Colei che non si deve amare: romanzo - 20

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Ella poggiò i due gomiti su la tavola e si prese la faccia fra le mani:
— Senti....
— Di’.
— Vienmi vicino, più vicino....
Egli si sporse innanzi per udir le sue parole.
— Non avrai più paura, dimmi?... non avrai più paura questa notte, che
c’è tanto profumo?... — gli mormorò sottovoce, con un brivido che la
impallidì.
Poich’egli non rispondeva, gli prese un polso, lo strinse.
— Dimmi, dimmi!... Perchè non vuoi rispondere?
— Ho più paura che mai! — rispose. E tremò.
Or qualcuno cantava, sul terrazzo, laggiù.
Uscirono. V’era molta gente, seduta a gruppi, che ascoltava il
concerto. Lor due si misero in disparte e si fecero servire il caffè.
Eran quasi nascosti da un grande cespo di rosse azalee, che propagavan
le lor vaste ombre su la ghiaia lucente. Tra la foltezza degli alberi
non si poteva discernere il lago, ma ogni tanto si udiva l’acqua
sciacquare contro la riva.
Egli disse alla sorella:
— T’annoierai la sera; qui non c’è nulla da fare.
— E se pure ci fosse, — rispose — non vorrei far nulla. Sto bene così.
— Ti senti stanca per aver remato?
— No, affatto. Ma quello Sciampagna mi dà una deliziosa vertigine....
L’azalea fiorita buttava dietro le sue spalle una specie di rosso
mantello damascato.
— Qualche volta, — ella disse — qualche volta, Rigo, son io che ho
paura di te. Sopra tutto quando non parli e mi guardi.
— No, Lora; io non ti farò mai alcun male.
— Chissà? — ella rispose.
— Perchè dici questo?
— Non saprei perchè lo dico; è una sensazione indefinibile. Forse tu mi
odii un poco....
— Io?....
Là presso, dentr’una vasca invisibile, udivan l’acqua d’una fontana
sgorgar sonnolenta, fra gli alberi. Egli si levò, le pose un braccio
sotto il braccio, ed insieme s’inoltraron per il giardino. Loretta
s’impauriva dei piccoli rospi verdi che saltavano traverso i sentieri.
S’allacciaron l’uno all’altra strettamente, perchè nell’ombra si
sentivano più sicuri, e scesero verso il terrazzo che accompagnava per
un tratto l’insenatura della riva. Tra la darsena e l’approdo c’era una
lunga fila di barche legate, che dondolavano.
L’acqua portava un mantello d’argento, che le aveva buttato sopra la
luna. Veniva una tristezza indicibile da quella chiara calma lacustre.
S’appoggiarono alla ringhiera del terrazzo, percorso da una spalliera
di rose vanziane; il muoversi dell’onda luminosa li addormentava in una
specie di funesto incantamento.
Egli pensava di stare sopra l’orlo d’un precipizio, e di cadervi
lentamente, insensibilmente, sprofondando in una vacuità piena d’oblìo.
Sentiva il suo corpo disperdersi nell’annientamento, il suo dannato
amore finire in un urlo.
Ella pensava d’essere una reginetta, che abitasse un gran castello
su le rive d’un lago incantato, e di scendere in una barca, la
notte, lei sola, sotto la luna, senza remi, senza vele, pigramente,
dolcemente, per dormire. E più andava, più il lago si faceva buio, più
diveniva nella notte una immensa disperata solitudine; e man mano che
s’allontanava col vento, le sembrava di smarrirsi nella perduta ombra,
di navigare in una buia distanza, dalla quale forse non sarebbe tornata
mai più... Aveva paura e si stringeva a lui.
Un cigno dormiva, con il bel collo piegato su l’ala, ondeggiando come
le barche legate in fila.
Non lontano dalla sponda passò un battelletto, con un fanale rosso
a poppa ed uno bianco a prua. V’era gente, che cantava in coro, e si
udivano le parole.
Il ritornello diceva:
«Tela lina molto fina
che si mette ogni mattina
la mia bella al suo levar...
tutto quanto le darei
per far come fai con lei,
per saper quel che tu sai,
per star dove tu le stai...»
— Cantano... sono allegri! — disse Loretta con invidia. — Io non lo
sono più.
Egli riprese, come per ischerzo, la cantilena:
«Tutto quanto le darei
per far come fai con lei...»
— Vanno a pesca? — domandò Loretta.
— Forse vanno solo per cantare.
Quand’erano soli, quando faceva un po’ scuro, quando si toccavano,
l’interiore fantasma s’impossessava del loro turbamento. Era un male
che cominciava col desiderio d’un bacio, e passava dall’uno all’altra,
come una catena che stringesse le loro carni fraterne; poi girava,
s’attorcigliava in serratissimi nodi, fino a curvarli entrambi sotto
l’oppressione del suo peso. Ella sentiva il bisogno di abbandonarsi
nelle sue braccia, egli provava con iracondia la tentazione di
afferrarla e stringerla fino al dolore; ma in entrambi, anche in lei
che si offriva, era una invincibile paura. Una paura gelida, radicata
nell’essere, una paura che li attraeva diversamente e diversamente li
separava. Eran come due sitibondi, legati presso la medesima fontana,
così che potesser tender le labbra sino ad un pòllice dall’acqua, fin a
sentirne la chiara freschezza e respirarne l’umidità, ma senza riuscire
ad intingervi le labbra, mai. Tra la lor sete e la fontana c’era quel
póllice di spazio che non li lasciava bere.
— Vorrei che un uomo potesse dirmi perchè mai ti ho dovuto amare!
— esclamò Arrigo. — Vorrei me lo dicesse un uomo che conosca tutte
le anime e tutti i peccati, un prete per esempio. Ma io non oso
confessarmi di questo peccato. E poi, che serve? Anch’essi non san
nulla; nessuno sa nulla di tutto ciò.
Questo accenno religioso della confessione spaventò la fanciulla,
come se, d’improvviso, l’abito nero del sacerdote, l’ombra
dell’intercolunio, le mistiche nuvole dell’incenso, l’alito caldo
che passa per la grata con il bisbiglio delle parole colpevoli, e
la rampogna, e la condanna, e la minaccia di penitenze perpetue, le
componessero nel cuore sbigottito l’immagine del suo peccato mortale.
— Perchè dici queste parole così nere? — domandò. E si strinse a lui,
più vicina, quasi per trovare in lui un rifugio. La barca dei cantori
lontanava nella sera lunare, e fievole si udiva di tratto in tratto il
ritornello giocondo:
«Tela lina molto fina
che si mette ogni mattina...»
— Hai pensato, — egli riprese, — hai pensato a quello che avverrebbe
se avessi una volta il coraggio, il terribile coraggio che mi è mancato
finora?
— Due cose ho pensato: o che tu non mi ami veramente, o che il tuo
cervello è malato. Se la nostra felicità è in noi, perchè dobbiamo
spaventarla con tante riflessioni? Tu mi comúnichi a poco a poco il tuo
male. Quando, per la prima volta, mi agitò questo immenso desiderio,
súbito avrei voluto esser tua. Guardare più in là mi sembrava inutile,
mi sembra inutile ancora.
— Ma, dimmi, — egli fece; — tu che parli con tanta leggerezza, conosci
dunque il valore dell’offerta che mi fai? Comprendi cosa vuol dire
questa frase che ripeti senza sgomento: «Essere tua?» Comprendi che ciò
significa regalare, sacrificare a me tutta la tua vita?
Ella parve maravigliarsi di queste parole; ma tuttavia rispose a fior
di labbro, senza convincimento:
— Sì, certo, lo comprendo.
— No, Lora, — egli corresse con indulgenza, — tu non lo comprendi.
Verrebbe inevitabilmente un giorno, e forse non troppo lontano, nel
quale diresti a tuo fratello: «Réndimi ora la mia vita, perch’essa è
mia, e voglio viverla.» Ma pensi che allora io potrei cederti ad un
altro? Pensi che, dopo un delitto come questo, si possa tranquillamente
ricominciare la strada per la quale si andava prima? Tu sì, forse,
perchè hai vent’anni ed un cuore spensierato. Ma io? Dimmi, che
farei allora? Conosci la gelosia? Conosci quell’altro tormento, più
grande, che si chiama il rimorso? Vedi: c’è fra noi una differenza
fondamentale: tu mi ami perchè puoi dimenticare, perchè non conosci, e
quasi non sai che sono tuo fratello... invece io ti amo appunto, e più
disperatamente, perchè so, perchè so con profonda paura, che sei la mia
sorella....
A testa china, guardando l’acqua insidiosa, che scintillava come una
buia stoffa intessuta con fili d’argento e produceva un rumore appena
sensibile urtando contro il muro della darsena, ella parve meditasse
profondamente il senso di quelle parole.
— No, Rigo!... — esclamò d’un tratto, afferrandosi al suo braccio con
una forza convulsa, — no! tu non sei mio fratello. Non ho mai pensato
per un attimo che tu fossi mio fratello. Mi piaci, e nello stare con te
sento che mi desideri come un vero amante. Préndimi!... fa di me quello
che vuoi, per un’ora o per sempre, fin quando sarò bella e mi troverà
bella il tuo amore... Non senti? Sono tutta profumata come un fascio
di rose... Préndimi!... stríngimi fra le tue braccia, come se fossi un
gran fascio di rose... Ma ridi! ridi!... perchè non posso più vederti
così buio... Ridi ancora una volta... ridi!
La barca ripassava di lontano e si udiva cantare:
«Tutto quanto le darei
per far come fai con lei...»


XIV

— Sali e spógliati, Lora — egli le aveva detto a piè dell’ascensore,
forse perchè temeva di affrettare quella imminente ora notturna. —
Córicati presto e riposa bene.
— Ma tu non sali? — domandò ella indugiando.
— Sì, fra poco. Ancora non ho sonno; rimango a fumare un’altra
sigaretta.
— Io pure non ho sonno... — ella fece.
Ma egli la persuase con dolcezza:
— Domani faremo una gita, bisognerà levarci di buon’ora. Va e dormi.
Egli rimase a camminare nell’atrio lungamente, poi scese di nuovo nel
giardino, tornò verso il lago. Vide la camera illuminata sul terrazzo
del primo piano; quella intensa luce lo affascinava, distogliendolo da
ogni altro pensiero.
— Lora si spoglia, — pensò. E vide gli abiti che si toglieva, ne sentì
l’odore.
Le sue braccia lo tormentavano, il petto che le usciva dalla camicia di
batista gli sbocciò nel pensiero come un mazzo di fresche rose; i suoi
piedini ancor calzati, li vide che andavano qua e là, per la camera,
con quella irrequietezza or pigra or frettolosa della donna che si
spoglia. — E adesso Lora si péttina, — pensò. E intese il crepitìo del
pettine di tartaruga nella treccia disciolta. L’odore di quei capelli
empì l’aria per dov’egli passava.
La vide curva sul catino a rinfrescarsi la faccia; immaginò che per
una sua civetteria feminea s’incipriasse tutta, prima di coricarsi.
Quell’odor morbido della cipria e della sua pelle profumata, commisto
insieme, gli alitò sotto le narici come una cosa viva. Ed egli la vide
sedersi vicino al letto, stirarsi un poco nella pigrizia, nella delizia
dell’imminente riposo, accavallare una gamba su l’altra per togliersi
la scarpina, lasciarla cadere su lo scendiletto, poi farsi scorrere
lentamente, giù dal polpaccio, la finissima calza nera, ed il piccolo
piede uscirne, polito come un gioiello d’avorio, inquieto nella sua
forma sottile, nervoso come una mano. Indugiare un poco a togliersi
parimenti l’altra scarpina, l’altra calza, guardarsi intorno con quello
sguardo svogliato di colei che non vorrebbe dormir sola, poi levarsi,
prendere di su la coltre una bella camicia tutta pizzi e nastrini,
prepararla con qualche movimento carezzevole, slacciarsi quella che
portava indosso e lasciarla scivolare giù, come una guaina, con un
sorriso lento....
Si andava per l’ultima volta a guardar nello specchio, poi si coricava.
Egli si raffigurò queste cose minutamente, angosciosamente, come alcuno
che bevesse a piccoli sorsi un veleno soavissimo. La tepida notte
lo fasciava di profumi troppo forti; un indefinibile silenzio pieno
d’agitazioni pendeva tra cielo e terra; la nascosta vita notturna si
moltiplicava intorno a lui, nell’ebbro giardino.
Traverso il fogliame degli alberi guardava con una specie di
stupefazione quella finestra illuminata, sul terrazzo del primo piano.
D’un tratto, non potè più resistere a quelle visioni, traversò il
giardino in fretta, e salì.
Ella era uscita sul terrazzo deserto, s’era stesa pigramente nella
poltrona a sdraio, ed or l’aspettava, guardando nel miracolo della
notte, ove tremava con una specie di furiosa intensità la magnificenza
delle stelle.
— Che fai lì fuori? Non ti sei dunque coricata?
Un po’ ebbra di stelle, di silenzio e d’amore, tese a lui le due
braccia senza rispondere.
— Perchè non ti spogli? — domandò egli ancora.
— Aspettavo te, — ella rispose con una voce lenta, un po’ velata.
Il lieve alito notturno era passato fra i suoi capelli; nel suo viso
batteva la bianchezza del raggio lunare. — Fa umido la sera, — egli
osservò; — non rimaner fuori troppo a lungo.
Poi, volgendosi con rapidità: — Ora è tardi, — le disse; — dormi bene.
Addio.
— Rigo... — ella profferì a bassa voce, quasi fosse ancora sperduta
nel sogno. E v’era un poco d’ebrietà nella sua femminile indolenza, ne’
suoi modi ambigui, nella voce con cui lo chiamava. — Rigo, vieni qui:
siéditi.
Gli fece un piccolo posto accanto a sè. Egli ubbidì silenziosamente.
Il calore di quel dolce corpo gli si propagò nelle vene come un piacere
avvelenato e lentissimo. Stava curvo sopra il suo volto; le mani della
fanciulla gli carezzavano i capelli, la fronte.
Allora ella si mise a parlargli piano, facendo lunghe pause, con
trepidazione.
— Non devi lasciarmi sola... Questa notte più che mai sento il bisogno
di esserti vicina, molto vicina, perchè sarebbe una vera malinconia
mettere una parete, chiudere un uscio, fra me e te... Non vedi che
notte magnifica? C’è un odore di gelsomini che vola per l’aria come una
polvere ubbriacante. Poi mi sento piena di torpore, questa notte...
Báciami!... Ho le mani calde, senti... Mi fanno male... Brúciano.
Voglio rimaner qui tutta la notte, a parlarti, a carezzarti, piuttosto
che rimaner sola.
Cacciava le dita ne’ suoi folti capelli, come alle volte si fa, nelle
pellicce tepide, l’inverno. E continuava:
— Là, nel giardino, m’hai dette cose talmente gravi, che ne sono
turbata; vorrei piangere, ma in fondo al mio cuore v’è una gioia che
ride, una specie di speranza inesprimibile... Non lasciarmi sola. Od
anche mi piacerebbe fare una cosa che non ho fatta mai: venire nel tuo
letto, addormentarmi vicino a te... Báciami! E poi dimmi qualcosa di
veramente pericoloso... Anche una parola innocente, se non vuoi dirmi
altro... Ti amo, e sola non potrò dormire... perchè ho voglia che tu
mi baci. Senti come la mia bocca è innamorata... Bàciami! Sono tua...
tua... préndimi! Non desidero altro che soffrire di te... per te...
Fammi un po’ male... dammi un bacio, uno solo, senza fine.. chínati...
Queste parole, dette vicino alla sua bocca, lo addormentavan come
la musica d’un soave malefizio, fasciavan i suoi sensi dolorosi
d’un ineffabile ristoro, e chiudendo gli occhi egli s’irrigidiva per
ascoltarla. Su la sua carne fredda passava un gran brivido di piacere;
una consumazione insensibile, uno struggimento senza fine si propagava
in lui, sotto la carezza di quella voce.
Ella disse ancora, snervata, spossata:
— Guarda: chiudo gli occhi... dormo. Chínati un poco, báciami!... ho
tanto sonno... ti amo. Sii dolce con me... Ascolta: non c’è rumore,
nessuno ci guarda... báciami!
Come un pazzo egli le baciò la bocca, la fronte, le tempie, il collo,
i polsi, le mani, con un roco ansito nella gola soffocata, e la baciò
per tutta la sua carne profumata finchè il respiro gli venne meno. Poi
si levò scapigliato, si sciolse da lei che lo teneva, la ricacciò con
violenza sui cuscini, corse nella sua propria camera, vi si chiuse.
Ella dette un piccolo grido, e vibrante com’era sotto il flagello
di quei baci, ruppe in un convulso di lacrime, poi restò per qualche
attimo quasi priva di vita.
La mezza luna saliva sopra le montagne, alta, limpida, lontana dalle
stelle.
Egli si buttò sul letto, mordendo i cuscini, aggrappandosi alle coltri,
per dominare il tumulto che dentro lo schiantava, e non udir quella
voce sommessa che dietro l’uscio lo supplicava, e non guardar più oltre
nella terribile possibilità di quell’ora.
La notte s’inoltrava, limpida, quasi tremante, verso i culmini del suo
glorioso fulgore, disseminando nella curva dell’infinito una più grande
magnificenza di stelle. Il lago, le rive, abitate dall’ombre notturne,
invase dall’ambiguità del silenzio, si vestivan di bianchi splendori
nell’incantesimo della notte.
Trascorse un tempo che a lui parve infinito, poi gli sembrò di
comprendere ch’ell’avesse cominciato a svestirsi. Non più intese per
il pavimento il rumore de’ suoi tacchi sottili, ma il camminar soffice
di due pianelle che andassero frettolose; allora ebbe la tentazione
d’accostarsi all’uscio interno, che li divideva, e mettersi ad
ascoltare. Ma subitamente invece la porta verso il corridoio s’aperse,
ed ella entrò.
Era in vestaglia, paurosa, pallida, e ristette sul limitare. Egli balzò
giù dal letto, rimase attonito a guardarla.
— Che vuoi?... — balbettò con voce soffocata.
— Nulla, — rispose. Lo guardò. Negli occhi alterati aveva una luce
insolita; l’espressione di quel viso era singolarmente mutata. Qualcosa
di aspro e di selvaggio era pure in lei, nella sua bocca per solito
così ridente.
— Non dormirai stanotte?
— No.
Allora il fratello si mise a camminare cupamente per la camera, senza
passarle vicino, come se meditasse contro lei qualche orribile cosa.
Ma rapidamente aperse la finestra ed uscì sul terrazzo.
Roteavano tutte le stelle, per l’immensità piena di tremito, come un
turbine di coriandoli d’oro.
Ella, furtiva, gli scivolò appresso, così leggera che non la udì, e
gli si appese al collo. Non aveva più busto, non aveva più che una
vestaglia quasi diafana, che mal nascondeva la camicia ricolma e la
gonnella corta; il suo corpo gli si fasciava intorno alla persona come
una morbida sciarpa di seta si fascia, nel vento, intorno al collo che
la porta. Le si disfecero anche i capelli, ch’eran tenuti da un pettine
solo, e, senza cadere del tutto, gonfi e morbidi le ingombrarono la
nuca.
Dolorosamente, amaramente, le loro bocche si congiunsero. Ella sentì
così vicino lo spasimo della dedizione che s’attorcigliò a lui come
un’edera, gli si avvinse intorno come un nodo.
La polvere di gelsomino volava in alto a vampate, ondeggiava per l’aria
soffice, divampava dall’aperto giardino come un incenso invisibile:
ogni cosa per intorno pareva esser pregna di quest’odore possente. Una
fontana sola dominava il silenzio della notte, lanciando i suoi fili
d’argento nell’intrico dei rami frondosi, dove, ad intervalli, un’ombra
si mutava subitamente in splendore.
Tutto quanto avevano sofferto, patito, rifiutato al proprio desiderio
colpevole, si disperdeva come un fumo di sterpi nella vertigine di
quell’ora. Nulla più li divideva, se non il terrore di quella immensa
gioia; l’indugio stesso che frammettevano al loro peccato era un
peccato infinitamente più grande.
Ella si perdeva, ridendo e singhiozzando, sotto le sue carezze
molteplici; nella gola turgida le saliva già il grido felice di quel
vertiginoso dolore.
Ebbro di averla toccata, egli la sollevò nelle braccia, ed il suo peso
non gli fece compiere che uno sforzo lieve. Aperse l’uscio serrato,
la portò nella sua camera. Il pettine che le ratteneva i capelli,
cadde sul pavimento, rimbalzò; le belle trecce le si diffusero per le
spalle seminude, mentre si teneva strettamente al suo collo formando
con le braccia avvinte una forte catena. I suoi piedini gli battevano
contro le ginocchia, nel camminare. L’adagiò sul letto, e, curvatosi,
immerse la bocca nel tepore della sua gola palpitante, mentre la vedeva
contorcersi e tremare di sofferenza, quanto più, nel delirio, con le
sue disperate labbra egli la baciava.
Allora strappò i vestiti da sè, da lei, furiosamente. Si sentiva rombar
nelle tempie l’urlo della notte infinita; perdeva la conoscenza d’ogni
altra cosa che non fosse quella carne viva.
E la freschezza della coltre li raccolse in un sol nodo convulso, li
strinse, bocca su bocca, in un terribile disperato piacere...
. . . . . . .
Nel suo letto insonne di vergine ell’aveva imparato l’amore;
nelle origini stesse della sua vita un oscuro istinto l’aveva
irrimediabilmente condannata a peccare; il suo grembo di donna la
condannava ad essere un delizioso e temibile strumento di voluttà.
Era inconsapevolmente lasciva; tutti i peccati della carne possedevano
già il suo corpo intatto. Gli dava da bere il suo fiato, lo soffocava
ne’ suoi capelli, si raccoglieva i seni come due bei grappoli maturi e
li offriva crudelmente alla sua bocca, perchè ne godesse il sapore; si
torceva con agile furia, battendo insieme le ginocchia nell’impazienza
dello spasimo da cui voleva sentirsi ferire.
Ma in quell’attimo, dalle radici più vive dell’essere, un male opaco,
denso come fumo, greve come piombo, traboccò nelle sue vene, pervase
il più profondo gorgo della sua vita, la ruppe nelle giunture, le
si strinse intorno alla gola come un capestro soffocante. Ed in
quel male torbido, così vicino all’urlo del piacere, tutto l’odio
virgineo che portava nel grembo inconsapevole si ribellò nell’attimo
della dedizione. Con le sue mani, ch’eran state lascive, cercò di
respingerlo, di afferrarlo, serrando la sua gola, torcendo la sua bocca
umida, graffiandolo nel viso; e mentre pativa il bisogno di sentir
infranta per sempre la disperata sua verginità, d’un tratto le forze
l’abbandonarono, la vita le sfuggì dalle vene con un lievissimo grido.
Allora egli vide subitamente in quella faccia svenuta, come nella
trasparenza d’un’acqua ferma, salir la faccia grave del lor padre
taciturno, aprire su quelle palpebre chiuse i suoi dolorosi occhi
pallidi, scavare in quelle piane tempie le fosse delle sue tempie
senili, e vide nella faccia della sorella svenuta le scarne fattezze di
lui, la fronte carica d’anni, l’amara bocca dalle labbra esangui, che
si movevano per maledirlo...
Un abominevole terrore lo colse; di nuovo il cilicio della colpa non
consumata lo ferì nella carne, fin nell’anima, con più irte spine.
Balzò indietro, come di fronte ad un fantasma, e perdutamente fuggì.
Passava la notte glauca per il cielo della prima estate; le stelle
splendevano così vicino alle finestre, che pareva, stendendo una mano,
di poterle quasi toccare...

La mattina dopo si guardaron in faccia, lividi, come se avessero
commesso un delitto. A lei dolevano tutte le membra; i nervi esasperati
le vibravano come funi troppo tese; le alitava intorno alle narici
un profumo voluttuoso di baci. E sentiva solamente il bisogno di
giacer supina, fra le carezze di quell’amante che amava, e dargli
tutta sè stessa come una coppa traboccante, e soffrire da lui quel
maraviglioso dolore, ch’egli le aveva crudelmente risparmiato. Pur
affranta com’era, le pareva che mai le sue vene si fossero sentite
così gonfie di vita, che mai l’urto del suo sangue le avesse portato
al cervello una più torbida voluttà. Sentiva un bisogno quasi malato
di tornargli vicino, di accarezzarlo con tutto il suo corpo, con tutta
l’anima sua, poich’egli portava in sè il piacere inebbriante, e si
sarebbe inginocchiata con umiltà pur di goderne ancora la struggente
inquietudine.
Ma nella faccia di lui, devastata e folle, non era che una enorme
paura. La paura di quegli occhi pallidi che lo avevano guardato, la
notte, d’improvviso, fra i baci. E rivedeva la faccia grave del lor
padre taciturno, la senile bocca maledicente, su cui s’era trovato
curvo nell’attimo estremo, quando stava per impadronirsi di lei.
Già, per ogni angolo, sovr’ogni cosa, rivedeva quella immagine, velata
di silenzio e di malinconia. Era il fantasma che andava insieme col suo
peccato, che gliene avrebbe ora e per sempre impedita la consumazione.
Tra lui e lei c’era lo sguardo di quegli occhi pallidi; nella vampa
stessa del suo desiderio quell’ombra passava come una fredda minaccia.
Su la bella bocca profanata vedeva rinascere la memoria, il segno
quasi, dei loro baci; ma quando più la tentazione attanagliava il suo
cuor maledetto, ecco fra loro lo spettro paterno, la sinistra pallida
faccia che appariva nel viso di lei.
Allora capì d’essere dannato, capì che uno spavento inesorabile
ormai dominava il suo spirito, e lo piegava, e lo teneva prigioniero,
trascinandolo, quasi alla catena, come un cane sitibondo lungo la riva
d’un fiume. Comprese di non essere più padrone della propria volontà e
di non potere nè ribellarsi nè ubbidire a sè medesimo, poichè fra lui
ed il suo amore c’era tutta la potenza di quella legge umana che le
più forti anime talvolta non riescono a sovvertire, c’era lo sgominio
invincibile del peccato che in tutti i tempi era stato maledetto,
c’eran le oscure leggi della procreazione e del sangue, c’era la forza
terribile delle parole, che vieta di chiamare amante una sorella
e vieta che il nostro desiderio si fermi sul limitare della casa
dov’ebbimo la culla, dove arde la fiamma inviolabile del focolare, dove
siede il nume domestico a tutela della perpetua famiglia.
Comprese pure d’essere un debole, cui facevano paura le grandi anomalie
della vita, un timido, che preferiva languire sotto il flagello del suo
male anzichè impadronirsi d’una spietata felicità.
Solamente una grande anima può essere capace d’un grande peccato ed
è molte volte più facile riscattarsi nel terrore della colpa, che
affrontarne con tutto l’animo la tragica bellezza. Per concedere al
proprio desiderio quella stupenda e orrenda libertà, che non riconosce
divieti, bisogna disprezzare infinitamente gli uomini e tutto ciò che
ubbidisce a pregiudizi umani. Ma egli non era che la vittima del suo
fenomeno d’amore, nè sapeva in alcuna guisa divenirne il padrone.
Aveva guardato infatti con occhi temerari verso le cime ove spazia
l’anima dei veri sovvertitori; ma forse gli mancava quella coscienza
dell’individuale arbitrio che sola poteva uguagliare il suo coraggio
alla temerità del volo: una legge fortuita aveva imprigionato in
quest’uomo mediocre l’amore d’un dio.
E però tentava liberarsene con ogni potere della sua volontà,
riconoscendosi pieno di umili paure davanti alla fiamma di una così
grande passione. Ma colui che dice a sè stesso: «Diméntica!» — non
fa che insidiar la sua colpa con una tentazione più forte, non fa che
avvelenare il proprio desiderio con l’attesa di una più grande voluttà.
Egli aveva passata la notte insonne a ragionar con sè stesso, a
prevedere ogni possibile conseguenza, e n’era uscito con un proposito
fermo: quello di allontanarsi dalla sorella, di non più rimanere un
istante vicino a lei, perchè solo nella fuga, nella lontananza, nel
tempo, egli ancora vedeva una remota salvezza.
Le andò presso, le parlò come non aveva mai parlato ad alcuna creatura
del mondo, tanta era la dolcezza che traboccava dalle sue parole.
Disse d’aver pensato a sè stesso ed a lei, a lei sopra tutto, e d’aver
compreso che stavano per prepararsi entrambi, con le lor proprie mani,
una irremediabile rovina. Ch’ella era giovine, e doveva pur vivere,
mentr’egli non avrebbe mai consentito a dividerla con chicchessia. E
nessuna illusione le facesse velo. Oggi, forse, la sua gioia più grande
consisteva per lei nel sacrificio di sè stessa, ma inevitabilmente
verrebbe un giorno, e forse non lontano, in cui se ne sarebbe troppo
tardi pentita. Infatti, quante aspirazioni, quante impazienze già non
tormentavano la sua fervida giovinezza! Poich’ella era una bambina di
vent’anni, ed a vent’anni l’amore, anche un’amore così torbido, non può
essere che una ventata sentimentale, un soffio di perverso ardore, che
sfuma e passa e non lascia memoria di sè... Poi, a lungo andare, nulla
si può nascondere. La gente, prima o poi, se ne sarebbe avveduta. E
allora?... Si sentiva ella il coraggio di subire apertamente una tale
vergogna? Li avrebbero tutti esecrati, fuggiti come due cani lebbrosi,
come due stregati, e non sarebbe rimasta per loro nè famiglia, nè
amici, nè avvenire, nè pace, nè alcuno di que’ conforti umani che pur
son necessari ad ogni creatura. Inoltre non eran ricchi, e bisognava
quindi che, ognuno per la propria strada, provvedessero all’avvenire,
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