di questa nuova stirpe atlantica. Simili per nobiltà di sembianze a
giovani dogaresse, queste repubblicane d’oltremare possedevano già, nei
loro profili antichi e limpidi, quella verace purezza di origine che in
esse, figlie di mercanti, consacrerà l’imminente aristocrazia. Erano
vestite con amabile sfarzo, erano coperte di gioielli, e Loretta le
ammirava.
— Vorrei essere molto ricca per avere un bel filo di perle, — disse
al fratello con gelosia, toccandosi la gola nuda, che portava la sua
gioventù come una stupenda collana.
— Ti piacciono tanto le perle?
— Sì, tanto! Sono il gioiello che preferisco.
E soggiunse con una specie di rancore, dopo aver riflettuto:
— Com’è stupido esser poveri!
— Allora, — egli le domandò, guardandola — tu vuoi diventar ricca ad
ogni costo?
— Io sì! — rispose con fermezza. E l’avidità, la venalità, il piacere
del lusso, la smania di molte ambizioni ancora insoddisfatte balenarono
insieme nel suo volto.
Pur tacendo, egli parve assalito da un malessere intimo, ed ella, senza
dubitare che tali parole dovessero farlo soffrire, aggiunse:
— Per questo non ho voluto perdere di vista Rafa. Rafa mi potrebbe dare
tutto quello che voglio.
Gli occhi del fratello divennero estremamente grandi e fissi, la sua
bocca ebbe una contrazione irritata. Si volse alla finestra e guardò
fuori, verso la riva notturna, verso il lago pieno di stelle, che nella
ferma sua limpidità si copriva d’un lenzuolo d’argento.
— Non lo credi anche tu? — ella fece ancora.
— Certo! — egli rispose con asprezza; — Rafa può pagarti bene.
Ella subitamente arrossì; nel suo pudore di fanciulla si sentiva ledere
tuttavia da quella frase crudele.
Abbassò gli occhi e tacque.
— Non mangi? — disse Arrigo dopo una lunga pausa.
— Mi hai resa triste... che peccato!
— Via Lora, non ti offendere!....
E le tese la mano sopra la tavola, quasi volesse far la pace con lei.
Era molto ghiotta, le offrivano cose delicate, poi quel giorno aveva
molta fame: dimenticò.
— Voglio bere un bicchiere di Champagne, — diss’egli, — come la prima
sera che abbiamo cenato insieme, ti ricordi?
— Io mi ricordo ogni cosa ch’è stata fra noi, — ella rispose con
tenerezza. — Tutto ricordo, e non dimenticherò.
Il maggiordomo portò la bottiglia senza romperne i suggelli, poi la
ravvolse, l’imbavagliò, d’un tovagliolo bianchissimo, e la mise a
raggelare in un secchio appannato, che un treppiede reggeva presso la
tavola. D’improvviso ella fece una riflessione:
— Vorrei sapere cosa la gente pensa di noi.
— Perchè?
Ella segnò con un gesto solo sè stessa, lui, la bottiglia di Sciampagna:
— Scommetto che mi prendono per chissà chi... — disse. — Veramente non
ho l’aria d’essere tua sorella, nè tua moglie.
E rise; la sua bocca umida scintillò d’un riso inverecondo.
— Scommetto — riprese — che mi credono magari una «cocotte»!
— Sei pazza! — esclamò il fratello ridendo egli pure.
Ma questo nome non le dava noia, che anzi pareva in un certo senso
lusingarla e chiudere nella sua volgarità un significato pieno di
seduzione.
Voleva dire per lei possedere molti armadi stracarichi d’abiti
sontuosi, molti cofani pieni di gioielli splendenti, e ballare nei
carnovali, e ridere nelle cene, ed avere nella sua casa profumata un
gran letto d’amore.
Ella si sentiva invincibilmente attratta verso questa vita di
piacere, nè il suo corpo era fatto per il desiderio d’un uomo solo.
Non albergavano in lei sogni di maternità e di famiglia, ma il suo
cuore volava impaziente in cerca d’altre gioie meno tranquille.
Quella bottiglia di Sciampagna, che le metteva nel capo tanti
pensieri giocondi, non era per lei solamente un vino aggradevole al
suo palato, ma un simbolo quasi di tutta quella vita che le piaceva
ed a cui la chiamava un fervido bisogno di godimenti. Ella voleva
essere desiderata, infondere il piacere, prodigare la gioia, perchè
la sua missione femminile non altra era se non quella di tentare, di
esasperare, d’infliggere con il suo corpo voluttuoso il tormento e il
gaudio che ardon nell’essenza dell’amore.
Il turacciolo saltò con rumore sotto la furia della bianca spuma e
dalle coppe ricolme sprizzarono minutissime scintille. Ella v’intinse
le labbra, golosamente, bevve d’un fiato; egli sorseggiò il bicchiere
con lentezza, guardandola; poi si fece ricolmar la coppa e la bevve
d’un sorso.
Un’orchestra nel giardino attaccò il valzer della «_Vedova Allegra_»;
dietro un gruppo d’alberi s’intravvedevano confusamente i suonatori,
seduti in cerchio sovra un palco rotondo, illuminato a palloncini
giapponesi, che di quando in quando il vento faceva oscillare.
I gelsomini di bella notte spandevan nell’aria limpida ondate di buon
odore.
— Com’è bello qui! come tutto è bello qui! — ella esclamò gioconda. —
Ma tu non parli... Che hai?
Egli aveva bevuti tre o quattro bicchieri di Sciampagna, l’un dietro
l’altro, cupamente; si mise a ridere d’un riso innaturale e disse:
— Ascolto la musica; questo valzer è una persecuzione, lo suonano
dappertutto.
— Mi piacerebbe ballarlo, — ella disse; — ballarlo con te.
Sotto la tavola, con il piedino calzato di raso, batteva il ritmo della
danza. Riempiron le coppe un’altra volta, e furon vuote. Le saliva, da
quel vino pungente, un calor lieve alle gote; i suoi occhi brillavano
fra le ciglia orlate d’un luminoso tremito. Ora, godendo il caldo
benessere che le scorreva per le vene, s’abbandonò indietro, contro la
spalliera, tese le braccia nude su la tovaglia, e sorrideva come in un
rapimento, in una estasi che le avvolgesse tutto il corpo, tutto il suo
morbido corpo desideroso.
— Se fossimo soli ti bacerei... — confessò con un leggero tremito.
Di là dalla vetrata, nel giardino, una grande magnolia si vestiva
d’argento nel chiaro di luna, portando sovr’ogni ramo un magnifico
fiore.
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