Colei che non si deve amare: romanzo - 15

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Entraron due giovini bellimbusti, allegri e chiassosi, che
imbaldoriavano quella sera in compagnia di due cortigianelle, così
rosse di belletto e così eccentricamente vestite, che molti, fra que’
satolli borghesi, ebber l’aria di scandolezzarsene. Le due ragazze
ciarliere, tenendosi al braccio dei lor galanti, camminavan sui tacchi
alti con un passo dinoccolato ed uno sconcio dimenìo dell’anche, ogni
tratto scoppiando in certe risate stridule che ferivano i timpani
altrui come la nota falsa d’una chitarra scordata. Eran gaudenti o
nottambuli di basso ceto e donne di bassa galanteria; adocchiaron
passando la tavola d’Arrigo; un d’essi lo salutò. Conoscenze antiche,
forse del tempo ch’egli tavernava con una cricca di fannulloni equivoci
per le bottiglierie malfamate. I sopraggiunti sedettero ad una tavola
vicina e si misero manifestamente a parlar di lui. Arrigo, intuendo i
loro discorsi, per la prima volta si doleva che lo avessero sorpreso in
quella trattoria campestre, quasi clandestina per un giovine signore, e
sorpresi lor due soli, che parevano amanti, che dovevano a tutti parer
amanti, e forse portavano impressa nel viso l’incancellabile ombra del
loro peccato.
Loretta capì che qualcosa lo molestava e domandò:
— Chi è quel tale che t’ha salutato?
— Un avvocatello senza clienti, — rispose Arrigo; — un brutto tipo.
— E quelle due ragazze?
— Oh, non saprei!
— Discorrono di noi
— Me ne sono accorto.
— Cosa posson dire?
— Nulla di buono, certo. Mi spiace molto che ci vedano insieme, perchè
il mondo certe cose le indovina, e Dio sa come.
— Credi?
— Non costoro, forse; ma quando ci saremo fatti vedere troppe volte
insieme, qualche altro, chissà mai...
— Bene, in séguito vi penseremo.
Entrambi tacquero. Nel giardino le risate squillavano; chi aveva troppo
mangiato lasciava che il proprio stomaco operasse in pace la fatica
della digestione; frattanto, nel calor del vino, si tenevan propositi
gai. Ai bimbi s’era lasciata la briglia sul collo e scarrieravano
con alti gridi sotto i pergolati; uomini e donne, con quella vampa
di ardore nel viso che vien dal cibo soverchio e dal generoso vino,
riversavan su le tavole ancor ingombre il sale dell’aneddoto, il
pepe della barzelletta grassa. I mariti, gli amanti, gli innamorati
pensavano alla notte vicina.
Su in alto si danzava. Quel flutto di musica un po’ tempestosa
traboccava sul terrazzo dalle finestre aperte; ogni tanto una ragazza
vi si affacciava, tutta accaldata, i capelli in disordine, con un
amator mellifluo che le stava intorno. Respiravan una boccata d’aria, e
via di nuovo, strettamente, accanitamente, nel tramestìo della danza.
Ogni tanto, se il vento serale passava con una larga ondata sul
padiglione in fiore, tutti quei grappoli azzurri, esuberanti e grevi
come la più ricca vendemmia, spandevan sopra il giardino un lungo e
profumato brivido, lasciavan cadere a scosse qualche fiore morto, che
lungamente strisciava su la ghiaia, di qua, di là, dappertutto, con un
prolungato fruscìo.
Tre girovaghi entrarono, e nelle pause del pianoforte si misero a
cantar serenate.
Que’ due che s’amavano, d’un tratto non parlarono più.
La sera, e la musica, e quel profumo d’aperta campagna, tormentavan la
tristezza del loro sogno nascosto. Volersi bene era triste, desiderarsi
era un grande peccato, rifiutarsi l’uno all’altra era più che
soffrire...
Egli chiamò il cameriere, pagò in fretta, disse alla sorella: —
Andiamo, camminiamo.
Uscirono. S’era levata una chiara luna su la campagna imbiancata; i
fossatelli ne stralucevan a distanza; gli alberi, or folti or radi,
segnavan nella purità della notte certe immobili ombre, quasi violette.
Presero fra i campi. Il grano verde balenava di fili d’argento;
un’acqua corrente, nascosta, forse lontana, mandava un rumor così lieve
che pareva esser solamente una freschezza.
Ella diede il braccio al fratello; le lor ombre commiste li
accompagnavan nel chiaro di luna.
— Mi vuoi bene? — ella domandò, piano, avvincendosi a lui. Egli sciolse
il braccio, lo girò intorno alla sua cintura, se la strinse vicina,
senza rispondere.
Passavan sotto grandi alberi, poderosi di antichità, vivi d’una occulta
vita notturna.
Allora, paurosamente, in quell’ombra si baciarono. Bocca su bocca,
nel profumo della notte, nel tremore dei loro sensi, follemente si
baciarono. Quel bacio li percorse dalla fronte alle caviglie come una
molteplice carezza, li snervò, li vinse, fece del loro amore un nodo
strettissimo e doloroso.
C’era nel breve bosco la menta selvatica che odorava troppo forte.
Piangere, dolersi, ridere, traboccare di gioia, sentire che le vene
battono, ebbre, con un delirio pieno di tormentata felicità... Quel
bacio si moltiplicò su la bocca, su gli occhi, su la fronte, sul
collo... su la bocca.
Essere così pieni d’amore, e non potersi amare! Essere così vicini,
così soli, in una bianchissima notte, con la viva primavera intorno, la
primavera che soverchia e dà la vertigine... Lì nel bosco, tutte l’erbe
odorose che vampavano come incensieri; la menta, il basilico, la ruta;
un’acqua che passa nascosta, una mandolinata che trilla, già lontana;
tra il fogliame, per la campagna rorida, i gelsi torti, gli albicocchi
tutti un fiore...
Guardarono in su, tra il fogliame; videro il cielo pieno di stelle.
Cadevan, le piccole stelle, per l’aria infocata, come una pioggia, un
turbine di minute scintille rosse...
Ella era di loro due la più forte, perchè del peccato non conosceva che
il nome: egli era il più sperduto ed il più ebbro, perchè del peccato
godeva sino al fondo l’estenuante malefizio.
Questa passione gli devastava il cuore con artigli e con spine,
logorava lentamente la sua tenace volontà. Già stava presso a
dimenticare, a vincere il nome insormontabile, (un nome... — aveva
ella detto, — cos’è un nome?...) e già guardava con occhi limpidi nel
peccato mortale. Voleva esser cinico, apparecchiarsi una festa soave,
non sciupare un fremito, goderne con lentezza e maestria... Si lasciava
cadere a poco a poco, insensibilmente, nella tentazione, quasi per
avvezzarsi a quel coraggio formidabile.
Ma quando era già per dire a sè stesso, ed a lei, la parola più temuta,
un rombo enorme saliva nella vastità del suo spirito, e subitamente,
quasi venisse chissà da qual remota lontananza dell’essere, quasi
risorgesse di sotto il peso della sua volontà, quasi fossegli commista
nel sangue, indistruttibile tra i suoi fantasmi, una immagine fredda,
malinconica, gli appariva nella mente.
E vedeva la faccia del suo padre, immiserito dalla vecchiezza,
affaticato dalle sventure, guardarlo con que’ suoi pallidi occhi, più
dolorosi che gli occhi d’un animale ferito, guardarlo e ripetergli
mutamente, come quando era uscito dalla casa: «Sei stato tu! sei stato
tu!...»
Ella, questi fantasmi, non li vedeva; ella fissava il peccato più
grande con la più piccola paura. Non aveva in sè che una forza: quella
del proprio desiderio; una sola incoscienza: quella della propria
femminilità. Nel suo turbato cuore di vergine il senso della tragedia
si disperdeva in un sottile piacere.
Poichè nell’amarlo non cercava in lui che un amante, così le pareva
naturale dirgli: «Préndimi nelle tue braccia, se anche porto un nome
che ti fa paura! Préndimi e stringimi, per questo, più forte!» Poichè
vicino a lui si sentiva protetta, invaghita, sottomessa e piena di
brivido, poich’egli guardandola, toccandola, esasperava il suo tormento
di vergine, l’altre paure, l’altre angosce, non erano per lei che
ripudiabili ombre.
E così gli diceva con persuasione, con impeto, la parola più temuta,
perch’egli la conducesse via con sè, verso la camera dove sarebbero
stati soli, nel cuore della notte, senza che sguardo umano li vedesse.
E sognava egli pure quella camera, la camera dove lentamente,
paurosamente, l’avrebbe svestita, velo per velo, con brividi, come si
scopre un tesoro vietato.
Avrebbe veduto prima la sua gola bianca, turgida apparire, poi le tenui
braccia odorose, con i polsi azzurri di vene, che avrebbero fatto un
nodo, un nodo forte nello spasimo, intorno al suo collo, ed il seno
ancora non baciato, erto, consapevole dei baci, divise nel mezzo da
un’ombra che vestiva naturalmente la sua nudità...
Ed egli pensò di spegnere il lume nella camera per aver più coraggio,
ma desiderò filtrasse un chiarore, una penombra man mano più
discernevole, forse dai lampioni della contrada, forse da una lampada
velata nella stanza vicina. E sentì l’odore del suo corpo disciolto,
quello stesso, ma più dolce, ch’ell’aveva su la bocca, nel baciarlo; un
odore intenso e molteplice, che le fioriva dalla pelle, come se nelle
pieghe del suo corpo fossero nascoste rose. Assaporò la freschezza
di quella carne primaverile, immaginò di carezzare la sua tonda
spalla ignuda, insinuò la mano brancolante nel tepor vellutato delle
ascelle, si raccolse nelle strette braccia il suo busto flessibile
come un virgulto, sentì contro sè stesso il palpito infrenabile del
suo grembo, il viluppo della persona ch’ella farebbe contro la sua
persona, per offrirsi e per difendersi, concepì la gioia selvaggia di
poterla tramortire, le intese nella gola il rantolo della verginità
fuggente, la udì piangere nell’ebbrezza, ridere nel dolore... poi la
vide com’era, snella, arcata, forte nella sua tenuità, impallidire un
momento di quel pallore ch’è presso alla morte, e balenar tutta bella
d’amore in quell’odio esultante con cui la vergine si dà...
Ma d’improvviso ella si era sentita male. Veramente, come nella sua
visione, egli l’aveva veduta sbiancarsi di quello stesso pallore, s’era
sentito afferrar le braccia dalle sue mani convulse, poi, vedendola
barcollare, l’aveva sorretta contro di sè.
— Che hai, Lora?
Non rispose; le battevano i denti; tremava.
— Lora! Lora! che hai?
— Nulla... — balbettò, — passa...
Non era che uno stordimento, e la bocca presto le risorrise. Rifecero
il cammino; egli la sorresse fino alla vettura.
Il cocchiere cicalò; il cavalluccio riprese a trottare verso la città
del suo martirio, dove c’eran il sasso aspro, la rotaia sdrucciolevole,
la posta e la stalla. Di qua, di là dalle due siepi, odorosa nella
candida notte, la terra lavorata coltivava grani e frutti per la
città vorace; qualche grillo innamorato della luna levava il suo canto
stridulo, infinitamente maggiore di sè.
Ora le doleva il capo, aveva intorno alle tempie un cerchio ferreo, che
martellava. Per lenirsi quel dolore prese una mano del fratello e se ne
fasciò la fronte.
— Soffri?
— Sì, un poco.
Egli le circondò la fronte, da una tempia all’altra, di tanti piccoli
baci.
— Tienmi vicina, molto vicina... e guarirò.
In un giardino che incontrarono, le rose di Maggio aprivano i lor
càlici gonfi di primavera.
— Ti senti ancor male?
— Sì, un male dolce...
Di là da un filare di pioppi riapparve, come una vasta nuvola sospesa
nel firmamento, la vampa rossa della città. Sopraggiunsero le prime
case, con muraglie bianche di luna. Ora i grilli eran cento, eran
mille, perduti nel fieno maggengo, ed uno, fra tutti più iracondo,
pareva inseguirli da presso lungo la siepe di biancospino.
D’un tratto ella rovesciò la testa contro la sua spalla, come se un
principio di svenimento la soverchiasse.
— Rigo, mi sento male... — balbettò premendosi il petto.
— Ma che hai? — diss’egli, smarrito; — perchè soffri così?
Ella chiuse gli occhi e volle ancora sorridergli dal viso tutto bianco.
— Stordita mi sento... non so...
— Vuoi fermarti? Che vuoi fare?
— Nulla; ora passa... passa... Ti amo...
Quando furono all’ultima cascina, il canto randagio del grillo si
disperse lontano, infinitamente lontano, e morì. Ma di fronte apparve
il dazio monumentale, maestoso come un arco di trionfo, sotto il cielo
stellato. Le guardie daziarie, sedute presso il casello, ridevano e
fumavano, ciarlando con donne di malaffare. In mezzo a frotte di bimbi
alcuni vagabondi giocavano alla riffa d’un venditore ambulante; un
divoratore di stoppa infiammata spalancava davanti agli spettatori
attoniti l’enorme sua bocca fuligginosa.
— Ti amo... — ella disse ancora, in un soffio, all’amante pallido.
E il cilicio della colpa inconsumabile rivestì come un mantello di
spine la loro carne disperata.


VIII

Arrivò inaspettato in casa di Clara Michelis verso l’ora della
colazione. Da qualche giorno ella non lo vedeva più; gli aveva scritto
più volte senz’averne risposta, era stata ripetutamente a casa sua, ma
senza mai trovarlo. Non poteva considerare come insolito il fatto che
Arrigo la trascurasse; però egli non s’era mai dimostrato noncurante a
quel segno.
La madre e la figlia stavano sedendo a tavola, quand’egli giunse. Fu il
domestico a chiedergli per primo se avesse già fatta colazione.
Poi che rispose di no, gli fu apparecchiato il posto abituale, dov’egli
sedette con l’aria d’un uomo affranto.
— Ho avuto molto a fare in questi giorni, — disse a mo’ di scusa. —
Perdonatemi di non essere venuto.
Nè la figlia nè i domestici si meravigliavan ormai della sua presenza
in quella casa; egli n’era divenuto un poco il padrone, tutti sapevano
per qual verso, ed ormai nessuno più vi badava. Quel giorno la sua
faccia era pallida, concitata, i suoi occhi pieni di febbre, le sue
mani un po’ irrequiete.
— Sono stato occupatissimo, — ripetè, come se non sapesse cos’altro
dire.
Per rispetto alla figlia, Clara non rispose parola, e stette a
guardarlo, a fissarlo, con i suoi dolci occhi pieni di tenerezza e di
rassegnazione. Aveva un gran timore di lui quando lo vedeva giungere a
quel modo. Anch’ella era sciupata, e siccome pensava di rimaner sola,
era venuta a colazione in vestaglia senz’aver finito di racconciarsi.
La cipria lasciava una traccia visibile su la sua pelle un po’ logora;
il collo, che usciva esilmente fuor dai merletti della scollatura,
aveva un’apparenza di cosa malata; nel mangiare, qualche leggerissima
ruga le si formava agli angoli della bocca e presso gli archi de’
sopraccigli. Forse aveva pianto nella notte insonne; gli occhi le
si erano come smorzati e volgevano verso l’amante uno sguardo pieno
d’angosciosa dolcezza.
Adelina invece appariva tutta fresca ne’ suoi diciassett’anni fiorenti;
ma quel signor Arrigo la impacciava un po’, quando, invece di scherzare
con lei come di consueto, veniva con quella sua faccia da can mastino
e la guardava ogni tanto con i suoi occhi violenti come quelli d’un
uccellaccio notturno.
— Cos’avete mai avuto a fare in tutti questi giorni? — domandò Clara
finalmente, cercando che le sue parole avesser un tono scherzoso.
— Molte cose, — diss’egli. — Vi racconterò.
E súbito, per mutar argomento, si rivolse alla signorina:
— E voi, Lela, come va? — Cercava di sorridere, ma la sua faccia era
contratta.
— Lela va benissimo, — rispose allegramente la fanciulla. — Mi pare
invece che lei non stia molto bene.
— Perchè?
— Ma non s’è guardato nello specchio stamattina?
— Ah... non ho avuto il tempo di radermi la barba: ecco la ragione. Poi
mi duole un po’ il capo.
— E non mangia?
— Sì, mangio; ma ho poca fame.
— Forse volete prendere qualcosa per il mal di capo? — interruppe
Clara, guardandolo con occhi già pieni di perdono.
— Grazie, è un cerchio nervoso; non importa.
— Desiderate un brodo? un’ala di pollo?
— Grazie, grazie; raccontátemi qualcosa piuttosto.
— La mamma non avrà nulla da raccontarle, perchè se n’è rimasta in casa
tutti questi giorni, — disse Lela con una cert’aria di sottinteso e di
malizia.
— Ah, sì? — fece Arrigo, sogguardando rapidamente Clara.
Ma ella chinò il viso e finse di non aver udito.
— Allora mi racconterete voi qualcosa, — disse Arrigo.
— Quello che faccio io non le può interessare: però, se ci tiene...
— Sicuro.
— Ma sa che è molto brutto lei stamattina!
— Vi pare?
— Proprio! Si curi.
— Com’è impertinente questa figliola! — esclamò la madre sorridendo.
— Mi curerò, — fece Arrigo; — ma intanto aspetto che mi raccontiate
qualcosa.
— Dunque: sono stata due sere fa in casa De Vincenzi, dove la mamma non
è venuta perchè aveva l’emicrania, come lei stamattina. Vi sono andata
con la Miss. C’era un piccolo ricevimento di signorine.
— Chissà quanti pettegolezzi! — egli fece, con amabilità.
— Da parte mia, no; sa bene che non sono pettegola affatto.
Naturalmente, se le altre parlano, ascolto. Ho inteso dire, per
esempio, che il suo amico Varni ha preso a schiaffi l’altra sera un
ufficiale, il tenente Maffei, quello che fa la corte alla contessina
Sala, per un litigio durante una cena... È vero?
— Si, è vero.
— E si son battuti?
— Non ancora; forse oggi, forse domani, perchè i padrini hanno cercato
di accomodare la cosa.
— È stato per gelosia, non è vero? Così mi hanno detto.
— Esattissimo. E poi?
— E poi che al teatro della Varietà c’è una ballerina Americana, molto
bella, che balla la danza di Salomè a piedi nudi... — ella narrò senza
rossore, con una voce piena di reticenze.
— Ma cosa t’interessi mai di queste cose, Lela! — osservò la madre
severamente.
— Scusa, mamma, lo hanno raccontato; che colpa ne ho io?
— Bene; e poi? — fece Arrigo.
— E poi che al loro Circolo si gioca ora una partita fortissima, e che
forse Missolungi vincerà il Gran Premio di domenica.
— Missolungi no; credo piuttosto Arianna.
— Ma Arianna, — ella discusse, con sicura competenza, — porta
quattro chili di sopraccarico; inoltre don Carletto Malespini, suo
proprietario, ha sempre la jettatura.
— Può darsi. Andrete alle corse domenica?
— Andrò con la Miss, ma nel prato. Saremo una comitiva di cinque o sei
signorine.
— E voi andrete? — domandò Arrigo a Clara.
— No; sapete bene che mi ci annoio.
— Una volta non era così.
— Già, una volta... ma ora è diverso, — ella disse con una certa
tristezza.
— Bene, — ripetè Arrigo alla fanciulla; — e poi?
— Oh, ma lei è molto curioso, sa! E dice che siamo noi le pettegole!
Egli rise; la sua faccia sciupata dalla notte insonne per un momento
scintillò.
— Senta, — fece Lela, — lei conosce bene il Max Borsaro, il minore dei
due, non quello che fa il letterato, l’altro, il biondo?
— Sì perchè?
— Mi dica: è vero che s’ubbriaca ogni sera, e quand’è ubbriaco ne fa e
ne dice di tutti i colori?
— Beve molto, è vero; ma ce ne son altri che bevono più di lui.
— Solamente lui, pensi, mi hanno detto che sia fidanzato con una mia
amica, la Nónaro, pensi!...
— Ah, davvero? quella piccina, bionda, che si vede sempre in carrozza
con sua madre, dappertutto?
— Sì, lei. Ha diciannove anni, pensi! È carina, ma non sa pronunziare
l’esse; fa ridere. Poi ha la smania di parlar francese... noti, con una
pronunzia deplorevole... Sì, quella insomma. Di fatti, l’altra sera, in
casa De Vincenzi non è venuta. Il fidanzamento per ora non è ufficiale,
ma tutti sanno che avverrà. E del resto, durante il carnovale, a
tutte le feste non hanno fatto che ballare insieme, parlarsi piano e
nascondersi.
— Se è vero, gli farò i miei augurii.
— È verissimo; glieli faccia pure. Lui è piuttosto un bel giovane, ma
un ubbriacone a me non piacerebbe. Pensi che schifo avere un marito il
quale sappia sempre di vino o di liquori! Lei non s’ubbriaca mai?
— Molto di rado, signorina...
— Meno male! Ah, un’altra cosa...
— Sentiamo.
— No, questo non lo posso dire, se no la mamma mi sgrida! — ella
esclamò, guardando la madre con una occhiata piena di civetteria.
Egli pure guardò Clara, sorridendo, e disse:
— Facciamo conto che la mamma non ci sia.
— No, no...
— Coraggio!
— Bene; lei conosce quella che chiamano la Tizianina?
— Di vista.
— Lela!... — rimproverò la madre.
— Eh, ormai!... Dunque m’hanno detto che ha lasciato il suo barone ed è
scappata con un maestro di scherma.
Arrigo e Clara scoppiarono a ridere; quella impertinenza li divertiva;
il domestico nascose la faccia nel vano del saliscendi per dissimulare
una risata.
— Per bacco! — esclamò Arrigo; — si raccontano molte belle cose nei
ricevimenti di signorine.
— Che vuole? Dappertutto è così. Poi c’è ancora quello che non le dico:
il più bello...
— Sentiamo, sentiamo!
— Ah, questo poi no! Ma le assicuro che certe amiche mie ne sanno
più... più di lei!
— Ci vuol poco, signorina; io sono un uomo serio.
— Peuh... peuh!
— Come? Ne dubitate? Sapete forse qualcosa anche sul conto mio?
— E quante ne so! Si metta bene in mente che in città non succede
cosa, dal mattino alla sera nè dalla sera al mattino, senza che noi
lo si sappia. Chissà per qual verso, e però tutto arriva. Per esempio,
— questo è un altro discorso — ma chi ha detto che lei ha una sorella
tanto carina?
Arrigo si sentì rabbrividire fin nell’intimo, preso da una sottile
angoscia, e mentre i suoi occhi paurosi scrutavano all’intorno, si
sentì a suo malgrado una leggera vampa salire al viso. Egli era sotto
lo sguardo vigile dell’amante, e non seppe come dissimulare il proprio
turbamento.
L’altra continuava:
— Non so bene chi me lo abbia detto; non me ne rammento con esattezza.
Ma lei perchè non me ne ha mai parlato?
— Semplicemente perchè non ne ho mai avuta l’occasione, — egli spiegò,
riafferrando la padronanza dei propri nervi.
— Quanti anni ha?
— Venti e mezzo.
— Non frequenta nessuna società?
— Vive piuttosto sola; è una ragazza originale.
— Come si chiama?
— Anna Laura, ma la si chiama Loretta.
— È bionda, vero?
— Sì, bionda.
— Alta?
— Un poco più di voi.
— Mi piacerebbe vederla.
— Un giorno o l’altro ve la farò conoscere.
La colazione era finita; entrò miss Dora per avvertire la signorina che
si preparasse alla sua lezione di pianoforte; il professore verrebbe
a momenti. Lela, con quella istintiva indulgenza delle fanciulle verso
le colpe materne, comprese che la sua presenza diveniva inutile, salutò
l’uno e l’altra, — non era indiscreta — e se ne andò.
Rimasero di fronte, senz’alcun testimonio, gli amanti, nella prima
inquietudine dell’esser soli, e tacquero per alcun tempo. Il caffè
ancor tepido fumava lievemente nelle tazze minuscole. Ella congiunse
le sue mani lunghe, un po’ scarne, vi poggiò sopra il mento, e stette
a guardarlo senza dir nulla. Negli occhi fermi le cresceva una lacrima
silenziosa. Egli, un po’ impacciato, a viso chino, giocherellava con la
miccia del suo portasigarette, faceva e disfaceva nodi.
— Perchè non ti sei lasciato vedere in questi giorni? — domandò
finalmente Clara, con una voce timida.
— Non potevo, lo sai che non potevo... — egli mormorò senza levare gli
occhi.
— Non so nulla io; so che mi hai fatto morire.
— Bah... non si muore per così poco! — egli esclamò nervosamente.
— Cosa ti ho fatto?
— Tu? Niente. Anch’io non ti ho fatto niente, — diss’egli divenendo
aspro.
Ella fece un atto quasi umile di rassegnazione e tacque a lungo. Poi
osservò:
— Potevi almeno scrivermi una parola.
— Ti volevo scrivere infatti, anzi pensavo di venire io stesso; ma ero
così nervoso, così terribilmente nervoso...
— Cos’è accaduto?
— Nulla — egli esclamò quasi con rabbia; e ripetè: — Nulla.
Ella si levò, leggera, flessuosa, muovendo nella vestaglia di seta il
suo corpo di signorina, gli si fermò presso, e con un atto dolce, che
solo hanno le antiche dolorose amanti, gli carezzò i capelli.
— Sei triste?
Egli non rispose.
— Sei malato?
Egli le prese repentinamente un braccio, che aveva nudo fino al gomito
fuor della manica larga, e lo baciò.
Si levarono; andarono in una saletta vicina, una di quelle stanze
intime che la signora d’una casa adorna con amore con leggiadria,
perchè somiglino a lei stessa; e rimasero in piedi, vicini, perplessi,
come se ubbidissero entrambi ad una specie d’esitazione.
Sui tavolini le scatolette d’argento, le boccette di cristallo,
scintillavan nella penombra; un buon odore di mughetti freschi empiva
la stanza.
Ella conosceva quelle ore, conosceva quel viso di lui. Dalla tenda
pertugiava un vapor di sole color d’ambra.
— Che hai dunque? — domandò con paura.
— Ho perduto ancora, — disse Arrigo duramente, senza guardarla.
— Ah... — ella fece, impallidendo. E chinato il viso, restò a fissarsi
la punta della scarpina, che si agitava fuor dalla balza della
vestaglia ondosa. Una lacrima le scivolò dalle ciglia per il viso
bianco.
— Stanotte? — gli domandò.
— Stanotte, ieri e prima d’ieri: tutti questi giorni, — egli spiegò
sordamente. Una pausa, una lunga pausa, da entrambe le parti,
angosciosa.
— Molto?
— Sì, molto. Ho pagato tutto quel che potevo, non ho più nulla e devo
ancora.
— Perchè hai fatto questo? — ella mormorò timidamente. — Mi avevi
giurato...
— Non tormentarmi, Clara, non tormentarmi! Se tu sapessi!...
In verità pareva un uomo perduto; la disperazione alterava il suo viso.
— Cálmati, — ella fece mansuetamente. — Non dico nulla.
Ma una specie di singhiozzo le contorse la bocca. Ella era quasi
povera: s’era impoverita per lui.
— Quanto devi? — domandò.
— Quindicimila lire, e per questa sera. — Buttava le parole aspramente
come se gli ardessero la bocca. — Ne ho pagate settantamila in tre
giorni, ne devo quindici ancora.
Ella si lasciò cadere le braccia lungo i fianchi con un gesto pieno di
sconsolatezza, e disse fievolmente:
— Sai bene che non posso più...
— Ma io non ti chiedo nulla! — egli rispose con ira, scrollando le
spalle.
Una luce tetra gli balenò negli occhi, una specie di sarcastico riso
gli orlò la bocca; s’andò a cacciare in una poltrona profonda, piegando
il mento sul petto.
— Non fare così! non fare così!... — ella gemette, cacciandosi le
dita fra i capelli, premendosi forte le tempie come per contenerne i
battiti. Poi camminò verso di lui quasi macchinalmente, s’inginocchiò
sul tappeto come se vi cadesse, e poggiandogli la fronte su le
ginocchia ruppe in lacrime.
Egli le posò una mano su la nuca, lievemente; si morse il labbro, come
per inghiottir qualcosa d’amaro che gli salisse alla gola, e con una
voce soffocata le disse appena:
— Via, non piangere...
Ma ella singhiozzava più forte.
— Clara... — pregò egli, scoprendole dai capelli tutta la fronte.
Ella si lasciò sollevare; gli mise le braccia intorno al collo e
nascose contro una sua guancia la faccia bagnata. Nel piangere lo
baciava.
Or da una sala più lontana si cominciaron a udire le note del cembalo,
durante la lezione di Lela.
Suonava una canzone di Grieg, tristissima e tormentosa, dolce ma
inguaribile, come un dolore che non abbia fine, come un amore che non
dia pace. Ogni tanto s’interrompeva; la mano del maestro correggeva
un accordo, rifaceva una battuta; qualche attimo di silenzio, e Lela
tornava da capo.
— Clara, non piangere...
Fra le lacrime aveva già un sorriso.
— È stata una grande aberrazione, — spiegò Arrigo. — Ho perduta la
testa. Non so... forse mi volevo stordire. Di cosa? Non ti saprei dire.
Tre notti, quattro notti, senza quasi chiuder occhio. Giuoco e perdo,
perdo senza rimedio, perdo senza interruzione. Ho lasciata la tavola
poche ore fa. Nessuno mi ha risparmiato, e, capisci, ne’ miei panni, se
non pago è la rovina.
— Sì, capisco; ma cálmati, non ti crucciare.
Lo carezzava, piano, come una madre.
— Ah... sono disperato! — egli esclamò in un accesso di scoramento.
— Taci, non dire così.
— Vedi: la mia vita è sempre in bilico sovra un precipizio. E tutti
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