Colei che non si deve amare: romanzo - 23

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— Oh!... sarebbe una cosa troppo grave a spiegarsi ora, — disse Rafa
sorridendo.
Ella parve riflettere un istante, poi domandò:
— Potrai una volta insegnarmi a guidare l’automobile?
— Se vuoi.
— E’ difficile?
— Non è difficile, ma bisogna stare molto attenti.
Ell’aveva gli occhi pieni di polvere nonostante il velo che s’era
calata sul viso, e con un fazzolettino se li ripuliva.
— Perchè non metti gli occhiali? — domandò Rafa.
— Ho paura che mi stiano troppo male, — confessò Loretta con un sorriso.
— Ma cosa dici mai? Tutte le signore li portano in automobile;
altrimenti si prende una malattia d’occhi.
— Davvero?
— Certamente.
Ella frugò nella tasca della spolverina, trasse fuori un paio
d’occhiali e ridendo se li mise.
— Tutto giallo! Tutto giallo! — esclamò.
Passato il villaggio, l’automobile riprendeva la corsa.
— Non ti pare che si stia meglio con gli occhiali?
— Sì, hai ragione.
Il vento le mozzava la voce. Rafa l’aveva incaricata di premere ogni
tanto sul pedale della sirena, ed ella ne abusava, divertendosi di quel
fischio lungo e lamentoso. Ogni volta che vedeva un carro di lontano,
dava un colpo di sirena; i carrettieri, lentamente, senza volgersi
a guardare, guidavano sul fianco della strada le loro lunghe file di
cavalli.
Rafa ogni tanto s’appoggiava contro di lei, per domandarle sottovoce:
— Mi vuoi bene?... — Ella rispondeva di sì, chinando il capo.
Ed ora, per tutto all’intorno, un fertile color d’estate vestiva la
campagna gonfia di profumi; qualche bianca villa, sul vértice delle
colline, si riposava nella pace degli antichi boschi; nel piano le
falci qua e là brillavano, come lampi, ed i villani, arrampicati su
le scale a piuoli, caricavano i carri della fienatura. A lei, ch’era
vissuta nella città selciata di pietra e soffocata fra i tetti, questo
spettacolo di libertà e di pace apriva giocondamente il cuore.
— Come sarò felice in campagna! — ella disse con un palpito. — Ho
voglia di correre nei prati, di vivere in mezzo ai contadini, di
stendermi sotto gli alberi, di buttarmi sul fieno!
Poi domandò con sommissione:
— Potrò fare queste cose?
— Certo, — egli rispose. — Potrai fare tutto quello che ti piacerà.
Ella ebbe un sussulto di gioia.
— E tu verrai spesso a trovarmi?
— Ogni giorno, Loretta.
— Quanto è lontana la tua villa dalla mia?
— Mezz’ora d’automobile.
Elia misurò col pensiero quella breve distanza, poi disse:
— Ma la sera probabilmente bisognerà ch’io rimanga sola, è vero?
— Non sempre; io potrò qualchevolta rimanere con te, se mi vorrai. — E
soggiunse: — Vorrai?....
— Oh, sì... — ella rispose, con una specie di pudore.
— Del resto non devi temere affatto, perchè avrai con te la tua
domestica ed in fondo al giardino v’è la casa del giardiniere, che
vi abita con tutta la famiglia. Li conosco da molti anni e son brava
gente.
Il paese incollinava; la macchina forte superava le salite senza
fatica; il sole già pendeva sul culmine delle montagne. Sorpassata
un’altura su la quale torreggiavano i ruderi d’un castello antico,
subitamente un lago apparve davanti a loro, placido in lontananza,
come una bella turchese incastonata fra le montagne. I battelli a
vapore lo solcavano, lasciandosi dietro una striscia di fumo, parendo
fermi traverso la distanza e non più grandi che giocattoli di bimbi.
Le barche disseminate non segnavano che un punto nero nell’immobile
splendore dell’acqua.
— Il lago! il lago! — esclamò Loretta, tendendo il braccio.
— Sì, ora lo costeggeremo, — egli rispose.
Sparve, quando avvallarono, ricomparve quando furon su le alture,
sempre più azzurro, sempre più vasto; poi s’imboscaron per una strada
forestale, giunsero al sommo d’una tortuosa erta, e videro a’ lor
piedi stendersi luminosamente il lago, che il sole fregiava di ricami e
d’istorie come un immenso arazzo d’oro.
La macchina si avventò per la china con un rimbombo di congegni, svoltò
nel serpeggiare del pendìo sotto il morso dei freni potenti, e mentre
le sue nubi di polvere turbinavano ancora su l’alto della collina
discesa, essa già correva lungo la riva del lago, sotto i terrazzi dei
giardini, che lasciavan spiovere su la strada maestra le lor ghirlande
di gelsomini e di rose.
A poco a poco il sole si ritraeva dalle sponde, che divenivan d’un
color viola, e più violento s’accendeva nel mezzo del lago, saettato in
giù dall’opposta montagna.
Allora una grande tristezza invase il cuore di Loretta, e, correndo
per quella riva fiorita, un altro lago le salì nella memoria, più
bello ancora e più dolce, dove i giardini andavano a bagnarsi nella
pianissima onda e c’erano i rematori che cantavano, di sera, navigando
sotto le stelle...
Pensò che su quel lago ella era scesa, in una barca fragile, che
ad ogni mossa dondolava, e si ricordò dell’uomo ch’era con lei quel
giorno, curvo sui remi, con gli occhi pieni di luce, la fronte sudata.
Si ricordò della notte che poi era venuta, con tante stelle quante
non aveva per l’innanzi vedute mai, della notte ch’era stata la più
terribile e la più dolce nella sua vita, quando un profumo troppo forte
di magnolie e di gelsomini entrava con l’aria notturna a invadere la
stanza, dov’ella, malata d’amore di sogni e di primavera, quella notte
non poteva dormire...


VI

Egli tornò una sera, improvvisamente, perchè il suo fantasma non gli
dava pace. Voleva rivederla, e poi forse fuggire di nuovo, per sempre.
Ma guardarla negli occhi ancora una volta, saper cosa fosse avvenuto di
lei dopo quell’ora di commiato.
Le strade che aveva percorse, i letti nei quali era giaciuto, le
avventure in cui s’era freddamente involto per cercare uno svago, erano
state il calvario supremo del suo disperato amore. La lontananza ed il
tempo, che sono per lo più i dissolvitori delle passioni mediocri, non
servivano che a rendere più acerbo un amore come il suo.
Tornò, dopo aver inutilmente costretta la sua carne ed il suo spirito
alla rinunzia di questa colpa, dopo essersi intimorito con tutte le
minacce, battuto coi più duri flagelli e persuaso che nessun rimedio,
tranne forse il possesso, lo avrebbe mai guarito di questo implacabile
amore.
Veramente egli sentiva pesare su la sua tremante anima un fato
mostruoso; era caduto in balìa di quelle forze che sono maggiori della
volontà umana, e non più sperava in sè medesimo per la sua liberazione.
Adesso era troppo tardi anche per la salvezza; l’amava; era posseduto
di lei, era smarrito nelle oblique vie di questo amore come in un
dedalo senza uscita. Perchè tornasse uomo e ricuperasse nel suo
senso esatto il valore della vita, gli era necessario sacrificare
al suo terribile nemico tutte le paure dell’anima, che lo tenevano
prigioniero.
Una tempesta sensuale s’era scatenata in lui: quest’uomo s’era lasciato
pervadere i sensi da una febbre che lo transfigurava, ed il suo mondo
interiore non era più che una vicenda continua di allucinazioni,
le quali raffiguravan tutte, benchè diversamente, la nuda gioia
dell’amplesso. Quest’atto barbaro e dolce era il centro intorno a cui
roteava il suo torbido universo.
Da cose fortuite, in lui scaturivan immagini di carnale amore; il suo
cervello ed i suoi nervi eran stremati dalla fatica eccessiva di questo
continuo desiderio. Non più lei sola egli amava, ma in lei sola tutto
ciò che fin dai primi anni aveva tormentato in modi oscuri la sensuale
inquietudine, la pericolosa febbre del suo latente vizio. Ed ecco
ella diveniva più che mai la forma del piacere inaccessibile, il fuoco
dell’ingaudibile amore, il filtro che dà la morte soave, il profumo che
addormenta in un sogno di voluttà paradisiaca.
In quei giorni di solitudine aveva ripensato alle vicende trascorse.
Perchè non aveva egli osato impadronirsene quand’ella si offriva a lui
con tanta passione? Una volta ella gli aveva pur detta semplicemente
una verità profonda; gli aveva detto: «Il male più grande è non avere
il coraggio d’essere felici.» Oh, se l’avesse ascoltata! Ora certo non
si troverebbe in quello stremo d’angoscia e d’aberrazione. Perchè non
aveva continuato ad essere, secondo il suo principio, uno spavaldo
mietitore d’allegrezze, un vuotatore di calici colmi, un di que’
freddi e temerari uomini che sanno escludere da sè stessi la paura del
rimorso?
A quest’ora forse ne sarebbe sazio, forse continuerebbe a trovare in
lei un insaziabile piacere; ma in ogni modo, nel precario senso e nel
disordine di tutte le cose umane, la loro colpa non avrebbe avuta la
coscienza di urtarsi ad insuperabili divieti, così come nulla impediva
che due rondini della medesima covata formassero insieme il lor nido,
sotto una gronda, alla nuova primavera. Chi mai s’era levato dalle
radici oscure del suo essere a vietargli questo atto di libertà? Quale
forza inconoscibile custodiva colei che si chiamava sorella, contro il
suo colpevole amore?
V’era dunque intorno ai focolari delle famiglie una legge sacra,
non fatta solo dall’arbitrio degli uomini, che malediva i connubî
incestuosi e puniva con una morte lenta colui che osasse per avventura
spingere lo sguardo sotto le coltri delle sorelle addormentate?
Perchè mai, se alcune v’erano tra le creature femminili, così
inflessibilmente vietate al nostro desiderio, perchè mai queste
appunto potevano con tanta veemenza parlare a’ suoi sensi? Perchè
mai egli, ch’era stato per l’innanzi uno spavaldo possessore del cuor
femminile, tremava ora e di voluttà impallidiva, solo pensando alla
forma che aveva il suo polso, all’ombra che si formava leggerissima
nella piegatura del suo braccio, a quelle sue fine caviglie, che
irrequiete apparivano e sparivano tra il muoversi della balza? Oh, se
avesse potuto ricevere da un’altra amante queste gioie tormentose!
Ma no! ella era piena d’un sapore che all’altre mancava; su lei era
sparsa la tentazione come il profumo è quasi tangibile su le corolle di
certi fiori. Si chiamava sorella, e la purezza prestigiosa di questo
nome pareva ravvolgerla in un velo che tradisse perversamente la sua
scintillante nudità.
Tornò con l’anima buia, per vederla o per prenderla, per fuggire da lei
o per fuggire con lei, per inginocchiarlesi ai piedi o per rovesciarla
brutalmente sotto la forza delle sue dure braccia. Una sola cosa egli
conosceva esattamente: l’impossibilità di continuare a starne lontano.
Ed anche aveva inutilmente lottato contro una cieca gelosia, poichè
sapeva che un altr’uomo le stava intorno, scaltro e paziente, capace
di offrirle tutto quello che a lei potesse piacere. Ne avevano celiato
insieme i primi giorni, anzi l’aveva egli stesso ammaestrata nel
coltivare la sua piccola tresca. Ed ora, quell’uomo, egli l’odiava; non
di rado, nel pensare a quell’uomo, egli presentiva un oscuro pericolo,
si lasciava prendere da tentazioni criminose. Con la singolare
preveggenza di chi ama, egli tornò sopra tutto per impedire che da
costui gli fosse tolta.

Giunse, quando la città riposava in un lento crepuscolo d’estate,
mentre la rossa nube di calore che tutto il giorno l’aveva oppressa
ed incendiata, lentamente si andava sciogliendo nella ventilata ombra
della sera.
Tutto gli parve mutato, nella città che pure conosceva casa per casa, e
ch’era stata il teatro delle sue temerarie conquiste. Ed era contento
che già fosse la sera, per poterla traversare più facilmente senza
incontrarsi con alcuno. Lasciò i bauli alla stazione, e salito in
vettura si fece condurre alla casa del padre.
Il percorso era lungo; egli guardava distrattamente in giro; gli
batteva il cuore.
L’avrebbe riveduta fra poco; ella era forse passata di lì, per quelle
strade, nella giornata. E la vedeva col suo vestitino di tela chiara,
il cappello di paglia che le metteva ombra sul viso, forse un di que’
medesimi che aveva portato nel viaggio, l’ombrellino aperto, poggiato
su la spalla, un mazzolino di mughetti alla cintura, le scarpine
bianche. Andava rasente il muro, frettolosa come sempre, con la sua
vitina snella che riceveva elasticamente le ondulazioni del passo; ogni
tanto si fermava davanti ai negozi; la gente la guardava.
Una gran pace discese in lui, dopo tanti giorni vissuti con febbre, in
una specie d’ossessione. Tornò ad amare la sua città, perch’ella vi
abitava, e la vita gli parve nuovamente bella; tutte le aspirazioni
che si erano in lui sopite, rinacquero come per incanto. Ebbe voglia
di assaporare lungamente questa felicità, volle far qualcosa, una
cosa qualsiasi, per convincersi che non era più sotto l’incubo del
suo spaventoso tormento; pensò di aver sete, fece fermare ad una
bottiglieria, vi discese.
Incontrò sul marciapiede alcuni amici, che, già vestiti da sera,
andavano probabilmente a pranzare. Egli li salutò chiamandoli per nome,
forte allegramente: essi risposero al suo saluto, ma senza effusione e
passarono in fretta. Ne rimase un po’ stupito. Vide poi che ciarlavano,
e, gli parve, di lui. Ma non fece gran caso: bevve, risalì in vettura.
— Via, — disse al cocchiere; — frusta e cammina!
D’estate i negozi chiudevano di buon’ora; molte oneste famiglie di
piccoli borghesi passeggiavano per le strade in cerca di frescura; i
tavolini dei caffè, gremiti di gente, ingombravano i marciapiedi; le
tramvie, scorrendo su le rotaie calde, levavan guizzi di scintille
azzurre.
Sempre più gli batteva il cuore nell’avvicinarsi alla casa paterna.
Giunse. La bottega era già serrata; egli restò qualche attimo davanti
al portone per non apparir troppo commosso, poi entrò per la corte
e li vide seduti in crocchio: il padre, la madre, Paolo, il Riotti,
l’Eugenia, che discorrevano prendendo il fresco.
E lei? Dov’era?... Il cuore gli tremò.
La corte era già piena d’ombra, il lampione della portineria vi
spargeva un tremolante riverbero; alle finestre, in alto, v’era gente
affacciata: si udiva or una cantilena, or un bisticcio, e qualche
scoppio di risa.
Al romore del suo passo, taluno del crocchio si volse; l’Eugenia lo
riconobbe.
— Oh... Arrigo! — fece, e si levò. Tutti si volsero al sopraggiunto.
Egli tese loro le mani, poichè non poteva parlare. La madre gli venne
incontro e l’abbracciò.
— E Loretta?... — egli profferì piano, quasi vergognandosi di quel nome.
Non intesero, o non vollero intendere la sua domanda; nessuno rispose.
Paolo gli strinse la mano con un mezzo sorriso, il padre disse appena:
— Bravo, sei tornato. Era un pezzo!
Mai la sua voce era apparsa al figlio così affranta.
Ed il Riotti, con una voce piena di cerimoniosa ironia, declamò:
— È sempre il benvenuto chi torna fra noi.
— State bene tutti? — domandò Arrigo finalmente.
Rispose Paolo:
— Non c’è male, come vedi.
E gli altri tacquero.
Cos’era dunque accaduto? Quelle parole brevi, malcerte, avevano quasi
l’aria di nascondere un penoso mistero.
— E Loretta? — egli ridomandò con voce palpitante.
Dopo un silenzio Paolo rispose:
— Non c’è.
— Come non c’è? È fuori?
— Sì, è fuori, — rispose la madre, impacciata.
E gli altri tacquero.
— Ma voi, scusatemi, da che parte venite? — domandò il Riotti.
Egli era rimasto in piedi fra mezzo a loro; lui e l’Eugenia erano
rimasti in piedi.
— Io? Di lontano...
— Ah? un gran bel posto! — commentò il Riotti stropicciandosi le mani.
La ragazza intanto lo guardava co’ suoi piccoli occhi attoniti, ed
una commozione visibile tremava sul fiore della sua placida inerzia
femminile.
— Mi sembra che tu non stia molto bene, — osservò la madre. — Ma ci si
vede così male qui...
— Sono stato un po’ indisposto negli ultimi giorni... È il gran caldo.
— Si girò intorno per nascondere una confusione manifesta, poi disse:
— Vorrei sapere qualcosa di Loretta. Quando rincaserà?
Il padre, la madre, Paolo, si guardaron in faccia un po’ stupiti:
supponevano forse ch’egli ne sapesse più di loro.
— Questo non si sa! — cantilenò il Riotti, cui piacevano le parti
ironiche. — La signorina non ha ore fisse!
Il padre si levò; l’uscio della retrobottega era lì vicino.
— Vieni, — disse ad Arrigo; — ho da parlarti.
E curvo, camminando a passi faticosi, lo precedette. La madre, Paolo,
entraron dopo di loro.
— Ci sarà un consiglio di famiglia, — malignò il farmacista, con la
viva tentazione di seguirli. Ma per convenienza suggerì a sè stesso:
— Finisco la mia pipa.
— Gesummaria, che faccia hai, Rigo! — esclamò la madre, entrando nella
stanza illuminata. — Figlio mio, cosa t’è accaduto? Non sei più tu!
Egli era di fatti spaventosamente pallido e magro; gli occhi solo
vivevano di una vita febbrile nella sua faccia devastata.
Egli cercò di sorridere:
— Sono stato un po’ male... Ho avuta la febbre per molti giorni.
— Ma l’hai ancora... Se ti vedessi, figlio mio!
— No; ora sto bene.
Il padre lo considerava mutamente; Paolo s’avvicinò a lui, con la bontà
impacciata delle persone semplici.
— Vuoi prendere qualcosa? — disse, per mostrare la sua premura.
— Grazie, Paolo, nulla.
Tutti e tre si guardarono ancora in silenzio. Nella sua casa egli era
più che mai un estraneo; perciò non osavan troppo investigare nella sua
vita misteriosa.
V’eran ancora su la credenza i resti della cena; un’insalata condita
con aglio odorava forte.
— Allora tu non sai nulla? — domandò il padre.
— Io? Nulla! — esclamò Arrigo, ansioso. — Che c’è?
— Loretta...
— Sì, Loretta, Loretta... — l’aiutò Arrigo, tendendosi a lui con una
faccia spettrale.
— È via... è partita... è fuggita insomma...
— Fuggita!?...
Egli barcollò e cadde sopra una sedia. Chiuse gli occhi un momento
per riaversi, li riaperse: e rimasero sbarrati, enormi. Tutti e tre
allibirono del suo terrore.
— Di’, Arrigo, stai male? — fece Paolo, avvicinandosi ancora come per
soccorrerlo.
— No... no... Fuggita?... Ma dove?... con chi?... — chiese con la voce
strozzata. La madre corresse:
— Non è fuggita: ha detto che voleva andarsene... l’ha detto prima...
Arrigo radunò tutte le sue forze:
— Ma dove?! — gridò con ira.
— Noi credevamo che tu sapessi tutto, — fece il padre.
— Io? Non so nulla! Oppure suppongo, suppongo appena...
Paolo camminava per la stanza, a fronte bassa, con le mani in saccoccia.
— Sai... è una sgualdrina... — disse.
Arrigo scattò in piedi con un balzo.
— Cos’hai detto!?
L’altro fece con la mano un gesto vago.
— Nulla... dicevo così per dire.
Seguì un torbido silenzio. Tutti e tre guardavano Arrigo quasi
con paura. In lui saliva una orrenda collera, i suoi occhi ne
lampeggiavano, i suoi pugni eran frementi.
— E nessuno di voi sa dove sia? — domandò con una orribile voce.
Tacquero. Egli fece qualche passo indietro, fin contro il muro, e girò
su la sua famiglia uno sguardo minaccioso.
— Non lo sapete?...
Il padre rispose:
— No.
— Da quanti giorni è partita?
— Saranno dieci giorni.
— Dieci? — egli ripetè sordamente. E contò nel suo pensiero il tempo da
che s’eran lasciati.
— Questo avete fatto voi! — gridò con veemenza, buttando innanzi la
mano come per insultarli.
— Noi?... — mormorò il padre. Paolo scrollò le spalle.
— Sì, voi! Non dovevate lasciarla partire, — disse più duramente, con
una voce implacabile.
La madre s’era messa a piangere in una poltrona; Paolo s’era fermato
contro un mobile e fissava Arrigo con stupore.
— Noi? — balbettò ancora il padre. — Cosa possiamo fare noi contro
voialtri?... Ci ammazzate, e basta!
Uno scoppio di tosse rauca gli ruppe il petto senile; piano piano si
lasciò calare sopra una seggiola e continuò a tossire.
Fra l’uscio apparve la faccia barbuta e lucida del Riotti.
— Disturbo? — domandò con mansuetudine.
— Sì, disturba, se ne vada! — gl’intimò Arrigo senza muoversi. L’altro
volse uno sguardo su quella scena e si ritrasse a malincuore.
Arrigo fissò il fratello:
— E tu cosa sei qui a fare? — domandò con disprezzo. — Non ti occupi di
nulla, tu? Non sai dov’è andata tua sorella?
L’altro divenne paonazzo di collera, bestemmiò qualche parola fra i
denti, ma non si comprese nulla. Soltanto lo si vide oscillar sui piedi
come se volesse affrontare il fratello.
Il padre si levò di nuovo, con fatica, per gli spasimi che gli
fiaccavano il dorso; la sua mano incerta si tese verso il figlio
primogenito; il mento scarno gli tremava nella commozione.
Allora, in quel momento ch’egli stava per parlare, per accusare forse,
intorno alla fronte di quell’uomo debole che per tutta la sua vita non
aveva sopportato se non ingiurie e sventure, una certa solennità si
cinse, come se nella sua canizie venerabile, in quella stanza dov’erano
la sua donna e due de’ suoi figli, quel vecchio si sentisse veramente
il capo della casa, colui che veglia fino all’ultimo sul focolare
semispento e può benedire come un santo o maledire senza remissione i
figli nati dalla sua virilità.
— Con qual diritto, — disse, — ti permetti tu di condannare tuo padre
e tua madre? Tu, che nella tua casa non hai portato altro che malanni?
Tu, che ci hai lasciati soli quando avevamo più bisogno di te? Cos’hai
fatto nella famiglia, tu, per poter giudicare di noi? Ci hai voltato
le spalle: ecco quel che hai fatto! Nè più nè meno che tua sorella,
peggio che tua sorella, perchè tu eri il primogenito, quello che aveva
il dovere dell’esempio. Sei tu che l’hai portata fuori di casa per il
primo, che le hai insegnata la via del vizio, e se oggi è perduta per
noi, se oggi si disonora, la colpa non è nostra: è tua! tua!... perchè
sei stato un cattivo figlio, e in tutta la tua vita non sarai che un
uomo cattivo!...
La sua voce si estenuava; ricadde su la seggiola, soffocato dalla tosse.
Arrigo aveva da principio ascoltata quella voce con un religioso
terrore. Ma poi, quando s’intese rinfacciare la sua colpa da colui che
non la conosceva, quando pensò che accusavano lui di averla buttata
nelle braccia d’un altro, lui che si struggeva d’un amore insanabile,
quando sentì che la sua opera nel mondo era stata solamente quella
di corrompere, di perdere, di trascinare con sè chi amava, nel suo
perverso destino, quando sopra tutto comprese di aver quasi tradito il
suo terribile segreto, una ribellione cieca proruppe in lui, contro
tutto e contro tutti, contro quel padre istesso che ora l’accusava,
quel padre taciturno ch’era venuto a minacciarlo nella sua notte
d’amore.
Un riso crudele gli salì fino alla gola e risonò contorcendo la sua
bocca sinistra.
— Va bene, — disse lentamente, — va bene!
Poi continuò, scandendo le parole:
— Se Loretta è partita con un amante, io sono un uomo rovinato e
perduto... — Fece una pausa e ripetè: — rovinato e perduto.
Si cacciò una mano fra i capelli, tacendo con la bocca una smorfia di
dolore; indi riprese:
— Ma non importa. Voi tre... voi tre: padre, madre, fratello, dovevate
impedire che partisse a costo di ucciderla. Non lo avete fatto, e siete
responsabili di tutto quello che può succedere. Non dimenticatelo: voi
tre!
E li segnava col dito ad uno ad uno, ridendo di quel suo riso sinistro.
Paolo s’avanzò verso di lui, fissandolo co’ suoi piccoli occhi intensi.
Quando gli fu vicino, rovesciò la testa indietro, duramente, con un
atto di sfida.
— Di’ un po’!... cos’hai tu per la Loretta?... — fece, con un tono
ambiguo.
— Io?... — pronunziò Arrigo, illividendo.
— Sì, tu, proprio tu! Cos’hai?
Arrigo girò intorno uno sguardo di bestia impaurita e fece atto di
rispondere; ma l’altro non gliene diede il tempo, e riprese:
— Bene, ti ripeto: lei è una sgualdrina e tu la vali!
Arrigo istintivamente levò il pugno sopra di lui: la madre dette un
urlo. Ma Paolo, nella sua forza tranquilla, non si scompose.
— Ed ora, — disse, — vattene di qui, se non vuoi che ti scacci io!
Col braccio teso gli additava la porta.
Non fu paura fisica, ma una paura morale, fredda, orrenda che lo vinse.
Gli parve che avessero guardato nel suo secreto, che mille bocche
urlassero ad alta voce l’infamia di cui s’era contaminato...
Chinò la testa silenziosamente, ed uscì.
La strada formicolava di gente; la strada gli parve impetuosa,
terribile, fragorosa; la strada lo afferrò, lo travolse nel suo flutto,
come un naufrago in balìa della fiumana.


VII

Non seppe mai cosa fece o dove andò quella notte. Una specie di follìa
calma e lugubre s’impadroniva del suo spirito, ed egli entrava nella
tragedia imminente con una spaventosa lucidità.
Non di rado, quando la vita d’un uomo è giunta vicino alla sua
catastrofe, il senso inerte e vacuo dell’irreparabilità dilaga nel suo
mondo interiore, come se tutta la potenza dell’anima volesse per un
istante riposarsi, prima di affrontare, benchè invano, la battaglia
definitiva.
Egli si senti del tutto solo nella vita, e questo senso della
solitudine, che non lo aveva spaventato mai, dette al suo cuore uno
smarrimento infinito. Lo avevano messo fuori dalla sua casa, bandito
come un essere immondo; gli pareva che tutta la famiglia umana
rifiutasse di considerarlo de’ suoi, perchè aveva peccato contro
la legge sacra delle parentele, aveva nascosto nella cenere del suo
focolare il serpe che avrebbe avvelenata l’ara della pace domestica.
Egli, che non aveva mai pensato a discernere il bene dal male, sentì in
quell’ora tutte le colpe della sua vita trascorsa. Aveva voluto vincere
il proprio destino, arrampicarsi con l’unghie e coi denti per un’erta
che non era la sua; spronato da un’ambizione meno che mediocre, tutte
le frodi gli eran parse buone per facilitare la sua dura conquista. Ed
aveva neglette in quell’opera vana le qualità che avrebbero potuto fare
di lui un uomo rispettato ed onesto, forse un uomo veramente superiore.
Ma la fatalità lo aveva inseguito, attenta e ben nascosta, nell’ombra
del suo cammino. Adesso lo vinceva; i frantumi del suo lavoro paziente
cadevano in polvere intorno a lui. Ma tutto questo era ancor poco, in
paragone dell’altra sciagura.
Quella che amava, quella che un tempo divideva il suo male, rendendolo
quasi dolce, quella che si era curvata con lui, più volonterosa di lui,
su l’orlo dell’abisso ineffabile, caduta già nelle braccia d’un altro
dimenticava il peccato. Per quanto fosse orrida la sua speranza, egli
non poteva nemmeno più sperare. Ella si era dunque lasciata vincere dal
ribrezzo, si era vergognata, o forse aveva riso di quell’amore ch’era
stato fra loro, e con lieta indifferenza si prodigava, nelle braccia
d’un altro, il più spensierato oblìo. Egli le avrebbe fatto orrore,
se ancora l’avesse baciata come una volta, e di lui non poteva ella
provare che una pietà profonda.
L’uomo ragionava di queste cose con una tranquillità mortale. Ma una
speranza tenue, una di quelle speranze irragionevoli che nascono dalle
somme disperazioni, ancor balenava nella sua morte interiore.
Era fuggita, ma sola forse, fuggita per cercare di lui... Come saperlo?
Si trovò, la mattina dopo, in uno stato quasi d’incoscienza, davanti
al palazzo Giuliani. Guardò nella corte; le scuderie eran chiuse; le
finestre dei primi due piani similmente chiuse; tutto il palazzo aveva
quell’aria disabitata che assumono le case patrizie al tempo delle
villeggiature. Entrò in portineria per domandar di Rafa; gli fu detto
che lo credevano in campagna, a Villa Ippolita, con tutta la famiglia.
Era partito in automobile.
— Da quando? — egli domandò.
— Forse da una decina di giorni, o poco più.
Tornò fuori. Il selciato delle strade, acceso dal sole, gli feriva
dolorosamente gli occhi; qualche volta gli pareva che i muri delle case
si chinassero su di lui.
Nel suo freddo incubo, immaginava ora una scena selvaggia; si vedeva
davanti a Rafa, in una stanza chiusa, laggiù, chissà dove, lor due
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