Colei che non si deve amare: romanzo - 01

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GUIDO DA VERONA

COLEI CHE NON
SI DEVE AMARE

ROMANZO
IX.ª EDIZIONE
_(Dal 131º al 180º Migliaio)_

R. BEMPORAD & FIGLIO — EDITORI — FIRENZE
MCMXX


PROPRIETÀ LETTERARIA
I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati
per tutti i paesi
MILANO — TIP. PIROLA & CELLA DI PRIMO CELLA


I

Dal primo all’ultimo giorno della sua vita Stefano del Ferrante non
ebbe che rovesci di fortuna. Il mondo è pieno di queste vittime oscure,
che camminano per un lento calvario e non cadono mai del tutto sotto il
peso della loro croce.
Gli erano morti, nella sua prima età, il padre e la madre, durante
una morìa di quell’anno che mietè molte vite. Un congiunto lo raccolse
nella propria casa per allevarlo con i figli suoi. Non fu misericordia;
Stefano ereditava qualche bene di fortuna, che il congiunto gli
dilapidò. Egli lo venne a sapere più tardi; fu consigliato anche
ad intentargli una lite, ma non ne fece nulla. Era un uomo soave
e riconoscente, che non amava molestare il prossimo nè gettarsi a
capofitto nel gran pelago della carta bollata. Studiò con fatica,
ma studiò; non ebbe invidie piccole nè ambizioni grandi; fu sin dal
principio un uomo laborioso ed umile. Prese una laurea in chimica,
laurea che lo costrinse ad essere uno spostato; si mise a speculare e
perdette, a commerciare e fallì.
Egli diceva di sè stesso con grande rassegnazione: «Ho avuto un
grave torto: quello di venire al mondo.» E come ricchezza, nella sua
storia povera, non ebbe che un amore; uno di quegli amori caparbi e
malinconici che si accendono talvolta nelle anime lievi.
Prima di allora non aveva conosciute altre donne che quelle incontrate
nelle case di piacere alla vigilia dei giorni festivi, ed aveva pur
intessuta qualche tresca fugace con le serve amorose che addobbano di
farsetti opulenti le finestre dei quarti piani, o con le vispe sartine
che vanno per via come coditrémole nelle sere d’Aprile, quando i tigli
si mettono in fiore.
Ma la sorte, la mala sorte, gli fece incontrare un giorno colei che
doveva subitamente irrompere come una fiera tempesta nel suo cuore
tranquillo; e con la risoluzione dei timidi Stefano Ferrante la sposò.
Era una siciliana e si chiamava Grazia; il colore, il sapore della
sua terra calda eran rimasti in lei, ne’ suoi occhi vivi, nella sua
femminilità lussuriosa, nella sua voce vibrante, nel suo spirito
irrequieto.
Vedova d’un architetto, senza figli, senza ben di Dio, l’opinione
pubblica non era indulgente con lei. Dicevano che avesse calcate le
scene dei teatri di varietà prima di andare a nozze; che avesse avuto
un processo, e clamoroso, ma finito in nulla come tutti i processi
clamorosi, per certe bazzecole del buon costume; che fosse stata
perfino rapita, e che taluni gentiluomini di laggiù se la fossero
contesa aspramente col denaro incruento e con le lame affilate.
Questi fieri isolani son fra noi gli ultimi custodi della nostra bella
tradizione cavalleresca: sanno battersi ancora, e degnamente, anche per
una donna che non ne valga la pena.
Grazia era dunque bellissima, capricciosa, dissoluta; amava il lusso,
gli svaghi, le avventure d’amore. Si diede a Stefano una sera ch’egli
le andò a genio — e questo non era difficile, — Stefano la sposò un
giorno ch’ella venne a dirgli d’essere incinta.
A quel tempo egli era impiegato e guadagnava con abbondanza il pane
quotidiano; invece Grazia nulla possedeva, tranne il suo bel corpo
da ballerina, la sua capigliatura luccicante, i pochi gioielli di
pregio che le restavano in memoria d’altri tempi avventurosi. Ma
l’aver al fianco un uomo che pensi al pane quotidiano allorchè gli
anni volgono su lo sfiorire, la maldicenza infuria, e stringe la paura
della solitudine, son tutte cose che possono facilmente persuadere
una bellissima donna a prendersi un marito di nessun conto. D’altronde
Grazia non era cattiva; quel giovine alto, biondo, con gli occhi pieni
di rassegnazione, la voce dolorosa, quel giovine che l’amava d’un amore
così devoto, riusciva talvolta a suscitare in lei un senso misto di
tenerezza e di pietà.
Solo non poteva essergli fedele, come non lo era stata a nessuno,
mai. Era nata per piacere, per godere, per sentirsi desiderata e per
lasciarsi prendere; le mancava quella piccola forza del rifiuto che
rende così preziose alcune donne mediocri. E Stefano era tra quelli
che ignorano affatto il coraggio della ribellione; si rassegnò a questa
come a tutte l’altre disgrazie della sua vita, chiudendo la sua immensa
infelicità in qualche lieve sospiro.
Gli nacquero da queste nozze quattro figli. Che fossero tutti suoi,
egli medesimo non avrebbe osato giurarlo. Ma li amò tutti d’uno stesso
amore, e diede loro successivamente i nomi di Arrigo, Luisa, Paolo e
Anna Laura.
Intanto i capricci della moglie, il carico della famiglia, le avversità
dei piccoli commerci, lo ridussero in pochi anni a non possedere quasi
più nulla delle sue lente economie; sicchè, per campar la vita, con la
sua Grazia che metteva scandalo in tutto il vicinato e con quei quattro
ch’eran nati di lei, scese un altro gradino, si ritrasse a vivere nel
suburbio della sua città laboriosa, mise un’insegna nella strada ed
aperse bottega.
Siccome aveva qualche nozione d’ottica prese a fare l’occhialaio.
Questo lavoro minuto e paziente assecondava la sua natura timida, e
poich’era giunto all’estremo della sua discesa umana gli pareva, stando
curvo sopra le sue lenti, di vivere finalmente in pace.
Coi figli, col tempo e coi disagi anche la moglie si emendò; piano
piano, a forza di lavoro e d’economia, la piccola bottega si mise a
prosperare. I figli crescevano belli e robusti; le loro voci, i loro
giochi empivano d’allegrezza la casa; e quest’uomo ch’era nato fra gli
agi, portando un nome quasi gentilizio, in quella velata miseria si
sentì qualche volta felice.


II

Un mattino, ch’era di Maggio, e la via da un capo all’altro balenava
di sole, il signor Riotti, pingue, maestoso, con un par d’occhiali
appinzati sul naso tumido, un fare tra lo scienziato ed il buontempone,
se n’era venuto su la soglia del negozio ad accendere la pipa. E poichè
appunto, la sera innanzi, era stato a sentire il «Rigoletto» — serata
a prezzi popolari — così, tra una boccata e l’altra del fumo che gli
faceva intorno una bella nuvola azzurra, se n’andava canticchiando:
«Dove l’avranno nascosta?...
Ta-rin ta-ran ta-rin ta-ran ta-ra!»
Aspettava un cliente mattiniero per buttargli lì, fra un citrato di
magnesia ed una polverina di calomelano, qualche frase affabile su
la decadenza dell’arte lirica italiana, ricordando i bei tempi dei
tenoroni di cartello e delle prime donne «quelle sì! che ti cavavan
fuori certe note filate da far venire la pelle d’oca a un satanasso di
turco!» E parlar d’altro ancora: medicina, politica, letteratura....
Egli era, per somma sfortuna, l’aborrito farmacista enciclopedico e
sapeva di tutto un po’.
Siccome il Riotti e il del Ferrante stavano bottega a bottega, ed
anzi all’interno davano su la stessa corte, venne a passar di lì il
primogenito dell’occhialaio, il piccolo Arrigo, con la sua cartella
sotto braccio, che se n’andava a scuola.
«Dove l’avranno nascosta?
Dove l’avranno nascosta...»
canticchiava il placido farmacista.
— Buon giorno, signor Riotti, — fece il bimbo, con la sua vocina così
ben educata, cui mancava l’erre.
— Ve’, Rigoletto!... — esclamò sbadatamente il farmacista. E il
nomignolo, da quel giorno, gli rimase, lì, tra il vicinato.
Arrigo era un fanciullo veramente a modo: si teneva molto pulito,
studiava benino, si mostrava rispettoso con tutti; ma ciò che gli
nuoceva era una sua smoderata e puerile vanità, la quale si tradiva
in tutte le cose della sua piccola vita. A scuola, per esempio, —
una scuola privata e diretta da un sacerdote — egli non trattava se
non con bimbi di famiglie aristocratiche, e tornato alla retrobottega
paterna li nominava per i loro titoli di conti e di marchesi con una
certa compiacenza nel parerne l’amico. Così pure si vergognava non
poco nel dover rincasare a piedi, seguendo un’arruffata e povera
servetta, mentr’essi avevano ad aspettarli domestici e carrozze
stemmate. Era stato il primo errore nella sua educazione, quello di
fargli frequentare una scuola gentilizia piuttosto che mandarlo con
altri discoli ai corsi pubblici. Ma il buon del Ferrante, nella sua
dimessa veste di bottegaio, non sapeva del tutto scordare lo lontane
origini, e serbava il suo primogenito a miracolosi destini. Il piccolo
Arrigo aveva inoltre una cura eccessiva della propria persona e
del vestire; già si azzimava come un piccolo moscardino, faceva i
capricci per indossare nei giorni della settimana gli abiti della
domenica e affettava con tutti le maniere d’un imberbe marchesino.
Era d’intelligenza lesta, duttile, scaltra; aveva uno spirito
d’osservazione e d’imitazione davvero sorprendenti; diceva con l’aria
del perfetto conoscitore, di questa o quella cosa: «Oh!... non mi pare
«chic!....»; aveva imparato qualche vocabolo francese e ne usava con
molta compiacenza; criticava le «toilettes» delle sorelline, a scuola
chiamava «miss» quella che gli portava il paniere della merenda, e per
non confessare a’ suoi nobili amici d’esser figlio d’un occhialaio
diceva di suo padre con sussiego: «È un professore d’ottica.» Coi
bambini della sua corte trattava poco volontieri e di essi parlava con
visibile antipatia.
Queste abitudini signorili solleticavano un po’ l’orgoglio de’ suoi
genitori, della madre sopra tutto, ch’era rimasta una frivola donna
nonostante il maturare degli anni. Arrigo somigliava singolarmente
alla madre: ne aveva gli occhi luminosi e la bocca delicata, ne aveva
qualche volta l’accento caldo, i gesti rapidi. Ma il padre voleva farne
nullameno che un avvocato, poichè, per tutte le famiglie borghesi,
avere un figlio togato vuol dire oggidì quel che voleva dire una volta
l’avere un figlio prete od ufficiale. Si fanno perciò dalle famiglie
grandi sacrifizi di tempo e di danaro, si crea nella nostra società
una falange senza numero d’inoperosi, di spostati e di tristi, che per
tutta la lor vita dovranno pentirsi di queste paterne ambizioni. Ma
data una tale sovrabbondanza di giurisperiti, è naturale che nel nostro
bel paese chi ha torto abbia sempre ragione.
Il farmacista Riotti, ch’era sistematicamente di parer contrario a
quello del suo vicino, non la pensava per l’appunto così, e con una
delle sue più fresche immagini soleva dire «che il professionismo è
la cancrena degli stati, l’acqua morta in cui s’impaluda la nave del
progresso umano.»
Se avesse avuto un figlio, lui, ne avrebbe fatto uno scienziato od
uno speculatore; diceva di aver egli stesso, in persona, una spiccata
tendenza per tutte le scienze a base di calcolo e d’invenzione. Ma
la vita lo aveva distolto dal suo diritto cammino e la natura gli
era stata scortese; invece d’un maschio, nel quale avrebbe potuto
specchiarsi, aveva lasciato alla sua vedovanza una femmina, una bella
e grassa femmina, cui, per venerazione certo al grande Manzoni, aveva
imposto il nome di Ermengarda. Tuttavia, per brevità, la chiamava
Eugenia; nome ch’era stato pur quello della sua defunta consorte: Di
questa figlia, che aveva press’a poco l’età di Arrigo, il Riotti era
però sommamente vanaglorioso e non cessava dal magnificarne co’ suoi
vicini le qualità modeste ed operose, quando i giuochi o gli strilli
dei bimbi del Ferrante venivano dalla vicina corte a disturbare le sue
pacifiche meditazioni.
Il farmacista era un uomo corpulento, che tradiva nella stessa maniera
del vestirsi una certa quale agghindata maestosità; le sue maniere si
facevan untuose con chiunque stesse al di sopra di lui, e dottorali o
protettrici con quanti credesse da meno della sua magnifica persona.
Aveva una faccia sanguigna, lucida, con lineamenti grossi, e portava
intorno al mento una corta barba fuligginosa. Era un uomo che aveva
letto, imparato assai; letto e imparato sopra tutto nei giornali, nei
romanzi d’appendice o in qualche peregrino manuale acquistato nelle
fiere.
Ma l’uomo che usi ogni giorno leggere ponderatamente il proprio
giornale, dalla prima riga sino all’ultima come faceva il Riotti, e
con due paia d’occhiali, può dirsi a buon diritto un uomo erudito,
perchè le gazzette son divenute oggidì piccole biblioteche di scienza
universale e di tutto vi si parla in bello stile, con ammirevole
dottrina.
Sebbene fosse l’uomo più pacifico del mondo e avesse un temperamento
null’affatto amoroso, il Riotti nutriva una predilezione decisa per i
fatti di sangue e per i suicidii d’amore. Non v’era serva avvelenatasi
col rossetto, col sublimato o con le capocchie dei fiammiferi da un
quinquennio in poi, della quale non ricordasse il nome, l’amante per
cui s’uccise, la casa il luogo ed il tempo in cui fu. Queste tragiche
amanti si esageravano, si esaltavano nella sua calda fantasia, dandogli
una specie di stupefazione paurosa. Non lo avrebbe voluto in fondo...
ma se una si fosse mai avvelenata per lui!... Anche i delitti lo
appassionavano, però in altra guisa: sembravano atti efferratamente
belli al suo timido cuore. E di tutte le cose che leggeva nel giorno
egli andava la sera a discorrere col suo vicino. In principio, quando
Stefano del Ferrante venne ad aprir bottega proprio accanto alla
sua farmacia, il signor Riotti cominciò con arricciare il naso e con
guardare in cagnesco il vicino, «quell’occhialaio dalla bella moglie»,
come lo chiamava con malignità. Ma superate le prime diffidenze,
e visto sopra tutto che il Ferrante non era uomo da contendergli
quella specie di sovranità che gli era tacitamente riconosciuta da
tutti i bottegai di quella contrada suburbana, il Riotti finì anzi
con prenderlo in affezione e con divenirgli amico. Amico a modo suo,
beninteso; il che voleva dire mischiarsi, chiesto e non chiesto, negli
affari altrui, dare consigli, criticare, sputar sentenze, sdottorare
a dritto ed a rovescio, essere curioso, pettegolo, arrogante e
maldicente.
Stefano lo lasciò dire. Umile e rassegnato come sempre, tollerò che
un estraneo si frammettesse nella sua casa, gli facesse i conti in
tasca, gli parlasse male della moglie, lanciasse qualche scappellotto
a’ suoi bambini: e tutto ciò per amore della pace. Ma il Riotti, che in
fondo era una buona pasta d’uomo, soffriva terribilmente del non aver
famiglia, s’annoiava, nè sapeva come dar libero sfogo alla sua natura
tirannica e sopraffattrice. Così, a poco a poco, la casa del vicino
divenne la sua. Ogni momento egli vi entrava, o per la corte o dalla
retrobottega, con un pretesto qualsiasi. Per lo più erano i bimbi che
facevano troppo rumore: li chiamassero dentro, o egli se ne sarebbe
finalmente lagnato col padrone di casa. E sapevan bene che bastava
dicesse una parola, lui!... Allora si prendeva una rispostaccia da
donna Grazia, che il Riotti chiamava Malagrazia, e che non lo poteva
soffrire.
Ma in quella corte infatti si faceva gran rumore. Una vera bolgia
dantesca, come diceva il farmacista. C’era un falegname che tutto
il giorno picchiava, c’era un tornitore e piallava, una piccola
stamperia dalle macchine fragorose, un rilegatore di libri sempre
mezzo avvinazzato che ad una cert’ora cantava a squarciagola; c’era
la portinaia, sempre in moto con la sua scopa e con la sua terribile
voce di falsetto, e c’era, al primo piano, il pappagallo di una vecchia
inquilina, un cianciatore senza pietà, che rifaceva tutti i rumori e
rifischiava tutte le canzoni del vicinato. Avesse potuto accopparlo!
Prezzemolo! Prezzemolo!... E, sopra tutto questo ben di Dio, erano
capitati lì que’ monellacci dell’occhialaio, che strombettavano,
spifferavano, buttavan sassi e facevano i soldati. Vedessero l’Eugenia,
mo’, che ragazza a modo!...
«Oh, mio caro Stefano, se tu sapessi almeno educare i tuoi figli!...
Del primo farai un piccolo cicisbeo, dell’altro e delle due femmine
tre monelli, tre discoli, perchè il carattere lo si vede fin dalla
prima età. Poi ne hai messi al mondo troppi!... Quattro figli! Vecchio
mio, è un lusso da gran signore. Senza contare che donna Grazia è tipo
d’affibbiartene ancora un paio!»
E nella sua corta barba fuligginosa soggiungeva a sè medesimo con un
riso grasso:
«È ben vero che tu, poveraccio, ne sei responsabile fino ad un certo
punto... Non metterei la mano sul fuoco neanche per il primo!...
Una sera tuttavia, per precauzione, gli aveva pulitamente esposta la
teoria di Malthus.


III

Veniva su bello e delicato. Quel nomignolo di Rigoletto non gli stava
bene. Aveva due magnifici occhi neri neri, con le ciglia molto lunghe,
un po’ curve, che gli velavan lo sguardo di passione e di malinconia.
Sotto il naso leggermente aquilino, la bocca tagliata con una nettezza
violenta, quella bocca rossa della sua madre siciliana, era in istrano
contrasto con la mansuetudine del suo viso. Intorno al labbro gli
cresceva già un’ombra leggera, i capelli scurissimi gli facevano due
belle onde sopra la fronte; il suo vestitino alla marinara non aveva
mai una macchia, le sue scarpine mai erano imbrattate nè logore; a
farne il paragone con gli altri della sua famiglia pareva il rampollo
di una stirpe migliore. Ascoltava sua madre con una specie d’estasi
quando suonava la chitarra o cantava; spesso preferiva starsene solo,
taciturno ed un po’ scontroso. Ad un certo Natale si fece regalare
un violino, ed un vecchio, lì nella corte, gl’insegnò a suonarlo. Era
docile, ma sapeva in certe occasioni spiegare una terribile volontà.
Studiava con diligenza, e verso i dodici anni lo mandarono al ginnasio;
si fece grande e forte, si svestì quasi di quell’apparenza feminea che
lo aveva fatto somigliare ad una signorina; soltanto gli rimasero que’
suoi grandi occhi morbidi e violenti, pieni d’uno stupore illuminato.
Volle studiar musica ed il padre lo accontentò, a patto che non
trascurasse la scuola; gli affari prosperavano a sufficienza per poter
pagare un maestro di violino tre volte la settimana.
Cose che il Riotti trovava inutili, perchè, se Rigoletto si credeva un
Paganini, a lui seccava moltissimo di sentirsi a quel modo scorticar le
orecchie da mattino a sera. Quanto alla sua Eugenia, imparasse a far la
calza e le polpette, che valeva assai meglio!
«Tra il violino di Rigoletto e la chitarra di Donna Disgrazia
preferisco ancora il pappagallo del primo piano!» aveva egli detto in
un giorno di malumore.
Senonchè ad Arrigo la natura aveva prodigato i suoi doni senza nemmeno
contarli; un superiore istinto guidava la sua ispirazione tumultuosa
e profonda, il senso della musica da lui nasceva con la spontaneità
d’una parola: Curvato sul lieve archetto la sua testa bellissima di
adolescente, egli traeva dalle corde sonore tutto ciò che aveva di
passione in sè, di passione inconsapevole e selvaggia, tutto ciò che
gli avevan trasmesso di malato e di oscuro i suoi progenitori antichi.
La madre lo amava, il padre fondava su lui tutte le speranze d’un
avvenire imprevedibile: era il prediletto nella casa, il primogenito
a cui si trasmette il focolare, con tutta la sua cenere e con la brage
viva.
Ma verso i quindici anni cambiò carattere. Cominciò a frequentare
qualche brigata di scapestrati, fece l’occhio dolce alle sartine, prese
a vuotar bicchieri, imparò le carte, i vicoli dei postriboli, i vizii
delle ore notturne; della famiglia e della scuola prese a non curarsi
più. Quattro o cinque cattivi amici, una sgualdrinella che gli si diede
per amore, qualche ondata calda nelle sue vene gonfie di pubertà:
ecco il pochissimo che ci volle per fare di questo fanciullo a modo
un ragazzaccio di pessimo genere, che azzimato e attillato, facendo
pompa di cravatte vistose, con una sigaretta in bocca ed un fiore
all’occhiello se ne andava bighellonando per i marciapiedi, inseguiva
le piccole modiste su le giostre delle fiere, frequentava i bigliardi
clandestini e teneva crocchio su l’angolo delle bottiglierie.
Allora in casa dell’occhialaio la guerra incominciò; la guerra
dolorosa, tenace, paziente, che il padre onesto muove al suo figlio
riottoso per contendergli palmo a palmo quella china del vizio dalla
quale non si ritorna mai più.
Tutto congiurava contro la pace di quest’uomo paziente, che doveva
incanutire soffrendo, benchè non avesse mai torto un capello ad anima
viva. Arrigo principiò a spiegare nella famiglia quella sua calma
e terribile volontà dalla quale nessuno scrupolo mai lo trattenne,
così nelle piccole come nelle grandi cose della sua vita. Ormai
trascurava la scuola, rincasava tardi la notte, poltriva nel letto il
mattino, inalberava nelle discussioni familiari certe malsane teorie
d’indipendenza raccolte ai tavolini dei caffè, sperperava in qualche
giorno le poche lire che dovevano bastargli per un mese, poi si dava
d’attorno a raggranellarne qua e là, con ogni ripiego, tenendo per
ultima confidente la sua madre carezzevole, che non sapeva negare mai
nulla a quel suo bel ragazzaccio fatto come lei.
Una volta egli osò perfino rubare una manata d’argento nel cassetto del
banco paterno, e quando lo scoversero in fallo, si mise a fare un tal
chiasso indiavolato, a portare così veementi ragioni in propria difesa,
che poco mancò non lo pregassero di ricominciar da capo.
E in fondo, che torto gli potevano fare? Aveva diciott’anni ormai!
S’era messo a giocare, non tanto per vizio quanto per necessità...
Come poteva egli campar la vita, con quei quattro soldi che gli dava
il padre ad ogni fin di mese? Quelli bastavano tutt’al più per le
sigarette. E il rimanente? La vita si faceva terribilmente cara. Per
poco che uno volesse andar di paro con gli altri, bisognava sempre
aver le mani in tasca. E se la tasca era vuota?... Ecco, si tenta
la fortuna. Ve ne sono tanti a cui va bene. Perchè in fondo non si
potrebbe anche vincere?...
Vincere: comprarsi un bell’astuccio per le sigarette, una mazza col
pomo d’oro, una spilla da cravatta in brillantini; rivestirsi da capo
a piedi, farsi fare un soprabito a sacco, sfoderato, con le cuciture
doppie, come quello che portava Giannotto Ferri, l’irresistibile
Giannotto Ferri, quel tale che senza il becco d’un quattrino menava
una vita da principe, cenava a Sciampagna nei gabinetti riservati con
questa o quella cortigiana, e, se teneva banco al faraone, mai c’era
verso di vederlo perdere un quattrino. Ma, già... si faceva mantenere
dalle donne!
Vincere!... potersene andare a teatro tutte le sere, in poltrona,
con un bello sparato bianco e nel mezzo uno splendido rubino, come il
rubino di Giannotto; scarrozzare per la città, andare nelle tribune
i giorni di corse, mangiar fuori di casa, al ristorante, quando gli
facesse comodo, e magari un bel giorno capitare in casa della Lilina
con un ventaglio di piume di struzzo, o con quel certo anello che il
suo vecchio le prometteva da tanti mesi e non le regalava mai!... La
Lilina, che buona ragazza! A lui non costava un soldo, e questa era
l’essenziale; perch’egli era giunto così al grande sogno di tutti i
conquistatori adolescenti: avere un’amante altrui, averla per amore,
con una cert’aria d’indifferenza, di condiscendenza, e raccontarlo
noiatamente agli amici, fra una sigaretta e una tazza di caffè...
«Oh Dio! non mi domanda niente, povera ragazza... non mi costa neanche
il prezzo della camera, perchè mi prega di andare da lei... Ma, si sa
bene: le donne che non costan niente... ci vuol sempre qualche fiore,
qualche dolce, un cappellino ogni tanto, un ninnolo, una gita. Ne sono
stanco in fondo... ma tiro avanti, non so neanch’io perchè...»
La Lilina, a parte tutto, era una bella fanciullona, pienotta e di buon
cuore, che qualche volta preferiva andarsene a letto alle dieci, anche
sola, piuttosto che sbadigliare nei ritrovi notturni fin verso le tre.
Aveva per cespite unico l’amore d’un quarantenne, signore ammogliato,
che l’andava a trovare tre volte la settimana, puntuale come un
cronometro, e ci stava, tutto compreso, un’oretta. Non le dava molto
neanche lui, ma il diritto almeno di dire intorno ch’era una mantenuta,
anzi la mantenuta di un industriale. Arrigo, per quanto non lo volesse
ammettere, s’era un po’ scottato alla sua pelle calda; se avesse avuto
denaro gliene avrebbe dato; lei lo sapeva, ne era certissima, e lo
amava in questa lontana speranza. Le donne hanno un cuore pieno di
riflessioni.
Ma invece le carte volgevano peggio che mai; egli tornava a casa ogni
notte senza il becco d’un centesimo, con una faccia che incuteva paura,
e svegliandosi a mezzodì, ancor sentiva nelle orecchie quel maledetto
riso di Giannotto che incassava i gettoni. Quale patto aveva col
diavolo, quello là? Perchè la vita gli riusciva così facile, mentr’egli
era in debito con tutti, perfino coi camerieri? Di tanto in tanto
bisognava pur pagare, per mantenersi il credito e poter ritentare la
sorte. Quando tutti gli altri ripieghi eran esauriti, non gli rimaneva
che battere coraggiosamente alla cassa paterna.
Il buon del Ferrante ne divenne addirittura calvo; ma pagò, sebbene con
qualche stento; pagò la prima volta, la seconda, la terza, e così via
di séguito, come tutti i padri, per infinite volte. Il Riotti, messo a
parte di questi piccoli disastri, la faceva da tiranno, consigliando il
braccio ferreo ed i rimedi eroici.
«Fosse mio, lo manderei mozzo. Un paio d’anni sul mare fanno bene alla
salute; si vede il mondo, si torna rigenerati. Ma tu non hai che da
intonare il mea culpa! mea maxima culpa! L’Eugenia è femmina; ma la
prima che mi fa, te la chiudo in un convento com’è vero che mi chiamo
Riotti! Del resto per lei non temo. A sedici anni, è pura d’anima come
un’ostia benedetta. Laboriosa, diligente, con la licenza della Scuola
Superiore, un diploma di ricamo... che madre sarà!»
E il povero del Ferrante inghiottiva il fiotto amaro. Passò un annetto
ancora: tramontarono i tempi della Lilina, anche perchè la Lilina se la
portò in provincia uno studente ricco, e Arrigo restò sempre a doverle
una cinquantina di lire che s’era fatte prestare in un giorno di grande
penuria.
Ma un’altra prese il suo posto, che si chiamava più sonoramente
Mercedes; ed era una canterina di caffè-concerto, coi capelli d’un
nero corvino, le labbra divampanti, la pelle color di cipria; quel nero
quel rosso e quel bianco a cui va tanto bene la mantiglia castigliana,
quando, con quattro nacchere e con un paio di «caramba!» si camuffan da
pure Sivigliane queste versatili figlie delle nostre portinaie.
Mercedes la bruna era stata l’amante di Giannotto, e si era fatta
un buon nome tra le clientele dei caffè-concerti ballando seminuda
in un teatro di varietà, che radunava seralmente nella cloaca della
sua piccola sala tutti i più loschi e più balordi bellimbusti della
baldoria notturna. Ma poi s’erano messi in rotta, Giannotto e lei,
per certe botte sonore che il giovinotto non lesinava in talune
circostanze, ed Arrigo l’aveva incontrata, una sera di scoramento
indicibile, sola, presso un tavolino, con gli occhi lacrimosi davanti
ad un’ala di pollo mezzo rosicchiata ed una tazza di birra quasi vuota.
Egli aveva in tasca un centinaio di lire e comandò Sciampagna; comandò
pure una dozzina d’ostriche ad un ostricaio bitorzoluto, che in onore
del suo rosso berretto masticava il dialetto veneto con un forte
accento bergamasco.
V’è d’altronde un momento psicologico nel cuore di tutte le donne
malate d’amore, un momento nel quale, che so io, un’ostrica ben pepata,
un complimento detto bene, un bacio dato con le labbra calde, con le
labbra umide, una carezza sopra una lividura, un marengo buttato via,
rasserenano tutta la visione della vita, disperdono i pensieri tragici
come nuvole di primavera, mettono addosso, che so io, quasi la voglia
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