Colei che non si deve amare: romanzo - 07

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— Quanto a carati forse ne crescono! — esclamò l’orefice suburbano,
dopo averlo provato. — Un bel braccialetto, veh!... proprio bello!
— È un regalo che mia figlia riceve oggi dal suo fidanzato, — disse il
farmacista con noncuranza.
E tornò in bottega. Questo per lui riparava in parte i torti di
Arrigo e mostrava che, se da un lato era un figliuolo un po’ bizzarro,
dall’altro aveva buon cuore. In ogni modo le sue intenzioni dovevan
esser serie, perchè — diamine! — certi regali non si fanno a casaccio.
Intanto la sorella maggiore d’Arrigo si fidanzò, e le nozze avrebber
dovuto aver luogo nell’autunno seguente, con un bravo giovine che le
voleva un bene quasi ridicolo, ed era figlio di un ricco droghiere.
L’altra sorella era una farfallina appena quindicenne, tutta diversa
dalla maggiore, e tanto frivola, capricciosa, vaporosa, quanto l’altra
era calma, seria, e destinata a non esser altro che una brava massaia.
Anna Laura invece comandava in casa con una prepotenza da tirannella;
era bellina, tanto bellina, che già, quando usciva per istrada,
uno sciame di moscardini le ronzava intorno, e, per certe occhiate
che lanciava loro, il padre e la madre avevan giudicato che fosse
pericoloso lasciarla correr sola.
Per istrada ella non faceva che fermarsi davanti a sarte, modiste,
profumieri; si vestiva bene, si pettinava con ricercatezza, leggeva di
nascosto romanzi proibiti, era un poco pettegola e molto birichina.
Ma poich’era bella e poichè aveva quello stesso far signorile di suo
fratello Arrigo, nè il padre nè la madre osavano essere troppo severi
con lei; la madre sopra tutto, che forse ricordava in quell’ultima
figlia il suo più recente fallo d’amore. Anna Laura parlava
spesso d’Arrigo, dicendo che aveva certo avuto ragioni da vendere
nell’andarsene via dalla bottega paterna per godersi un po’ la vita,
quel genere di vita che a lei pure piaceva: il lusso, i bei vestiti, le
carrozze, i teatri, l’amore.
L’altro fratello, Paolo, era invece un bravo ragazzo serio e dolce;
aveva compiuti i suoi studi con un po’ di fatica ed ora stava imparando
l’arte del padre. Era nato e rimasto un po’ grossolano; a lui la bella
Ruskaia non dava alcun fremito; si contentava di andare la domenica a
bere il vin bianco e mangiare le ciambelle con una florida popolana che
non gli era crudele.
Quella stagione intanto finì; il teatro si chiuse, la Ruskaia, per amor
d’Arrigo, trascurò tutte le scritture che le si offrivano altrove, e
rimase a godersi, nella città ventilata, una bella primavera di riposo
e d’amore.
E qual più dolce primavera di quella che sopraggiunge in una città per
solito fredda e nebbiosa, una città senza alberi, dai parchi radi, le
passeggiate brevi, i giardini nascosti? Quando allora il cielo, non
vasto fra i tetti vicini, prende quel color vivo di madreperla che fa
brillare i selciati e luccica su le finestre chiuse, infiammandole,
come per dire: — Aprite! io passo! io, divina, la primavera!...
Ma queste non eran cose che intenerissero il cuore di Arrigo. Egli
non s’abbandonava perdutamente alla dolcezza d’un amore inerte,
ma badava piuttosto a trar vantaggio da ogni giorno e da ogni ora,
sentendosi ormai vicino al compimento del suo bel sogno immodesto.
Anzi ardiva spingere lo sguardo più lontano, parendogli che quanto
aveva sino allora vagheggiato come la sua meta non fosse che il
principio d’una più grande ambizione. Forzar l’ingresso d’un Circolo,
seder alle cene o nei palchi dei Mammagnúccoli, dir buongiorno senza
togliersi il cappello al marchese di Sant’Urbino, recarsi all’ippodromo
nell’automobile di Lanzo Malatesta, e fare insomma tutte l’altra cose
che di lontano gli erano sembrate un miraggio vertiginoso, più non
bastava per contentare le bramosìe del suo cuore temerario.
A questo sarebbe giunto, e v’era ormai quasi vicino. Ma la battaglia
era degna d’essere combattuta per una causa migliore, poichè si sentiva
nello spirito nascer l’ali per un più grande volo.
E meditò di giungere fin nelle sale meglio custodite dalla duplice
potenza del blasone e dell’oro, nelle sale un po’ tediose d’onestà
camuffata e d’impostura inchinevole, dove gli antichi paraventi
potrebber forse raccontare qualche favoletta salace, dove i camini
dai grandi alari di bronzo sbadigliano con infinita noia su la
eterna commedia della vita. Voleva che l’accogliessero le dame
incipriate, ch’eran state famose di bellezza e d’avventure al tempo
del Risorgimento e che avevan forse danzato al braccio di qualche
uniforme austriaca; voleva che l’accogliessero i vecchi gentiluomini
borbottoni, che la gotta e la podagra vendicava del buon tempo
trascorso; voleva sedere ai pranzi trimestrali della duchessa di
Benevento, essere invitato al ballo di palazzo Altomarino, la sera
di Sant’Eufemia; andar alle feste mascherate che si davan più volte
nell’anno in casa Aimone dell’Ussero, casa ricca ed ospitaliera, che
albergava quattro bellissime nuore tra un codazzo di parentele. Voleva,
se pur ciò dovesse tediarlo, essere fra i pochi ed eroici nobiluomini
che almeno tre volte nella stagione frequentavano i venerdì della
vecchia contessa di Sedriano, la quale, inferma e pressochè sorda,
teneva circolo da un seggiolone simile ad un trono, avendo una nipote
già più che trentenne da maritare, una grama nipote, magra, sghemba
e balbuziente, su la quale s’erano scatenati tutti i malanni dei
Sedriano, rinomati già da secoli per la loro impeccabile bruttezza.
Voleva che d’estate l’invitassero in campagna i Mazzoleni, antichi
profumieri fattisi marchesi da sè, o gli Anselmi, ch’erano una tribù
senza numero, contraddistinti, i maschi dal cranio rotondo, le femmine
dalla spaventosa magrezza: o i Nonaro del Monte, che passavano per la
più ricca famiglia della città.
Pensava di visitare in palco donna Ottavia Malespini, della quale
narravasi che, per salvare certe speculazioni del marito, si fosse
abilmente commerciata ad un ricchissimo banchiere ebreo; donna Eleonora
Salvati, che aveva, dicevasi, la più bella e più visitata collezione
di mutande in pizzo vero; le due sorelle Gozzani, marchesa Marta
e marchesa Federica, delle quali, in verità, era rimasta vedova la
seconda, benchè fosse morto invece il marito della prima, se, a quanto
affermavasi, era vero che il barone capitano Guerrazzo avesse disertato
il talamo coniugale per il letto vedovile della sua deliziosa cognata.
Pensava d’esser ricevuto ai tè intimi di Rosanella Piacentini, questa
frivola, che s’era innamorata del suo pettinatore; ai tè meno intimi di
Graziana Buonconte, che amava giocare in Borsa, discorrere di politica,
scommettere su cavalli, fumare sigari Avana, ed amava pure, a dir delle
cronache, i letti angusti delle sue belle cameriere.
Avrebbe voluto, nei mattini di primavera, caracollare al fianco di
quell’amazzone compiuta ch’era Miretta Sansalvato, la quale si doleva
sopra tutto di non trovare cavalieri abbastanza intrepidi per galoppare
quanto a lei piacesse, ma che certo possedeva una mano tanto robusta
quanto delicata, e ciò avevano riconosciuto in brughiera molti tenenti
di cavalleria. Avrebbe desiderato far musica nel salotto misterioso
della pallida Clara Michelis, che già era vedova in quel tempo, e
visibilmente si struggeva d’un mal vedovile.
Insomma egli avrebbe voluto entrar nell’intimo di quella società ben
nomata, cui tutto è lecito, perchè nessuno è sopra lei, nella piccola
cerchia d’una città, per giudicarla; dove l’ingegno fa minor breccia
che i modi compiuti, e qualchevolta fa sbadigliare, dove la passione
irruenta cede il campo al capriccio elegante, la vendetta iraconda
si copre le mani di guanti delicati e l’amicizia diventa urbana
come un’adulazione complimentosa. In quella società inverniciata,
splendente, ove si canta, si balla, si ride, si ama, si odia, ci si
vendica e si tradisce anche, ma tutto ciò educatamente, con un bel
riserbo, fra quattro pareti, sicchè non ne corra notizia per le bocche
della plebe disprezzabile.
Ed egli vide, come nel sogno d’un maraviglioso avvenire, il giorno
in cui avrebbe avuto per mensa una tavola imbandita di porcellane
trasparenti, servita intorno da una folla di maggiordomi silenziosi,
e sè vide, in quel miraggio di cristalli, di specchi, d’argenterie,
spingere l’occhio lascivo nel bianco d’una scollatura impudica,
sentendosi passare intorno la fragranza della cipria odorosa, il calore
d’un seno intravveduto, l’ardore d’uno sguardo ambiguo... Ripensò la
bottega paterna, dalla quale pochi anni prima era uscito, con qualche
cencio e con poche monete di rame; la bottega semioscura, che doveva
nel destino essere tutto il suo regno; ed invece s’apparecchiò per i
suoi ozi le poltrone profonde, imbottite di cuscini morbidi, per le
sue danze sognò le sale sfavillanti di candelabri, per i suoi amori si
diede convegno nei talami delle marchese infedeli, per le sue nozze,
ch’erano la corona del sogno, si concesse la mano d’una bellissima
ereditiera...
Camminare bisognava, camminare con temerità, senza concedersi requie,
facendosi largo fra i molti che gli avrebbero ostacolata la via,
spezzando i vincoli che gli avvincessero il piede, solo, e pur certo di
non fallire.
Perchè si era scelto questo sogno a tentazione della sua vita
coraggiosa? Neppur egli lo sapeva, nè di saperlo si curava.
Quest’ambizione era sgorgata in lui da una sorgente oscura dell’anima,
lo tormentava e lo spronava con accaniti eccitamenti.
Più tardi avrebbe pensato a coronare di qualche alloro men caduco la
sua tenace ambizione, poich’era uscito dal nulla con la voglia e con
la virtù incontrastabile di non essere un mediocre. Voleva, se pur gli
fosse lecito, compiere nel mondo un passaggio rumoroso, attrarre sopra
di sè qualche invidia, giungere più lontano che potesse dalla oscura e
dimenticata origine.
Taluno de’ suoi nuovi amici gli aveva già vagamente promesso di
proporlo al Circolo nell’autunno prossimo, poichè frattanto gli
conveniva lasciar scorrere l’estate nell’accaparrarsi destramente un
certo numero di simpatie fra que’ soci di maggior credito, i quali
avrebbero potuto a lor talento aprirgli o chiudergli per sempre
l’accesso alla porta sublime. Pieno di fiducia in sè, Arrigo si accinse
con ogni suo potere a questa lenta ed ingegnosa fatica. Negli ultimi
anni il Circolo aveva molto rallentate le sue strette discipline,
aprendo le porte ad una gran folla di soci nuovi e scelti con minore
severità, per il bisogno di mantenersi in vita. Era indispensabile
rinfocolare il gioco, mescere alla cattedratica schiera dei soci
antichi una gioventù più vitale, venuta su coi tempi nuovi nella città
fattasi borghese, e che specchiava il lento ascendere della classe
trafficante sul declinare delle famiglie patrizie. Contro la fama del
casato vinceva ormai la fama dei forzieri pieni; i palazzi secolari
cadevano fatalmente in possesso della plebe arricchita. Nomi che ancor
sentivano il lezzo d’ogni bassa speculazione mercantile tenevan la
dittatura della città, procacciando ai figli le cariche più illustri,
maritando le figlie ben dotate nei parentadi più antichi.
Sul roco singulto della tromba feudale vincevan con più vasti urli
le sirene dell’officine: ai corni di caccia perduti nell’eco delle
bandite, rispondeva il rombo laborioso dei martelli, l’ánsito e lo
sbuffo delle grandi macchine generatrici; contro il peana degli
eserciti sanguinari prorompeva dalla piazza invasa l’Inno dei
Lavoratori.
E fra queste usanze nuove, più facile s’apriva il cammino ai
sopravvenuti dal basso; l’uomo non portava più su la fronte il suggello
ed il marchio della sua nascita, ma nella gara della vita egli valeva
per il cammino che vi sapesse compiere, valeva nella fiera umana per
la sua destrezza di giocoliere, per la sua facondia di ciarlatano,
e poteva così pescare o frodare il maggior dado nel bossolo della
sua fortuna. Il popolo tirannico lanciava in tutte le giostre i suoi
robusti campioni, e poich’erano assetati di vita, avidi per diuturne
astinenze, callosi e astiosi dei gioghi patiti, mettevan nel vincere
una caparbia ira, millantavano in tutte le vittorie una rumorosa
temerità.
Ora l’estate venne; con l’estate l’esodo verso le campagne, verso
gli ozi lacustri e montani, verso le spiaggie che bruciano di arene
scintillanti, nei rossi mesi dell’ozio e della bagnatura. La città
spopolata rimase in balia de’ suoi più tenaci lavoratori, divenne il
regno dei mariti allegri e degli sfaccendati, che per pigrizia non
avevano il coraggio di prendere un treno. La vita si fece più familiare
fra tutti quelli ch’erano afflitti dallo stesso mal della calura, e si
udì giurare in buona fede che la città non fosse mai tanto piacevole ad
abitarsi come quando è sgombra dalla sua maggior cittadinanza.
Più a lungo si vegliò la notte, si fecero lunghe sieste nei pomeriggi
afosi; lo scopo delle passeggiate serali fu l’andare in cerca d’un
fil d’aria, e tutte le maledizioni dell’anno dettero ai tormentati una
breve tregua, poichè il calendario d’ogni vita segnava il tempo delle
beate villeggiature.
Arrigo e la Ruskaia non indugiarono a lungo in città. Ella del resto
s’annoiava. Da che s’era chiuso il teatro s’annoiava profondamente; il
giorno sopra tutto, chè le notti avevan sempre qualche svago.
Egli era forse un po’ despotico, e talvolta la indispettiva; poi non
era geloso affatto, e ciò la umiliava. Qualche nube era già sorta
fra loro a proposito di mille inezie; non avevan lo stesso modo di
pensare, non amavano gli stessi libri, non trovavan simpatica la
medesima gente. Arrigo passava troppe ore fuor di casa, dedicava troppo
tempo agli amici, alle carte, alle sue cure ambiziose, aveva sempre un
certo fare preoccupato e chiuso, che urtava la gelosia dell’amante;
non era inoltre un uomo capace di prestarsi a tutti i capricci d’una
donna viziata, e qualche volta, pur nell’ore più intime, dimostrava
già d’avere una certa fretta. Ella cominciava talvolta con sentirsi
un poco sola... E però s’amavano ancora. Nubi lievi, che dileguavano
rapidamente nel calore d’una tentazione.
Furon all’acque, furon in montagna, poi scesero ad una riva lacustre
non lontana dalla città, e, per finirvi l’estate, affittarono una
villetta piccola come un nido, che bagnava nell’acqua placida le sue
fiorite spalliere di rosai.
La sponda spesseggiava di ville festevoli, d’alberghi frequentatissimi;
tutto il giorno per la lunga strada rasente il lago era un trascorrere
di carrozze o d’automobili dall’uno all’altro cancello, poichè la
signoria villeggiante si onorava di visite scambievoli, largheggiava di
feste nei parchi sontuosi, talvolta ballava, recitava, si mascherava,
correva regate a vela, giostrava nei campi da tennis ed inoltre si dava
cura dell’umanità sofferente allestendo con grande strepito qualche
fiera di beneficenza.
Tra quel frastuono di vita mondana gli amanti vissero in disparte,
quasi nascosti nell’intimità del loro nido.
L’estate, già percorsa da qualche brivido, già consunta di qualche
foglia gialla, l’estate che irrompeva nelle vigne con una rossa
maturanza di grappoli e pareva bruciasse nei giardini con assurde
magnificenze di fiori, consumava nell’ardore delle postreme sue vampe
le vene degli amanti, che in quella sopraffazione di vita sentivano da
tutte le cose circostanti scaturire una inconsumabile voluttà.
Nulla è più tormentoso per il viandante che l’incontrare, nei pomeriggi
di sole, certa piccola casa dalle persiane socchiuse, dalle tende
abbassate, intorno a cui mormori un silenzio di cose vive, canti nel
verde una fresca fontana, luccichi tra le ghiaie del viale qualche
frantume di vetro...
Nulla è più stanchevole per il rematore che il passar con la sua barca
sotto un giardino fragrante, quando al sole morente si riaprono le
finestre della casa, ed insieme, vicini, semisvestiti, due s’affacciano
al davanzale, guardando nella tremante azzurrità di quell’ora in cui
principiano e suonar campane, perchè tutto il pomeriggio han dormito,
sognato, amato, in una chiusa camera tranquilla, dove tuttavia pertugia
come un barlume quella enorme crudeltà dell’estate, quel vertiginoso
balenìo del sole su l’acqua inerte, quella immobile tribolazione che
nella vampa invade ogni cosa, quando l’incendio gràvita su l’ora ferma
consumando il suo proprio splendore.
E i solitari, gli oziosi, gli snervati, quelli che tormenta un
desiderio nascosto, quelli che per infinite strade han da essere o
viandanti o rematori, pensano con un’invidia piena di malinconia a que’
due che stanno dentro la casa tacente, che han dormito, sognato, amato,
nel nascosto rifugio, durante un lungo pomeriggio di sole.
Poi l’invidia si fa curiosa; va, spia, guarda, parla, racconta... Il
basso tetto, chiuso fra gli alberi del giardino lacustre, diviene il
luogo dolce del peccato, che turba le immaginazioni altrui, che muove
per tutto all’intorno una leggenda d’amore.
Traverso il chiuso cancello corrono sguardi furtivi; a quelle finestre
incantate volano molti sogni altrui; tutto in quella casa innocente par
stregato e colpevole, poichè da ogni ramoscello, da ogni pietra, pende
il segreto voluttuoso di due giovinezze che si amano.
Nelle sale affollate si parlò di quella casa taciturna; qualche
giovine signore, noiato della vita familiare, spinse l’audacia de’
suoi propositi fino a tentar l’assedio della bella innamorata; qualche
vecchia zitellona pettegolò di que’ due con la più verde bile; qualche
ragazza vaporosa, nel letto insonne, rivide a piè del giardinetto
le straboccanti spalliere di rosai e quel cespo di gelsomino che
abbracciava le finestre semichiuse; qualche moglie, vedova nella
settimana, quando fu la sera del sabato, prima di spegnere il lume, ne
tormentò il marito sonnacchioso...
E tutto questo fece sì che per la riva lacustre, in un cerchio nuovo
di persone, si propagasse quell’indiscreto cicaleccio che aveva sin
dal principio divulgato gli amori di Arrigo e di Tatiana, quando la
lieta schiera dei Mammagnúccoli s’era prima commossa per l’avventura di
costui.
Fu, tra gli altri, un barone, ch’era in villa con la sua vecchia madre,
un barone dalla barba crespa, giunto al limite dei quarant’anni con un
cuor d’adolescente, il quale molto s’ingelosì di quell’idillio estivo,
tanta inquietudine d’amore lo strinse per la bellissima cantatrice.
Non di rado egli la vedeva nel giardino, più spesso la udiva lanciare
in alto i suoi armoniosi trilli, poichè il possesso baronale confinava
con il giardino degli amanti e non v’era tra l’uno e l’altro che un
muricciuolo di poche pietre.
Il barone Silvestro Piaggi era un uomo alto e complesso, con un
bel volto roseo, da buon fanciullone, cui cresceva di giovialità
l’ornamento della barba bionda e crespa. Onoratissimo e ricchissimo,
era stato saettato senza mercè dalle ragazze da marito; ma per un
amor filiale più devoto che ogni altro affetto non s’era mai voluto
ammogliare, temendo che una sua propria famiglia lo costringesse a
mancare d’assiduità presso la vecchia madre.
Quest’uomo però s’innamorava; e poich’egli possedeva in massimo grado
ciò che alle donne sommamente piace: la cavalleria de’ modi e l’estrema
prodigalità — l’amore nella sua vita era stato una cosa gioconda.
Per corteggiare la Ruskaia il barone Silvestro riprendeva quella sua
grande aria battagliera del bel tempo quand’era uno smilzo ufficiale di
cavalleria; la dardeggiava d’occhiate lusinghevoli, pareva quasi che
volesse prosternarle ai piedi, con un sol atto loquace, sè stesso, il
suo denaro, la sua più che devota urbanità.
Questo non dava noia alla Ruskaia, e nemmeno ad Arrigo, il quale
anzichè adontarsi, mostrava di questi pericoli una singolare
compiacenza.
Lungo quel muricciuolo, quante mai volte passava il barone Silvestro!
La sua bella barba crespa brillava nei raggi di sole con vera
magnificenza. Un giorno egli salutò. La Ruskaia sorrise. Tutte le cose
del mondo hanno la lor ragione d’essere: quel sorriso forse voleva
dire:
«Chissà?...»
Chissà?... È tanto pieno di mistero l’animo d’una donna innamorata!
Ella prova talvolta il bisogno di mescere nel proprio sentimento anche
la sottile gioia che le proviene dal deridere un altr’uomo. Poi, ad
un tale che saluta, — un signorotto nel suo feudo — perchè mai non
sorridere? Questo sorriso è lieve come l’innocenza; nulla promette,
nulla impedisce; passa, vola via, non tocca, ma dice ambiguamente:
«Chissà...»
La vita è così bizzarra, e tutto in fin de’ conti può succedere!...
Anche il bel caso che un grande amore vada a finire in cenere. Allora
può essere utile aver detto: «Chissà...» E poi è dolce, per la donna
un poco frivola, dormire nel proprio letto con un amante amato, ma
col pensiero d’un altro — un signorotto nel suo feudo — che per amore
di lei veglia e sospira... È dolce cosa il pensare; «C’è chi guarda
mentre mi pettino le treccie alla finestra; c’è chi trema se passo nel
giardino in vestaglia... Sì, quel barone mi fa un po’ ridere con la sua
testa calva e la sua barba bionda... ma la gente del paese lo saluta
e lo inchina come un piccolo re. In fondo vorrei sapere perchè Arrigo
non è geloso? Anzi non fa che dormire. Quanto dorme questo Arrigo nei
giorni d’estate!...»
Una volta finalmente il barone Silvestro osò varcare la soglia. Co’
suoi quarant’anni e la sua barba crespa era tuttavia confuso come un
collegiale.
Arrigo era in pigiama e s’affrettò a vestirsi. Lo ricevette la Ruskaia,
tutt’accesa in volto perchè aveva remato per due lunghe ore sotto il
sole.
Quand’era in impaccio, ella rideva. Per prima cosa dunque si mise a
ridere apertamente, con quella sua boccuccia di bambola piena d’una
grazia inesprimibile. Nella saletta faceva un po’ scuro.
— Vi prego, sedete, barone.
Egli rimase in piedi. Non gli pareva quasi vero d’esser lì. Anzi
dimenticava la ragione della sua visita. Finalmente se ne risovvenne.
— Sono incaricato... — L’avevano incaricato d’una commissione. Le
nobili dame della beneficenza l’avevano mandato a parlamentare con la
cantante dalla voce d’oro. Si stava preparando una gran festa, nel
teatro d’un albergo vicino, a favore di certi derelitti... Questa
recita si faceva tutti gli anni. Vorrebbe cantare la Ruskaia? Non
dicesse di no! La patronessa era donna Claudia del Borgo; canterebbe la
marchesina Farulli, donna Francesca Monteguti... Poi si dava pure una
commediola... Non dicesse di no!
Che orribile pronunzia aveva in francese quel barone Silvestro!...
— osservò fra sè stessa la Ruskaia ancor prima di pensare se le
convenisse accettare o no. Aveva inoltre in tutta la sua grossa persona
qualcosa d’artefatto e di comico. No, stava meglio di lontano, con la
sua barba crespa dietro il muricciuolo. Pensò ch’era stata sciocca nel
lasciargli credere...
— Noi siamo vicini di casa, per mia fortuna... — egli disse con un tono
galante.
— Oh, che fortuna!
— Tutte le mattine, alla finestra, la intravvedo...
— Già, già...
Era un po’ inquieta, forse irritata; le dava noia quel garbato e
melenso corteggiatore. Queste fervide slave sentono l’uomo e la
maschilità dell’uomo in un modo singolare.
— Eppure ho dovuto attendere fino ad oggi l’occasione di poterla
conoscere.
— Certo... — E gli sorrise, come la prima volta, nel giardino.
Sopraggiunse Arrigo. Il barone gli si presentò. Uomo affabile,
cavaliere di gran mondo, poteva impacciarsi davanti ad una bella donna,
ma in ogni altra circostanza rimaneva padrone di sè. La proposta venne
ripetuta, e dopo molta esitazione, persuasa dalle insistenze di Arrigo,
la Ruskaia finì con accettare.
Ma, Dio buono!... questo impegno la impensieriva... Da varii mesi non
aveva cantato più. Il barone disse:
— Oh, non raccontate queste cose al vostro vicino!
Già, ma quelli erano trilli all’aria aperta; ora bisognava che si
ripreparasse.
— Insomma ho promesso: canterò.
Ed eccoli tutt’e due più vicini a dame e signori, nella promiscuità
d’un grande albergo, sotto l’ala della buona Fata Beneficenza. Ecco
lei, festeggiata, in mezzo a crocchi di signore ciarliere, ferventi
nell’opera intrapresa, tutto il giorno in faccende, liete più che
mai di parere una volta quel che non erano, esibendosi dalla scena a
spettacolo d’una folta platea. Ed eccole, curiose di questa cantatrice
straniera che trascinava dietro sè una storia d’avventure clamorose,
che aveva durante l’inverno messo a rumore la città col suo canto e
con la sua passione. Piacque; la trovaron simpatica, spiritosa, fina;
si divertirono a stare con lei, a respirare un poco di quella polvere
dorata, prestigiosa, che sembrava ravvolgerla di splendore, fatta di
tante cose dissimili: dall’applauso che aveva suscitato intorno a sè
nella sua vita errante, all’oro che le avevano cosparso ai piedi e
sul quale aveva camminato; da quella caparbia onestà ch’era talvolta
un nodo inestricabile, alle strane lussurie di chi la credevan
capace nella sua coltre di bella donna errante. La fecero cantare,
l’applaudirono, la lusingarono, le fecero crocchio intorno, verso l’ora
del tè; infine, se non si fosse intromesso qualche burbero marito,
sarebbero fors’anco giunte ad invitarla nelle case loro.
Per riflesso, Arrigo profittava delle festose accoglienze che
dappertutto si facevano alla Ruskaia. Da lei si teneva più lontano che
gli fosse possibile, per non ledere le buone apparenze, e il mondo,
che, se ciò gli garba, indulge talora fin oltre il necessario, fingeva
d’ignorar persino che fossero amanti e che avessero in riva al lago una
dolce villa dalle finestre semichiuse.
Durante le prove della recita egli se ne stava in disparte, nel grande
atrio dell’albergo, talvolta nel giardino, mostrandosi pieno di garbo e
di gentile modestia.
Le signorine gli ronzavano intorno, a sciami, curiose di lui, per quel
che ne avevano inteso raccontare a mezza voce durante l’austerità dei
pranzi familiari. Fra i crocchi di signore si discuteva intorno alla
sua persona. Era giunto fin lì quell’appellativo di «bel Ferrante»
che gli avevano aggiudicato nei palchi del teatro, quando il suo
nome si era diffuso per le prime volte, congiunto a quello della
Ruskaia. Senza paragone infatti egli superava i due seduttori più
avventurosi della stagione lacustre: Cencio Baracco, vincitore di
regate, e Massimo Randa, che ogni sera traversava il lago in lancia
a benzina, per un legame che aveva su l’altra sponda. Li vinceva di
bellezza e di novità, ma era forse un po’ troppo virile per il gusto
di quelle dame raffinate. Gli mancava senza dubbio quell’aria etica,
quel pallor giallastro di cattiva digestione, quell’andar stanco su le
gambe flosce, che preannunzia la spinite lontana; molto insomma gli
mancava di quel che piace per lo più nei giovini signori moderni, e
che aggiudica loro talvolta la fama d’irresistibili. Ma con la svelta
persona, col bel collo muscolato, con la maschera del volto precisa
e chiara, parlava dirittamente ai sensi di talune, che non potevano
impedirsi dal risentire una certa piacevole molestia in vicinanza di un
così bel dominatore.
Egli d’altronde non era, o non pareva essere, vano. Più oltre spingeva
i suoi disegni che a ferire il cuore di questa o quella ammiratrice; a
men difficili tempi serbava gli oziosi tornei d’amore. La sua battaglia
era di quelle che si combattono con taciturna pazienza, ed egli non
vedeva davanti a sè che una meta, necessaria, lontana. Cacciarsi
a forza di gomitate abili dentro quel mondo restìo: questa era per
intanto la sua fatica. Ed a ciò, tutto gli doveva servire; anche la
bella voce della Ruskaia, anche le interessate cortesie del barone
Silvestro, anche i pettegolezzi ch’egli sentiva correre intorno come
lucertole fra l’erba, ed anche le non ambigue punzecchiature di donna
Claudia del Borgo, che patrocinava la festa.
Questa donna Claudia era già oltre nell’autunno della sua famosa
e dissoluta bellezza; ma non con gli anni s’addormentava il suo
tumultuoso cuore; non meno piacevanle con ardore le tempre giovini e
salde per essersi alquanto sciupata ne’ suoi lunghi vizi. Un marito
inconcludente, ricco senza confine, era stato il mecenate silenzioso
de’ suoi folli capricci. Giovine, si era data a chi la voleva, a
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