Colei che non si deve amare: romanzo - 25

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divenuto anche geloso, terribilmente geloso. Non dipendeva che da me
l’appagarmi, eppure non potevo! C’era uno spavento, che so? un terrore,
qualcosa fra me e lei... ombre, fantasmi, ch’ella non vedeva. Io sì:
terribili! Mio padre qualche volta... ed ancor più la mia carne stessa,
che non poteva contaminare la sua. Perchè?... Lo sai tu il perchè?
Clara lo ascoltava, up po’ ansante, un po’ curva, senza battere le
ciglia, senza muovere la bocca, incatenata, affascinata.
— Lo sai? No, tu neppure non sai dirmelo. Bisognava osare. Adesso è
troppo tardi; un altro me l’ha presa... è tardi! Mi amava: non mi ama
più. Si è data, con gioia forse, perchè io l’avevo tormentata, e perchè
sono stato anche vile: sono fuggito, lasciandola sola. Ho lottato
contro di me, contro di lei, con un eroismo inutile. Bisognava osare.
Invece che ho fatto io? L’ho spinta con le mie braccia nelle braccia
d’un altro. Li ho lasciati fuggire, intendi? fuggire insieme...
Egli fece una lunga pausa, perchè l’affanno lo soffocava; poi
ricominciò: — Un giorno, mi ricordo, è venuta nella mia casa, e si
è spogliata. Non dimenticherò mai quella prima volta che vidi le
sue spalle nude. Ed anche una certa notte non dimenticherò, quando
eravamo in un letto, nel medesimo letto, insieme, ed ella mi carezzava
con tutta la sua persona profumata, mi avvolgeva, mi tormentava,
si attorcigliava contro me con tutta la sua gioia, con tutto lo
spavento che può essere nel primo desiderio d’un’amante. Ma, invece di
prenderla, invece di concedere a lei ed a me questa felicitò orrenda,
sai che ho fatto io?... Sono fuggito. Uno spettro mi ha cacciato
indietro, afferrandomi alla gola; uno spettro scarno e livido, che
vedrò sempre nella luce della mie pupille, finchè io viva: — mio padre.
Sono fuggito lontano, all’impazzata, in cerca d’una liberazione. Mi
odiavo, sentivo di me lo spregio che si può avere della bestia più
immonda, ma non potevo non amare lei. Questo desiderio mi veniva
dietro, fischiando, come un agile serpente. Ho tutto scordato, fuorchè
lei: ho rotta la mia vita irremediabilmente, son pieno di rimorso, ne
trabocco... e pure non posso vincere la mia colpa, non so concepire
altra passione al mondo che il desiderio di possedere lei...
Fece un’altra pausa, e si piegò su sè stesso come un uomo ferito nel
petto, che voglia contenere la morte. Indi ricominciò:
— Vedi? un altro me l’ha presa! C’è ora chi può dirle: «Sei mia.»
Un altro le dorme vicino, la gode, la bacia. Ormai tutti lo sanno
e se ne parla fino per istrada. Ebbene, che fa? Ne ridono... Che
fa? Mi chiudono le porte in faccia dappertutto, mi dileggiano, mi
respingono... Che fa? Che fa? Lei sola è colpevole di tutto questo, ma
l’amo ancora, e più ancora, sempre più... Forse l’amo con odio, ma il
mio odio è così bello e così pieno d’inesorabilità, che deve ancora
chiamarsi un terribile amore. Vedi, son pieno di rimorso, e forse ti
faccio soffrire, ma lo dico a te per la prima, a te sola... Farle male
voglio, anche se grida!... Berle tutto il fiato in un sorso, appagare
il mio peccato fino alla sazietà... E dopo? Non importa! Anche se
questo mi costasse la vita, che fa, Clara, che fa?...
Nella piccola sala, piena di quella voce sorda, un occhio di sole si
mise a scintillare sopra una scatola d’argento.


IX

Faceva una notte di stelle nella piena estate; Lazzara era uscita
in cerca di lucciole, e tornava portandone assai, racchiuse in una
prigione fatta col suo grembiule riverso.
Amava le lucciole, la libertà, i campi; era selvaggia come i suoi
capelli, ch’eran d’un biondo pallido, soffusi d’un colore di cenere
spenta.
— Molte ne ho prese! — gridò verso la piccola veranda. — Guardate,
signora: splendono!
Lora s’affacciò al terrazzuolo e rispose alla fanciulla: — Vieni su.
Ella corse per i dieci gradini con una leggerezza di gatta selvatica,
venne davanti alla sua signora e disse:
— Guardate.
Aperse il grembiule di colpo, e le lucciole, tornate libere, volaron
via sguinzagliandosi, tremule, come fuochi fatui, nella notte piena di
stelle.
Risero entrambe d’un riso chiaro, che squillò dal terrazzo carico di
vanzianelle sopra il silenzio del giardino fragrante di póllini maturi.
Un lume velato ardeva sopra un tavolino di giunchi; torme di moscerini
aliavano per intorno, bruciacchiandosi le ali, seminando il chiaro
tappeto d’innumerevoli agonie. Loretta, per aver fresco, s’era messa
una vestaglia scollata, in fil di lino. Noiata e stanca, dopo la cena
solitaria, non si era sentita la voglia nè di uscire a piedi per i
sentieri dei vigneti, ove pesava la vendemmia, nè di correre per le
strade maestre, bianche di polvere, tra le infinite messi cariche
di frumento, al trotto dei due polledri sauri che Rafa le aveva
noleggiati presso un vetturale di que’ dintorni. Ma invece, la sera
dolce, inebriandola a poco a poco, l’aveva lentamente addormentata
su la poltrona di vimini, presso il lume velato, fra i giornali
d’illustrazioni e di mode, ch’eran scivolati a terra in disordine
mentr’ella si addormentava.
Col suo grido Lazzara l’aveva ridestata; ed ora stavano entrambe a
guardar le lucciole, che volavano via spegnendosi a poco a poco, nel
buio, come lucígnoli deboli sotto il vento.
Nell’aria ferma, poco più su che le cime degli alberi, il calor del
giorno pareva esser rimasto sospeso come un gonfio lenzuolo pressochè
invisibile; tutto, a perdita d’occhio, pareva sopraffatto ed esausto
per la fatica enorme dell’estate.
A quell’ora, nella villetta, nella casa rustica del giardiniere, nel
villaggio poco lontano, i contadini, gli artigiani, dormivano con
serena pace; non si udiva che la cantilena lentissima d’una donna, la
quale forse ninnava il suo bimbo.
Quando l’ultima lucciola si spense, laggiù, dentro un cespuglio,
Loretta disse a Lazzara:
— Dove sei stata?
— Nei campi.
Ed aveva su la gonna infatti qualche fil di fieno.
Certo se n’era andata in cerca di lucciole, per trovarsi fuori dal
cancello con Benedetto che l’aspettava; poichè Benedetto era un bel
giovine e le faceva la corte. Ecco, era tornata con le sue lucciole,
co’ suoi capelli sempre spettinati, ed alla cintura portava un garofano
rosso che prima era stato all’occhiello del suo galante.
— Questa sera non verrà il signore? — domandò Lazzara.
— Non verrà. Almeno ha detto che non verrà, — Loretta rispose.
A Villa Giuliani quella sera si dava un pranzo e Rafa era costretto a
rimanersene in famiglia, dove le sue troppo frequenti assenze, le notti
passate fuor di villa ed i mormorii del vicinato avevano già fatto
nascere qualche malumore.
— A meno che non venga più tardi, — fece Lazzara; — magari dopo la
mezzanotte, come sabato scorso.
— Può darsi, — rispose Loretta. Ed affacciatasi al terrazzuolo,
guardò con uno sguardo errante la fantastica notte, simile quasi ad
una bellissima donna ignuda, che ricurva su lo specchio della terra
si andasse lentamente pettinando le lunghe sue treccie nere, cosparse
d’una polvere d’oro che scintillava e tremava come un denso pulviscolo
di stelle.
Eran diventate amiche durante quelle poche settimane, poichè l’età
le univa e qualcosa forse di concorde nel dissimile cuore. Lazzara si
occupava di governar la casa, ripuliva, rassettava, ricuciva, dava di
mano alla cuoca, faceva un po’ di stiratura; ma quantunque non avesse
che un semplice abito nero e tutta l’eleganza sua fosse ne’ grembiuli
fini, questa graziosa villanella era quasi una signorina, una signorina
molto strana.
E Loretta l’amava; nelle calme ore d’ozio si tenevan compagnia;
discorrevano insieme, a lungo, di cose lievi, lievi come le farfalle.
Lazzara era la figlia spuria d’una donnaccia del paese, nátale da un
amore di strada maestra, fra le calde vendemmie. Costei beveva e la
picchiava. Un giorno scomparve. Dissero che fosse andata in città a
prostituirsi nella mala vita, e più da quel tempo non la si rivide.
Allora Lazzara divenne la più trista e lacera monella che fossevi
nel villaggio. Da principio il parroco, un buon vecchio prete, ch’era
venuto ai settant’anni senza mai peccare, se l’era tolta seco per far
opera di carità e voleva educarla come una figlia; ma non potendola
frenare, l’aveva messa in convento. Dal convento era fuggita per un
ismodato amore di libertà; e non s’era saputo più nulla di lei, finchè
un giorno l’avevan riveduta nel villaggio, e diceva d’aver fatto
molto cammino, a piedi, solo per rivedere il suo vecchio prete, che da
qualche mese appunto avevano condotto a sepoltura.
Adesso aveva più che vent’anni; era bella, era selvatica, e lavorava e
le facevan la corte.
— Non dormirete, signora? — domandò Lazzara, vedendo che Lora,
taciturna, stava con i due gomiti sul davanzale del terrazzo e guardava
nella chiara notte, un po’ ebbra di quella solitudine.
— Dormirò più tardi, — rispose; — ancora non ho sonno.
Si rivolse dalla piccola veranda e tornò sulla poltrona di vimini,
presso il lume velato.
Un filo d’aria, pur lieve, non moveva le foglie del giardino; le stelle
rossastre parevano mandar su la terra un disperato calore.
— E tu hai sonno, Lazzara?
— L’estate io non dormo che poco, e male, perchè i sogni che faccio mi
túrbano.
— Raccóntami: quali sono i tuoi sogni?
— Son molti e sono pieni di miracolo, signora. Talvolta sogno l’altro
mio viaggio, quel lungo viaggio che dovrò fare, assai lontano di qui.
— Dunque pensi che ripartirai, Lazzara?
— Certo ripartirò. Mi piace la strada, il fiume, il vento; mi piace
ogni cosa che va lontano.
Lora si sdraiò nella poltrona con indolenza, rovesciò il capo
all’indietro, sul cuscino, ed in quella penombra i suoi capelli chiari
le mettevano intorno alla fronte una specie d’aurora.
— Sei stata in convento, non è vero? — domandò alla fanciulla.
— Sì, signora; più di quattro anni.
— E ne sei anche fuggita, mi hanno detto.
— Sì, una bella notte che non dimenticherò.
— Raccóntami ancora di te, Lazzara. Non ho sonno ed amo ascoltare i
tuoi racconti.
La fanciulla si accovacciò a terra sopra una stuoia, contro le
ginocchia della sua padrona, con la pigrizia d’un bell’animale
selvatico e docile.
Poi si mise a raccontare...

Raccontava le preghiere fervide, le canzoni un po’ lente che intonano
in coro le monache dalla voce cristallina, e il fumo gonfio degli
incensi tra gli altari bianchi di gigli, nei mattini di primavera. E
poi, quando il suo fervido cuore, nella cella rigorosa, nei cortili
pieni di sole, al di là dalle nude muraglie, risognava l’aperta
infinita campagna, ove sono i fiumi dalla corrente limpida, i boschi
odorosi di timi e di résine, ove sono i frutteti e le vigne, le messi
che ondeggiano, il vento e la libertà.
E la rivide, la campagna immensa, e vi si mise a correre, libera, sola,
con il cuore che le cantava, in una notte del mezzo Aprile.
Aveva risoluta la fuga. Era desta, in un chiarore di stelle, nel
silenzio altissimo del monastero, sola, con quel Crocifisso di ferro
che dalla nuda parete, immobile e pur vivo, la guardava. Passavan
nel cielo, davanti alla sua cella, certe continue vampe di chiarità,
quasi tangibili, come fiumane traverso lo spazio, e v’era una chitarra
che sonava, lontana continua, straziante allegra, come un dolore che
volesse ridere, come un riso che finisse in lacrime, forse da una
finestra senza sonno, forse da un ballo in un cortile...
E si levò. Scese. Le grandi ombre del colonnato la inseguivano come
fantasmi enormi che non facesser rumore. Poi vide nell’ombra due luci,
due scintille di fosforo, ferme, che l’impaurirono. Si nascose tra le
colonne, strisciò luogo un andito, passò un cortile, giunse nell’orto,
si aggrappò ad un cancello, s’inerpicò per un albero, fin sopra il
ciglio del muro. E di là vide una fila di case addormentate, con un
fioco lume che pendeva da un fil di rame, fra due muri, oscillando; poi
vide la campagna, l’infinita libera campagna, simile quasi ad un mare,
in quelle bianche fiumane di luce che sopra lei spandeva la navigante
luna.
Allora, d’un tratto, fragile com’era, paurosa com’era, si fece il segno
della croce, e si lasciò cadere...
Correva, correva, parendole di volare, buttandosi tutta viva negli
odori della notte primaverile, lasciandosi dietro un solco nell’erba
rugiadosa, bevendo il vento che le passava tra i capelli e li
scioglieva stupendamente, facendoli nella corsa ondeggiare come una
bella criniera.
Camminò. Le messi abbondavano di spiche mature, le viti pendevano
da un albero all’altro, quasi bianche di grappoli in fiore. Passò
prati, campi, orti, seminagioni, frutteti; e come in sogno rivide
allora fiorir le stagioni, che da tanti anni non vedeva più; rivide la
primavera odorosa di fiori, satura di linfe, chiassosa di nidi, limpida
di ruscelli, gaia di canzoni; l’estate adorna di pannocchie d’oro, dal
cartoccio stridente, con le sue sterminate messi un po’ curve per la
ricchezza dei frumenti, ed i covoni e le biche su l’aie scintillanti,
ed i bubbolìi freschi dei fonti nell’ora meridiana, ed il guizzo della
falce nitida, che va, che va, stanca e senza posa, come una distruzione
lenta. Poi sognò dell’autunno, con le sue clamorose vendemmie,
dell’inverno, con la sua squallida neve...
Camminò. Si mise per lungo un ruscello, che scendeva con una musica
lieve, inchinando l’erbe al suo passare, giocando nel suo lesto correre
con la scherzosa luna. E le pareva che il ruscello cantasse, piano, per
lei sola, una bella canzone: «Séguimi, o tu che vai per tutta la notte
senza conoscere la tua strada. Io pure, come te, non conosco la mia
meta lontana. Vedi: trascorro e brillo. M’accompagna il chiaror della
luna e faccio un lieve romore. Séguimi, o tu che vai per la notte senza
conoscere la tua strada.»
Camminò. Il ruscello mormorava per lei sola il suo canto notturno; ella
ne seguiva la sponda, quasi correndo, e trasognata. Era, nel mezzo
Aprile, la notte più stellata. Pareva che ogni stella avesse un’ala
invisibile o che un vento leggero, passando, le facesse tremare. E più
ella fissava nel cielo i suoi occhi sperduti, più infinitamente vedeva
nascere stelle. Ad ogni battito d’occhio alcuna spariva: era un mondo
distrutto, un atomo di luce distrutto, non appariva più.
Camminò. Il ruscelletto passava sotto piccoli ponti, faceva cascatelle,
muoveva i canneti; limpido e lento, fiancheggiava una strada, un
podere, una casa; entrava nei prati, pareva perdersi: ricominciava.
Lontano, all’orizzonte, con indistinte ombre ventose, apparivano le
foreste. Ora cominciò ad abbaiare un cane, ed un altro rispose, più
lontano, poi un altro ancora, e quei laìti lugubri empirono la notte
serena. Fra i grandi alberi tutte le ombre avevano apparenze umane;
s’udivan strepiti nel buio, come di gente che sbucasse dai rami, e
le pareva di sentirsi ghermire. Poi, nell’alto fogliame, intese un
frastuono, quasi un tonfo, come d’immense ali che calassero giù... Ed
era un gufo, o molti, una civetta, o molte, che si misero a cantare
la morte. Il ruscello scomparve, si cacciò sotto la terra, nel buio.
Ed ella andava, andava, andava, più tra le siepi, più tra le macchie,
più tra le forre, toccata in faccia dal vento di quelle ali enormi,
perseguitata da quei canti funebri; poi le piombarono tutti addosso,
gufi e civette, per ucciderla, per coprire il suo corpo morto con
un lenzuolo d’ali immonde... Alla fine, quando l’ebbero atterrata,
soffocata, uccisa, le si misero tutti all’intorno, in cerchio,
immobili, senza più cantare, simili ad un tribunale di spettri, e
stettero a fissarla dai grandi occhi rotondi, fermi, che bruciavano
come fiamme di fosforo nella spaventosa oscurità.
Quando riaperse gli occhi, dai pertugi della foresta brillava su l’erba
il sole mattutino; l’odor selvatico dei timi profumava la terra umida;
le capinere del bosco trillavano a voce spiegata...

Lazzara tacque. Laggiù nel giardino, tra il folto, avevano entrambe
inteso un rumore. Ascoltarono.
La notte folle sperperava le sue ricchezze inestimabili, vuotava i
suoi tesori di stelle, rovesciava i suoi forzieri traboccanti nella
profonda immensità; erano collane favolose, che si spezzavano e
rotolavano per l’infinito, corrusco di mille arcobaleni; eran diademi
fatti con milioni d’astri, che si rompevano in frantumi e scorrevano
tra fiumane di etere fosforescente; erano stelle, stelle senza numero,
disseminate nel curvo spazio, che la folle notte rovesciava in una
conca scintillante.
Ascoltarono, più attente.
— Nulla, — disse Loretta; — è nulla; continua.
Accovacciata su la stuoia, tenendo fra le mani congiunte le ginocchia
pigre, gli occhi un po’ spersi nell’incantesimo della notte d’estate,
un sorriso appena visibile su le rosse labbra, Lazzara ricominciò.
... e diceva, battendo agli usci, cantilenando sopra un’aria imparata
nel convento:
Date un pane, buona gente;
nel mio sacco non rimane
più niente...
Buona gente, chi mi fa
per l’amore del Signore
la carità?
E così, camminando e mendicando, giunse ad un paese che stava sul
declivio di montagne gigantesche, e brillava di fiumi scintillanti, ed
era tutto imbevuto di primavera come un roseto in pieno fiore.
Ad un casolare, certa donna le parlò:
— Come ti chiami?
— Lazzara.
— E che hai fatto sinora?
— Nulla: ho camminato.
La donna stette un attimo pensierosa, poi disse:
— Entra.
Così la presero per il tempo della mietitura.
Un giorno, nella grande ora meridiana, ella stava sdraiata sopra un
mucchio di fieno, tra due siepi cariche di frutti rossi, all’ombra
d’un gelso basso e contorto. Di là dalla siepe correva la strada
maestra, tutta polvere e sole, tra le fratte arsicce che avvampavan
di selci vive e di ginestre in fiore. Venne a passar di lì Cardo, il
pastore, che spingeva con la canna la sua mandria lanosa. Una vasta
nube di polvere oscillava lungamente sopra la strada prima di posarsi
dietro il lor passare; un cagnaccio di pel fulvo, con la coda mozza,
si lanciava ringhiosamente contro quelle che disarmentavano. Cardo era
un ragazzotto di spalle robuste, con una testa massiccia, crespa di
capelli nerissimi, ed aveva il colorito bruno delle ghiande mature.
Dai calzoni di frustagno rimboccati a mezzo il polpaccio gli uscivan
le gambe, aride, nere, quasi lucenti; i piedi, opachi di polvere, si
muscolavano con solidità nelle sue dure caviglie di camminatore.
Egli guardò sopra la siepe, vide la fanciulla giacere sul fieno, fece
una smorfia e rise forte.
— Buon dì!
— Buon dì.
— Fa sole...
— Che sole!
Cardo fermò la mandria in un pratello e si misero a merenda insieme.
Sul fieno, ella stava con la pigrizia d’una gatta snella e indolente.
Allora egli tolse dalla sacca un mezzo pan nero, un po’ di formaggio,
una manata di ciriege, e venne a sdraiarsi vicino a lei. Si guardarono
in faccia e risero. Entrambi, senza saperne il perchè, risero.
— Fa sole...
— Che sole!
— Già, e non piove...
Ella prese tre ciriege, unite per il picciuolo, e stesa com’era se le
portò alla bocca. Un rivoletto sanguigno le corse giù per il mento.
Guardava lui, che la guardava. Era scalza ella pure, con le braccia
mezzo nude, con qualche fil di fieno tra i biondi capelli arruffati,
che mandavan riflessi brillanti e bui. Così giacendo, formava un solco
profondo nel fieno soffice; la sua gagliarda persona tramandava un odor
di selvatico.
Ma egli non rideva più: si fece scuro, e, come sentendosi pungere da
non so quale molestia, ogni tanto, poichè stava prono, col dorso dei
piedi scalzi batteva la terra, ma forte.
Non un rumore di gente, o d’animali o di cose, non un correre d’acque,
non un tremar di foglie; non altro che un gridìo di cicale, ma così
tenace, fermo, continuo, che pareva stranamente fondersi col silenzio
ed essere il silenzio stesso.
Ella era scalza, ella pure, — e se ne rammentava. La gonnelletta corta,
rattoppata, non le scendeva oltre i ginocchi; tra quel fieno, qualche
fil di paglia la pungeva nel polpaccio; il suo polpaccio era grasso,
tondo — e se ne rammentava.
— Che avete, Carlo, a fissarmi così?
Allora egli strisciò carponi, sui gomiti, e standole più presso,
cominciò a fiutarla con un semiriso d’ubbriachezza, come chi fiutasse a
lungo la fermentazione d’un tino di mosto.
Era un pomeriggio d’estate, pieno d’iracondia, implacabile, rosso come
una fucina rovente, per quel sole che tutto lo incendiava. Ed ella si
sentì, tra quel fieno, più nuda e più supina che se fosse adagiata
sopra la sua coltre. Sentendosi bella, ebbe vergogna di sè. C’erano
intorno sciami di zanzare, che a lei pareva mandassero un gran romore;
ed erano forse le cicale, quelle strepitose cicale, che la stordivano
così.
Poi si misero entrambi a ridere, su la bocca l’un dell’altra, ma d’un
riso sciocco. Egli avanzò la mano.
— Be’, Cardo, — ella disse — mi fate male!...
E i grossi papaveri falciati rosseggiavano in quella calda estate,
avanzando il fiore floscio tra il mucchio della fienatura.
Cantavano, strillavano, le cicale.
Quando l’autunno venne, i vendemmiatori la mandaron via.
Ricominciò a camminare, in giù, lungo il fiume, con la rapida corrente.
Le avevan narrato di certi grandi velieri, con antenne alte come una
casa, e di più grandi navi senza vela, in un porto immenso, davanti
all’anfiteatro di una città splendidissima.
Certa sera, vedendo un uomo che stava per spingere il suo battello
nel fiume, curiosamente si fermò a guardare. L’acqua scendeva, lenta
e buia, con brividi luminosi, tra i filari di pioppi dal fogliame
d’argento.
— È lontana la città? — Lazzara domandò all’uomo che buttava un mucchio
di cordami vecchi nel suo battello e stava per saltarvi dentro.
— Sette ore di fiume, — questi fece, senza volgersi.
— E a piedi?
— A piedi? Chi ci va a piedi? — schernì l’uomo; e si volse.
— Io ci vado, — ella rispose con serenità.
Il battelliere la guardava; aveva egli una barba color di rame con
qualche venatura bianca; portava in capo un berrettaccio di lana, che
aveva preso il colore dell’acqua e del vento.
— Ohibò, con quelle gambe! — disse con un riso bonario. Poi soggiunse:
— Ma che ci vai a fare?
— E tu?
— Porto legna.
— Sicchè fammi salire.
Egli le venne accanto, le diede un pizzico su la guancia, e disse: —
Tanto fa!... il battello è carico; sali pure.
Spinsero il battello in acqua, vi montaron sopra tutt’e due, in
silenzio, come vecchi amici.
Fumando, cantilenando, egli mise una piccola vela quadrata, stese una
copertaccia ruvida, lacera, sui duri cordami, e sopra vi si coricò.
Lazzara, piena di confidenza, gli si distese vicino. La barra del
timone era sopra le loro teste; la vela, appena turgida, ogni tanto
s’afflosciava, battendo contro l’antenna con un romor secco come di
cosa stracca.
Le due rive intanto rabbuiavano; ma c’era un quarto di luna che saliva
su, nel cielo, tra fiocchi di nuvole, con rado stelle.
— Per caso, — domandò Lazzara, — non avreste un vecchio pane da mettere
sotto i denti?
— C’è pane e pesce fritto, laggiù, in quella cesta.
Ella prese quel po’ di cena e si mise a divorarla con ingordigia.
Fumando, il battelliere la osservava.
— Ma insomma, — volle sapere, — da che parte vieni, che sei tanto
lacera?
Ella si mise a narrargli di sè, tutta una fiaba...
Cominciavano a navigar tra stelle, fra il cielo che ne accendeva
sempre più, e il fiume che per ognuna mandava cento splendori. Il
battello scivolava piano piano, facendo sciacquar l’acqua sotto la sua
chiglia, lasciandosi dietro, nel fiume sparso di firmamento, una scìa
tremantissima.
— Come ti chiami tu? — fece il battelliere.
— Io, Lazzara. E tu?
— Benozzo; io, Benozzo.
— Ah...
Il battello scendeva senza prender vento, rompendo l’acqua illuminata,
che ricadeva in gocciole di stelle. Dalle due rive i pioppi ogni tanto
si scuotevano, svettavano, come se li intirizzisse l’algido chiarore
della luna, spargendosi di quel bianco tremito che il vento propaga nei
boschi d’ulivi; poi, lentamente, l’uno appresso l’altro, riprendevano
il sonno interrotto nella vaporosa quiete della notte fluviale.
— Lazzara!... — esclamò d’improvviso Loretta, afferrandola per
il braccio e balzando in piedi; — Lazzara, guarda... C’è qualcuno
laggiù!...
In fondo alla scalinata, fra i cespugli, s’era mossa un’ombra nera; due
volte, tre volte, visibilmente, s’era mossa un’ombra nera.
— No, signora, — disse Lazzara, levandosi a ginocchi su la stuoia, ma
un poco impaurita ella pure. — È forse un gatto... forse il vento...
— No, taci.
L’ombra si moveva, più distinta, più umana. La videro, buia nel buio;
l’intesero che si moveva.
Ammutolirono. Poi Lazzara balbettò:
— Chi può essere? Gli vado incontro, signora...
In quel mentre, da dietro i cespugli, nel pieno chiarore del viale
illuminato, sbucò fuori una forma d’uomo, curva, irriconoscibile, che
fece qualche passo avanti, quasi barcollando, e si fermò. Ma Lora dette
un grido, e per non vederlo si coverse la faccia.
Lazzara fu meno timida; si fece avanti, su l’orlo della scalinata,
volle parlare, forse gridare, ma non potè.
Egli ora saliva, lentamente, cupamente, con un aspetto minaccioso,
gli occhi nascosti sotto l’ala del cappello, i pugni affondati nelle
tasche, forse pronti sovra un’arma invisibile.
Si fermò a mezzo della scalinata, guardò in alto, fissamente; poi fece
due salti rapidi, e fu sul terrazzo, davanti a loro.
— Non gridate! — ingiunse, con una voce sorda. — Non voglio che si
gridi!
Entrambe, ammutolite, si strinsero l’una contro l’altra, fecero qualche
passo indietro; urtaron contro il tavolino di giunchi; la lampada si
rovesciò, si spense.
Eppure lo vedevan bene, bieco e pallido com’era, tutto curvato innanzi,
con una specie di oscillazione, di tremito, nella sua persona sinistra.
— Chi è? — bisbigliava Lazzara.
— Taci...
Allora seguì un grave silenzio, e fu, per l’uomo, un di que’ silenzi
ambigui che l’anima più disperata frammette come un indugio davanti al
suo più disperato coraggio.
Ma súbito egli disse con asprezza:
— Voglio rimanere solo con te. Mándala via.
Nessuna delle due si mosse; anzi parvero serrarsi ancor più vicine.
Allora egli cominciò a guardarla, come sopraffatto da una specie
di fascino; e, stando fermo, la investiva con uno sguardo triste,
insidioso, miserabile, la ricercava per tutta la persona, quasi che ciò
gli facesse un male estremo e la sua volontà fosse del tutto spenta sol
per averla un attimo veduta.
— Con te sola, — disse un’altra volta, — con te, Lora...
Forse già era un’altra voce che pronunziava questo nome, o forse, per
quello sguardo pieno di miseria, ella comprese di non doverlo ancor
temere; sicchè d’un tratto, abbassando il viso con una specie di
obbedienza, disse piano a Lazzara di andarsene via.
Costei esitava, ma ella con un moto repentino la sospinse. Allora la
ragazza uscì, a passi lenti, cauti, come alcuno che si ritraesse per
mettersi a vigilare.
Poich’egli s’avvicinava, ella ebbe una invincibile paura e protese un
braccio verso la porta ov’era scomparsa Lazzara.
— No, no... — balbettava — lásciami...
E con la faccia quasi nascosta fra le due braccia tese, s’andò a
rannicchiare in un angolo del terrazzo, contro la vetrata, come in un
rifugio.
Ora, fra quei due che s’erano amati, che avevano vissuto insieme il
più terribile dramma d’amore di cui possa l’anima umana contenere il
palpito, fra quei due che si erano a vicenda vietato il meraviglioso
delitto, forse perchè incapaci entrambi di sopportarne la tragica
e disperante felicità, non era più che uno spazio breve come il
braccio, lieve come la forza d’un àlito, pericoloso come il gesto
di chi ghermisce e di chi si lascia ghermire, mentre intorno a loro
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