Colei che non si deve amare: romanzo - 09
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Li condussero la mattina dopo su lo sterrato d’un ippodromo e li misero
di fronte, a torso nudo.
Faceva un così bel sole, ch’era peccato giocarsi la vita. Ma la
rischiava lietamente Arrigo, perchè il barone Piaggi gli rendeva
insomma un certo onore incrociando il suo ferro con lui. Simile onore
gli rendevan i quattro rappresentanti, fra i quali erano tre patrizi
autentici ed un uomo esperto di cavalleria. Quest’ultimo era Lanzo
Malatesta, padrino di professione, che gli aveva pure insegnato un
colpo al braccio, uno di que’ tali colpi segreti, che fra gli altri
difetti possiedono pure quello dell’infallibilità.
Lo diede infatti, ma non senza il contraccambio, perchè il ferro del
barone, altrettanto infallibile, gli segnò su la guancia sinistra una
ferita piuttosto lunga, diritta, elegantissima.
E col tempo gliene rimase una bella cicatrice bianca.
Questo duello fu la corona d’alloro del suo torneo mondano. Se fino
allora taluno l’aveva guardato in cagnesco, armandosi d’una certa
diffidenza, per tutti quei punti interrogativi ch’erano intorno al
suo nome, adesso che s’era battuto con Silvestro Piaggi e che due
gentiluomini s’erano incomodati, con altri due, per condurlo sul
terreno, adesso che portava sulla guancia la ferita cavalleresca,
nessuno più perdeva il tempo in simili restrizioni, e, per quel tanto
che v’è di formale o di bizzarro nelle cose mondane, la taccia pubblica
d’avventuriero e di spostato gli era servita ottimamente a consacrarlo
gentiluomo.
Anzi quella ferita vinse definitivamente il cuore di Clara Michelis,
cui egli faceva una corte accanita, ma fino allora infruttuosa.
Clara Michelis volgeva sopra i trent’anni, l’età voluttuosa e
pericolosa che talvolta nella donna fa sbocciare le più calde primavere
del sentimento. Non era del tutto bella, ma il suo pallore, i suoi
grandi occhi neri, e quella sua fragilità profondamente sensuale,
davano al suo corpo delicato una particolare attrattiva, cui non era
del tutto estranea certa leggenda mormorata fra le sue conoscenze,
cioè che avesse consunto il marito in pochi mesi di matrimonio, per
soverchio amore. Aveva una figlia giovinetta, ch’era tutta la sua
passione, poichè la prediligeva con quella tenerezza un po’ maniaca ed
eccessiva che si ha per un cagnolino, per una bambola, per un ninnolo;
infuori da questo, la sua vita era vuota... oh, infinitamente vuota!
Interrotti gli amori clandestini con la Ruskaia, Arrigo si trovava
talvolta in impicci assai difficoltosi. Non era certo su Donna Claudia
che avrebbe fatto affidamento, sebbene la vedesse vivere in quello
sfrenato lusso ch’era quasi un contorno necessario alla sua bellezza
sfiorente. Donna Claudia, tutt’al più, rappresentava per Arrigo
un’egida provvisoria, una indispensabile introduttrice, poichè per
tutte le difficili e vietate soglie si passa in molti casi grazie al
favore d’una donna.
Ma egli era conscio della sua condizione precaria, e con discernimento
e con freddezza si andava cercando per intorno qualche protezione più
sicura.
Aveva conosciuta Clara Michelis in un salotto e le aveva messi gli
occhi addosso, un poco per curiosità, — quella curiosità naturale in
lui verso tutte le donne che potessero agevolargli la strada, — un poco
perchè subiva egli pure il fascino capzioso della vedova disoccupata.
Gli piaceva, gli conveniva e lo tentava insieme. Passava per ricca,
forse più che non fosse; la si vedeva poco nei teatri, poco per
istrada, non era gran che mondana, ma intorno alla sua vita lievemente
misteriosa le chiacchiere del mondo s’erano sbizzarrite assai. Di tempo
in tempo la davano per fidanzata; invece la sua vedovanza continuava
pertinace.
Arrigo le si mise intorno senza ben sapere cos’avrebbe desiderato da
lei. Per intanto agognava di possederla, ed aveva pure supposto che
fosse più facile cosa. Ma Clara Michelis era fra quelle che studiano
ed irritano lungamente la pazienza dell’uomo prima d’uscire dalla
propria torre eburnea, disposte a cedere onoratamente le armi. Ella si
sapeva ormai vicina a quell’età nella quale prendere un amante vuol
dire forse compiere l’atto definitivo della propria storia amorosa,
affrontarne forse il pericolo estremo: quello d’innamorarsi davvero.
Perciò si valeva di tutte le sue esperienze precedenti. Era già presso
a quel punto in cui la donna, particolarmente quella che non fu onesta,
anzichè lusingarsi d’un desiderio che la ricerchi, ne dubita o se
n’offende, quasichè le spiaccia d’essere considerata una troppo facile
preda. Poi, nel rifiuto ambiguo, crudele, esasperante, che provoca le
grandi tentazioni e le grandi arditezze, c’è per la donna talvolta un
godimento più fine che nella dedizione stessa.
Infatti Arrigo s’era incapricciato di lei con una certa esasperazione,
e si doleva nel doverselo confessare. La gente, vedendoli molto
insieme, già da un pezzo diceva che fossero amanti, quand’egli ancora
non era giunto a baciarla più in su che il polso; quel polso nervoso
e venato che pareva un minuscolo gingillo nella sua mano forte. Ello
lo esasperava col suo profumo, con la sua voce, con la sua maniera di
muoversi, di ridere, di negarsi; lo seduceva con tante piccole rarità
sentimentali ch’erano in lei racchiuse come in un cofano prezioso.
Egli si tormentava di quella instancabile civetteria, come alcuno
che avendo gran sete, sol potesse di quando in quando rinfrescarsi
le labbra riarse con qualche gocciola d’acqua pura. E si trovaron
ancor più attratti l’un verso l’altra dalla passione che avevano per
la musica, entrambi. Ella suonava il piano con uno squisito calor di
sentimento; egli, curvo su l’arco del violino, curvo su lei, tra il
profumo delle sue treccie, l’accompagnava. Nella sala quasi buia,
tra il volo delle note, sentivano roteare intorno il vortice della
tentazione, piovere nelle pause ambigue il velo d’un incantamento.
Talvolta, nel muoversi, nello scuotere leggermente il peso delle sue
treccie all’indietro, ella incontrava e toccava il suo braccio, con
paura; talvolta il respiro dell’uomo curvo le passava sul collo ignudo,
avvolgendola tutta in un freddo e lento brivido. Fra i due candelabri,
nel riflesso dell’ebano, pur senza volgersi ella vedeva la faccia di
lui, tormentata, piena d’una rabbia virile, che le dava una sensazione
fisica estremamente voluttuosa.
Passarono tutta la musica da camera che potè mai essere scritta per
il martirio degli innamorati, e qualche volta, mentre le sue mani
trasparenti correvano veloci su la tastiera, l’archeggio del violino
s’interrompeva di súbito, ed una bocca bruciante le cercava, il collo,
tra le radici dei capelli, con una voglia rabbiosa di mordere. Qualche
volta lo vedeva in ginocchio, supplice come un bimbo.
Le sue vestaglie di seta facevano appena un morbido fruscìo d’ala, nel
fuggire. Poi, nell’altra stanza, rideva, rideva, con la gola piena...
Dirgli di sì... come sarebbe stato facile! Ma forse avrebbe interrotto
quell’incanto, ed ella non voleva. Viziata, snervata, appassionata, era
questo l’amore che a lei piaceva.
Ma una sera che le tende gonfie lasciavano entrar la primavera, i
candelabri si spensero in un soffio d’aria, le rose aperte nei vasi di
cristallo stormirono come se fossero su le spalliere...
Veniva dalla strada un rosso riverbero di lampioni, disperso
nell’azzurra luce della notte primaverile; veniva di tempo in
tempo qualche scalpiccìo di passanti, qualche fragore di ruote che
lontanavano, qualche risata.
Allora, d’improvviso, con rabbia, egli si piegò su lei, cercò la sua
bocca innamorata, bevve il suo più gonfio respiro, la sua crudeltà più
forte, che traboccava in un riso convulso...
Le tende gonfie di profumo soffocarono il lor grido d’amore, lo
confusero nel vento soave con la fragranza delle rose, lo dispersero
via, nella notte, fra le musiche della primavera...
* * * * *
I
Trascorsero due lenti anni. Nel crocchio d’amici, fermi su l’angolo
della bottiglieria, si parlava immutabilmente di donne, di giuoco,
d’amore.
Sul marciapiede opposto una giovinetta passò, con un’andatura svelta,
con qualcosa di simile alla cingallegra nella sua fresca giovinezza,
movendo entro la gonna succinta l’onda mutevole del suo corpo.
— Chi è quella ragazza? — domandò il marchese di Sant’Urbino,
additandola al crocchio degli amici.
— Bellina! — disse Cesare Farra, che amava d’ogni frutto le primizie
immature.
— Pare una piccola vespa! — commentò Lanzo Malatesta, maneggiando per
celia la sua mazza come una sciabola, da quell’abitudine ch’egli aveva
di celiatore e di schermidore.
Totò Rígoli avanzò di qualche passo fuor dal marciapiede per ravvisarla
meglio.
— To’!... se non erro, dev’essere la verginella che sta per cascare
con Rafa Giuliani. L’ho veduta una sol volta, però la riconosco. È un
amore!
Già lontanava. Di lei distintamente non si vedeva più che la bella
capigliatura, d’un vaporoso color biondo.
Sacco Berni fece una smorfia; qualche volta gli piaceva proverbiare;
disse:
— Stretto passaggio, si paga il pedaggio.
— Ma Rafa è molto ricco, — notò Giorgino Prémoli. — A queste inezie
Rafa non bada.
— Poi dev’essere innamorato cotto! — proseguì Franco Spada. — Rompe i
timpani a tutti con le sue confidenze. Non sapevo che fosse per quella
lì. Graziosa. Ma mi sembra un poco mal vestita. Che fa? La sartina?
— Dev’essere una ragazza onesta, ma figlia d’un cornuto, — sentenziò
il Rígoli. — Perchè i padri legittimi non riescono mai a farle così
belline. Vi pare? Quanto poi a rivestirla con eleganza provvederà il
buon Rafa... Eccolo appunto! E guardate come corre!
Il Giuliani passava su l’altro marciapiede, camminando in fretta. Lo
chiamarono, ma non rispose.
— Corri, corri, che sei in ritardo! — gli gridò dietro Sacco Berni. — È
passata or ora.
— Io delle vergini ho paura, — disse gravemente Giannotto Pigna, —
perchè molte volte attaccano la sifilide...
La marchesa di Versano passò in quel mentre, nella sua carrozza
scoperta, con la pariglia del sauro e del grigio, due superbi
trottatori. Molti si levarono il cappello, inchinandosi profondamente.
— L’aborto non le ha fatto male, — osservò il Rigoli. — Si è rimessa
molto presto. Ma il Commendatore ha certo avuta una bella paura...
Alcuni, poich’eran amici di casa, si astennero dal ridere.
— Totò, la conosci la vergine di Rafa?
— Io no.
— E allora come sai ch’è una ragazza onesta?
— Me lo ha confidato Rafa.
Sopraggiunse il conte Anatoli, con un abito nuovo, che gli stava
malissimo. Era famoso per la sua eleganza ridicola. Molti si misero a
burlarsi di lui, cosa che in fondo lo lusingava.
— È una vespa, ma è carina, — ribattè Lanzo, al quale non poteva
uscir dal capo. E domandò al Pigna, uso a piantonare per lunghe ore
quell’angolo:
— Passa ogni giorno qui?
— No, quasi mai.
Il del Ferrante, la notte innanzi, aveva vinto al Circolo trentamila
lire. Quando giunse fu assai complimentato e gli fecero narrare i
particolari della bella partita. Ma in quel punto scese di vettura la
Tita Borsani, che si era data modestamente il nome di Tita La Vallière
per miagolare nei teatri di varietà. Aveva, tempo addietro, avuto un
capriccio per il del Ferrante, e non appena lo scorse, poichè doveva
passare frammezzo al crocchio, lo prese per il braccio dicendogli con
una certa ostentazione:
— Venite ad offrirmi una tazza di tè.
Il del Ferrante, con l’aria d’un uomo che ubbidisse a malincuore,
l’accompagnò nella sala. Molti altri li seguirono.
— E così che tenete le vostre promesse? — disse ad Arrigo la signorina
La Vallière, non appena furono seduti. — V’ho aspettato ieri e l’altro
ieri. Aspettato per modo di dire: cioè sono rimasta in casa.
— Piccola Tita, sai bene che avevo detto: forse...
— Perchè mi dài del tu, scusa? — ella interruppe con impertinenza.
— E tu?
— Ah, va bene!
— T’è passata l’ubbriacatura? — le fece uno, avvicinandosi.
— Sciocco! — ella rimandò con un bel riso. — Ti pare che avessi bevuto
iersera?
— Se mi pare? T’ho messa in carrozza di peso per ricondurti a casa, e
se fossi venuto fin sopra, giuro che non te ne saresti nemmeno accorta!
— Oh, di te, pare che sia molto difficile «accorgersi...» — ella fece
ridendo.
L’altro non disse nulla, ma sembrò che la celia non gli garbasse
affatto.
— Dunque ti sei messa a bere? — le domandò Arrigo, non appena quegli si
fu allontanato.
— Ma no! Ieri notte mi hanno fatta bere per forza. Quel terribile
Mumm... Su, versami il tè. Perchè mi guardi? Cosa pensi?
— Penso, cara Tita, — egli disse affettuosamente, — che ci siamo quasi
quasi voluti bene una volta, e ciò mi rattrista, perchè io provo sempre
una grande malinconia pensando alle cose che sono passate, alle cose
che non possono...
— ... tornare più! — ella fece, seria, nel sorridere.
— Volevo dire: che non posso continuare sempre.
— Fate un po’ di sentimento, ora? — domandò il Rígoli che s’era seduto
alla tavola vicina.
— Sì, per ridere... ed anche per farvi ridere! — esclamò la Tita, con
un accesso d’allegria. Ma i suoi grandi occhi neri, offuscati di nero,
un po’ sciocchi forse nella loro bellezza, non sapevano celare una
certa inquietudine, una certa sensibilità quasi timida, nel guardare il
giovine dallo sguardo vellutato, dalla bocca aspra, che le mesceva ora
il tè fumante e pareva considerarla come un piccolo trastullo.
— Non ti si vede più, — ella disse al Ferrante, sottovoce. — Che fai?
— Molte cose. — Poi, con un gesto vago, ripetè: — Molte cose.
Ella lo guardò attentamente:
— Sei divenuto un posatore.
— Quei due si rifanno la corte! — annunziò allora un de’ vicini, che
aveva udito. — Siete ben noiosi!
— Sapete che purtroppo, — ammise ridendo la Tita — ho sempre avuto un
tenero per Arrigo.
— Questo non ci riguarda, — ribattè Sacco Berni. — Del resto Arrigo non
è libero e perdi il tuo tempo. Io sono invece liberissimo, se vuoi.
— Tu?... No, grazie! Tu sei un uomo prosaico, sboccato e pieno di vizi.
Per innamorare le donne ci vuole sempre un poco di poesia.
Ella inzuppava un biscotto nel tè, afferrandolo in fretta con le
labbra, perchè non si spezzasse.
— E del resto, — continuò, — se non è libero, cosa m’importa? Io non
gli domando niente. Gli dicevo anzi ch’è diventato un posatore.
Sopravvenne il Malatesta, con il cappello messo all’indietro,
l’occhialetto insolente, stringendo fra le dita la mazza flessibile,
che faceva roteare. Disse ad Arrigo:
— Tu, che sai tutto in fatto di donne, sapresti per caso dirmi chi è
la ragazza alla quale corre dietro Rafa Giuliani? È passata poco fa: mi
piace.
— Non l’ho veduta, — rispose Arrigo. — Non so nulla di nulla.
— Se Rafa le corre appresso, ti consiglio di lasciarla stare, — osservò
la Tita, piena di buon senso. — Rafa è troppo ricco.
— Ecco la donna venale! — esclamò il Malatesta con un riso gaio.
Era un autunno di sole; nei parchi e nei giardini ove andava la piccola
vespa tutte le foglie non eran cadute ancora.
II
In media una volta ogni mese il farmacista Riotti capitava in casa
d’Arrigo, dandosi l’aria d’un uomo risoluto a qualche passo estremo,
tutto gonfio di spiriti oratorii e pieno di burbera tracotanza, come
chi sa di propugnare invanamente una causa giusta.
Perchè l’ira gli sbollisse, Arrigo lo faceva attendere un buon quarto
d’ora, poi gli andava incontro con la sua disinvoltura d’uomo gioviale,
tendeva al farmacista la sua mano risfavillante d’una grossa pietra,
dicendogli:
— Buongiorno, carissimo Riotti; come va?
L’altro borbottava qualcosa, ch’era un mezzo saluto, profferito in
luogo e vece d’una ingiuria.
— Sedetevi dunque! Che buon vento vi mena? Oh, là là... State bene,
vedo. Una cera da principe! Novità?
— Signor Arrigo, meno chiacchiere! Io vengo, lo sapete bene, per la
solita faccenda.
— Cioè?... Ma sedetevi, dunque! Toglietevi il cappotto, che diamine!
Come sta mio padre? È un pezzo che non lo vado a trovare. Come sta? E
la mamma?
— Se non son morti ancora, con un figlio come voi, vuol dire che hanno
la pelle dura!
— Dunque stan bene. Meglio così.
Ma intanto il Riotti, curioso, indiscreto, cominciava con lanciare
un’occhiatina per intorno. Il salotto gli piaceva; gli sarebbe
estremamente piaciuto che tutto questo appartenesse a sua figlia, cioè
a lui. Si sbottonava il soprabito, rimanendo nel viso più arcigno
che potesse. In fin dei conti la spavalderia di quel Rigoletto, a
lui familiare sin da quando era bambino, superava il suo buon senso
borghese, lo sbalordiva un poco, gli dava quasi quasi una certa
soggezione.
Arrigo gli metteva sottomano la scatola de’ sigari — una scatola
d’argento martellato, con le cifre in oro — ed il Riotti tastava la
scatola in ogni senso prima di mettersi fra i labbri uno di quegli
Avana lunghi e panciuti, che col loro fumo gonfio di sapore davano
al suo cervello certe deliziose sensazioni esotiche. Poi Arrigo si
alzava con premura per versargli un bicchierino di quel suo vecchissimo
«Curaçao», che sapeva di fiori d’arancio, e gli lasciava presso la
bottiglia nettarea, tappandola bene perchè non isvanisse.
— Dunque, le nozze? — interrompeva bruscamente il Riotti, per tagliar
corto a tante cortesie.
— Ah... le nozze! A proposito, come sta l’Eugenia?
— Bene, bene... ossia, come può stare una ragazza ne’ suoi panni.
— Insomma sta bene anche lei; meglio così!
— Sentite, Arrigo, finiamola con gli scherzi! So che adesso appartenete
al bel mondo, siete sempre fra conti e marchesi, ricevimenti, pranzi,
amanti, e che diavolo so io; ma per me non conta; la parola data non si
ritratta, a meno d’essere... a meno d’essere... insomma io v’ho visto
bambino, e certe cose ve le posso ben dire!
Arrigo lo aveva sempre tenuto a bada con qualche vaga promessa; ma una
volta finalmente perdette la pazienza.
— Bene, sentite, — gli rispose. — Io mi sono avveduto di una cosa: che,
per prender moglie, ci vuole la vocazione. Io non l’ho. È triste, ma
non l’ho. Non me n’ero accorto finora, ma non l’ho!
— Che c’è di nuovo adesso? — era scattato su il Riotti.
— Sicuro; e volete che ve lo ripeta un’altra volta? Non l’ho! Anzi
vorrei darvi un buon consiglio. Cercate di coltivare qualche altro
partito per vostra figlia, perchè, se aspetta me, credo che le
spunteranno i capelli bianchi.
Il Riotti sgangherò la bocca, come se volesse buttarne fuori la più
orrida bestemmia, ma non diede che una specie di enorme sbuffo mentre
le sue guance divenivano paonazze.
— Ah, davvero?!... È così? è così? dopo quel che c’è stato?!
— È così, mio caro, è proprio così.
E gli aveva urbanamente volte le spalle, ritirandosi nelle stanze
interne dell’appartamento e piantandolo in asso nel bel mezzo di quel
salottino elegante, ove, dopo alcuni minuti, il domestico venne ad
avvertirlo che s’aspettava gente, sicchè facesse il piacere d’andarsene
via.
Il Riotti, sbraitando, se ne uscì. Ma corse a gettar fuoco e fiamme
nella retrobottega del povero Ferrante, ch’era l’uomo più paziente del
mondo.
In quella retrobottega erano successe varie cose, da quando Arrigo non
vi abitava più.
L’occhialaio s’era di molto invecchiato, ed a forza di montar lenti per
gli occhi altrui s’era fatto miope a sua volta. Chi faceva prosperare
il negozio era piuttosto il figlio Paolo, un buon ragazzo, modesto,
economo e mediocre. La figlia maggiore, Luisa, s’era maritata col suo
droghiere benestante; aveva già un figlio ed era incinta d’un secondo.
Era divenuta grassa oltre il prevedibile; viveva solo per le cure della
sua famiglia nuova.
Ma invece la minore, Anna Laura, Loretta, era il grattacapo dei due
vecchi genitori. S’era fatta più che mai bellina, d’una bellezza un
po’ sfacciata e provocante; si profumava, s’incipriava, si vestiva di
fronzoli, civettava, cicaleggiava, era vispa, furba e graziosa come un
furetto.
Di sposarsi, lei, non ne voleva sapere; quanti partiti le capitavano,
tanti ne mandava in fumo. Aveva, per quella mediocre vita plebea, lo
stesso odio che il fratello Arrigo, e ad ogni scena che le facevan i
genitori minacciava di andarsene come lui, per vivere alla ventura.
Liberatosi a quel modo del Riotti, Arrigo ebbe una sera la curiosità di
rivedere i parenti e sapere qual effetto avesse prodotta in famiglia la
sua dichiarazione esplicita in merito al fidanzamento.
Vi andava rarissime volte, e sempre in vettura chiusa, perchè a nessuno
potesse mai accadere di vederlo bazzicare in quel suburbio. Ora, nella
sua casa, tutti avevano in lui quasi un rispetto diffidente e timoroso.
Quella sera la famigliola pranzava. La luce elettrica, messa da pochi
mesi, rischiarava la piccola retrobottega, e, per un’abitudine antica,
pranzavano lì, sebbene avessero al pian di sopra una saletta ben
mobiliata.
Donna Grazia, nel trascorrere di quei lenti anni, s’era fatto un po’
dura d’orecchio, s’era presi certi malanni reumatici che le davan noia.
Come donna di casa valeva molto poco; tutti i suoi meriti si riducevano
a saper preparare, insieme con la domestica, certe minestre sostanziose
che odoravano per l’intero vicinato. Lui, Stefano, un po’ più curvo,
un po’ più calvo, era sempre il medesimo; gli mancavan ora due denti
incisivi, il che dava al suo bigio volto una malinconica espressione di
vecchia bestia malata. Paolo era un ragazzotto piuttosto incline alla
corpulenza, con il cranio tondo come un cocomero, due occhietti buoni e
scialbi, le linee del volto precise come quelle del fratello, ma un po’
inselvatichite.
Fra quei tre tipi grossolani, ciò che formava un singolare contrasto
era la figurina leggiadra di Anna Laura, con la sua torricella di
capelli ben pettinati, con i suoi abiti quasi eleganti e la squisita
grazia di tutto il suo corpo, che dava la fresca e odorosa impressione
d’un bocciolo di rosa.
— Buon appetito a tutti! — aveva detto Arrigo, entrando.
Gli avevan ricambiato il saluto con una esclamazione di sorpresa, pur
senza interrompersi dal pranzare; tranne Loretta, che s’era levata
in piedi e gli era corsa incontro buttandogli le braccia al collo e
ridendo con un’allegrezza infantile ma un po’ sguaiata.
— Oh, Arrigo! Arrigo! finalmente... — esclamava.
— Come va? — disse il padre, asciugandosi il mento gocciolante.
— Bene, bene, — rispose Arrigo, accarezzando il braccio della sorella e
tendendo l’altra mano al padre. — Veramente bene.
Poi si chinò verso la madre per baciarla sui capelli.
— Non pare nemmeno nostro figlio! — ella osservò bonariamente,
traducendo l’impressione spontanea che provava nel guardarlo.
— Buona sera, Arrigo, — fece il fratello senza gran che scomporsi.
— Di’: se tu volessi per caso una cucchiaiata di minestra... — offerse
il padre quasi con vergogna.
— Eh, sì, ti pare! — esclamò Loretta, che invece di rimettersi a tavola
gli farfalleggiava intorno, — ha proprio bisogno dei nostri pastoni,
lui!
— Taci tu! — rimbrottò Paolo. — Per una volta ogni tanto si potrebbe
anche degnare.
— E perchè no? — fece Arrigo. — Non ho pranzato; ho fame, e la minestra
manda buon odore. Su, presto, una sedia e datemene una fondina.
La famigliola si guardò con sorpresa, ed avvenne un piccolo trambusto,
per far posto al primogenito che sedeva alla mensa familiare. Le facce
dei due vecchi si rischiararono.
— Qua, vicino a me allora, — disse Loretta; e si mise a servirlo ella
stessa, con le sue manine svelte, ben curate, che uscivano fuor dai
pizzi d’una leggiadra camicetta. Per lei quel fratello estraneo, così
pieno di signorilità, così diverso da tutti quelli che bazzicavano in
quella bottega, era quasi un corteggiatore, quasi un amante.
E il padre a dire:
— Be’, Arrigo, e gli affari come vanno? È un pezzo che non ti ricordi
più di noi.
— Me la cavo, rispose il figlio. — Non ho fastidi in questo momento.
Anzi, se vi abbisognasse qualcosa, dite pure.
— Sì, a me! — saltò su Loretta, con un fare civettuolo, che le stava
bene. Il fratello la guardò, la guardò con il suo occhio esperto, che
involontariamente pareva quasi apprezzarne il valore.
— Sei bellina, sai! — fece d’un tratto. Poi soggiunse: — Allora cosa
desideri?
— Quel certo collo di pizzo che una volta mi avevi promesso...
Arrigo si cercò nelle tasche e ne trasse un involto.
— Eccolo qui, — disse. — Vedi che non dimentico.
La ragazza diede un piccolo sobbalzo su la sedia, disfece l’involto, e
veduto il pizzo che ambiva, gli occhi, per la gioia, le si fecer lustri
e cominciò ad abbracciare il fratello tra continui scoppi di riso.
— Ve’, che buona cipria adoperi! — disse Arrigo, sentendo l’odor fresco
delle sue guance. — Chi te l’ha data?
— Eh, quella lì!... — fece Paolo, senza levare il viso dal tondo, con
un’aria di sottinteso.
— Quella lì! quella lì!... — rimbeccò Loretta contraffacendo la sua
voce. — Cosa vuoi dire?
— Quella lì, — riprese Paolo, caparbio, — è tutto il giorno in giro dai
parrucchieri e dalle sarte. Si schiaccia il naso contro le vetrine; non
ha in mente che il suo specchio.
— Stupido! — sibilò Anna Laura, stizzosa come una viperetta. E la sua
faccia divenne cattiva.
— E per te papà, — fece Arrigo, risolvendosi ad interrompere quel
battibecco, — per te ho portata una pipa di schiuma. Guarda se ti
piace, se no te la cambio.
Gli tese un astuccio ricurvo, contenente la pipa istoriata, con il
bocchino d’ambra.
— Maraviglia! maraviglia! — esclamò il vecchio, lasciando cadere il
cucchiaio. La guardò per ogni verso, la tastò quasi con religione:
— Maraviglia! — Poi la trasse fuori dall’astuccio e la mostrò alla
moglie.
— Per Dio! — esclamava. — Chissà cosa l’avrai pagata!
E senz’asciugarsi la bocca se la prese tra i denti.
— Sembra la pipa d’un signore con attaccato un portinaio! — disse
ridevolmente Loretta, che si provava il suo collo di pizzo. Arrigo
intanto mangiava ghiottamente, a piene cucchiaiate.
— Che minestra, mamma mia! Che minestra! Era un secolo che non avevo
gustato qualcosa di simile!
— Ti piace? — domandò Anna Laura con una smorfia.
— Per bacco! E datemene ancora!
La vecchia madre, tutta confusa dal complimento come se le venisse da
un estraneo, prese la fondina del figlio, la riempì di nuovo e gliela
porse.
— Nei ristoranti dove tu vai devi mangiare ben altra roba, — fece, come
per iscusarsi.
— Eh, no mamma! Dopo tutto, una buona minestra fatta in famiglia è
ancora la cosa migliore.
— Bravo, Arrigo! Dillo un po’ alla Loretta, che tira sempre su il naso!
— intervenne Paolo. — Per lei ci vogliono le pernici!...
— Tu mischiati dei fatti tuoi, fammi il piacere! — gli rispose con
dispregio la ragazza. E versò ad Arrigo un bicchier di vino; un buon
vinetto onesto, che sgorgava dal fiasco a piccoli fiotti con uno
scintillìo di rubini.
— Buono, — fece Arrigo, assaggiandolo. — Ma voi vi trattate da principi!
— Ci vuoi prendere in giro, eh? — disse con indulgenza il padre, ch’era
commosso per la sua pipa.
— Io? Tutt’altro! Come volete che vi prenda in giro? Dopo tutto non
sono forse in casa mia?
Gli faceva bene al cuore quel po’ di riposo familiare in mezzo alla sua
vita piena d’infingimenti e di scaltrezze.
— Questo sempre, — gli rispose il padre. — Ma ci stai così poco tu, che
deve parerti una casa di forestieri.
La domestica, tutta rossa per la visita del signor Arrigo, portava
in tavola un piattone grande, su cui c’eran manzo lessato e certe
costolette di maiale che ancor scricchiolavan nel burro in cui s’eran
cotte. In mezzo torreggiava un gran mucchio di patate, messe male,
ma appetitose. Giovanna, la serva goffa e timida, borbottava che, se
l’avessero avvertita prima di quella visita, avrebbe fatto andare un
pollo.
di fronte, a torso nudo.
Faceva un così bel sole, ch’era peccato giocarsi la vita. Ma la
rischiava lietamente Arrigo, perchè il barone Piaggi gli rendeva
insomma un certo onore incrociando il suo ferro con lui. Simile onore
gli rendevan i quattro rappresentanti, fra i quali erano tre patrizi
autentici ed un uomo esperto di cavalleria. Quest’ultimo era Lanzo
Malatesta, padrino di professione, che gli aveva pure insegnato un
colpo al braccio, uno di que’ tali colpi segreti, che fra gli altri
difetti possiedono pure quello dell’infallibilità.
Lo diede infatti, ma non senza il contraccambio, perchè il ferro del
barone, altrettanto infallibile, gli segnò su la guancia sinistra una
ferita piuttosto lunga, diritta, elegantissima.
E col tempo gliene rimase una bella cicatrice bianca.
Questo duello fu la corona d’alloro del suo torneo mondano. Se fino
allora taluno l’aveva guardato in cagnesco, armandosi d’una certa
diffidenza, per tutti quei punti interrogativi ch’erano intorno al
suo nome, adesso che s’era battuto con Silvestro Piaggi e che due
gentiluomini s’erano incomodati, con altri due, per condurlo sul
terreno, adesso che portava sulla guancia la ferita cavalleresca,
nessuno più perdeva il tempo in simili restrizioni, e, per quel tanto
che v’è di formale o di bizzarro nelle cose mondane, la taccia pubblica
d’avventuriero e di spostato gli era servita ottimamente a consacrarlo
gentiluomo.
Anzi quella ferita vinse definitivamente il cuore di Clara Michelis,
cui egli faceva una corte accanita, ma fino allora infruttuosa.
Clara Michelis volgeva sopra i trent’anni, l’età voluttuosa e
pericolosa che talvolta nella donna fa sbocciare le più calde primavere
del sentimento. Non era del tutto bella, ma il suo pallore, i suoi
grandi occhi neri, e quella sua fragilità profondamente sensuale,
davano al suo corpo delicato una particolare attrattiva, cui non era
del tutto estranea certa leggenda mormorata fra le sue conoscenze,
cioè che avesse consunto il marito in pochi mesi di matrimonio, per
soverchio amore. Aveva una figlia giovinetta, ch’era tutta la sua
passione, poichè la prediligeva con quella tenerezza un po’ maniaca ed
eccessiva che si ha per un cagnolino, per una bambola, per un ninnolo;
infuori da questo, la sua vita era vuota... oh, infinitamente vuota!
Interrotti gli amori clandestini con la Ruskaia, Arrigo si trovava
talvolta in impicci assai difficoltosi. Non era certo su Donna Claudia
che avrebbe fatto affidamento, sebbene la vedesse vivere in quello
sfrenato lusso ch’era quasi un contorno necessario alla sua bellezza
sfiorente. Donna Claudia, tutt’al più, rappresentava per Arrigo
un’egida provvisoria, una indispensabile introduttrice, poichè per
tutte le difficili e vietate soglie si passa in molti casi grazie al
favore d’una donna.
Ma egli era conscio della sua condizione precaria, e con discernimento
e con freddezza si andava cercando per intorno qualche protezione più
sicura.
Aveva conosciuta Clara Michelis in un salotto e le aveva messi gli
occhi addosso, un poco per curiosità, — quella curiosità naturale in
lui verso tutte le donne che potessero agevolargli la strada, — un poco
perchè subiva egli pure il fascino capzioso della vedova disoccupata.
Gli piaceva, gli conveniva e lo tentava insieme. Passava per ricca,
forse più che non fosse; la si vedeva poco nei teatri, poco per
istrada, non era gran che mondana, ma intorno alla sua vita lievemente
misteriosa le chiacchiere del mondo s’erano sbizzarrite assai. Di tempo
in tempo la davano per fidanzata; invece la sua vedovanza continuava
pertinace.
Arrigo le si mise intorno senza ben sapere cos’avrebbe desiderato da
lei. Per intanto agognava di possederla, ed aveva pure supposto che
fosse più facile cosa. Ma Clara Michelis era fra quelle che studiano
ed irritano lungamente la pazienza dell’uomo prima d’uscire dalla
propria torre eburnea, disposte a cedere onoratamente le armi. Ella si
sapeva ormai vicina a quell’età nella quale prendere un amante vuol
dire forse compiere l’atto definitivo della propria storia amorosa,
affrontarne forse il pericolo estremo: quello d’innamorarsi davvero.
Perciò si valeva di tutte le sue esperienze precedenti. Era già presso
a quel punto in cui la donna, particolarmente quella che non fu onesta,
anzichè lusingarsi d’un desiderio che la ricerchi, ne dubita o se
n’offende, quasichè le spiaccia d’essere considerata una troppo facile
preda. Poi, nel rifiuto ambiguo, crudele, esasperante, che provoca le
grandi tentazioni e le grandi arditezze, c’è per la donna talvolta un
godimento più fine che nella dedizione stessa.
Infatti Arrigo s’era incapricciato di lei con una certa esasperazione,
e si doleva nel doverselo confessare. La gente, vedendoli molto
insieme, già da un pezzo diceva che fossero amanti, quand’egli ancora
non era giunto a baciarla più in su che il polso; quel polso nervoso
e venato che pareva un minuscolo gingillo nella sua mano forte. Ello
lo esasperava col suo profumo, con la sua voce, con la sua maniera di
muoversi, di ridere, di negarsi; lo seduceva con tante piccole rarità
sentimentali ch’erano in lei racchiuse come in un cofano prezioso.
Egli si tormentava di quella instancabile civetteria, come alcuno
che avendo gran sete, sol potesse di quando in quando rinfrescarsi
le labbra riarse con qualche gocciola d’acqua pura. E si trovaron
ancor più attratti l’un verso l’altra dalla passione che avevano per
la musica, entrambi. Ella suonava il piano con uno squisito calor di
sentimento; egli, curvo su l’arco del violino, curvo su lei, tra il
profumo delle sue treccie, l’accompagnava. Nella sala quasi buia,
tra il volo delle note, sentivano roteare intorno il vortice della
tentazione, piovere nelle pause ambigue il velo d’un incantamento.
Talvolta, nel muoversi, nello scuotere leggermente il peso delle sue
treccie all’indietro, ella incontrava e toccava il suo braccio, con
paura; talvolta il respiro dell’uomo curvo le passava sul collo ignudo,
avvolgendola tutta in un freddo e lento brivido. Fra i due candelabri,
nel riflesso dell’ebano, pur senza volgersi ella vedeva la faccia di
lui, tormentata, piena d’una rabbia virile, che le dava una sensazione
fisica estremamente voluttuosa.
Passarono tutta la musica da camera che potè mai essere scritta per
il martirio degli innamorati, e qualche volta, mentre le sue mani
trasparenti correvano veloci su la tastiera, l’archeggio del violino
s’interrompeva di súbito, ed una bocca bruciante le cercava, il collo,
tra le radici dei capelli, con una voglia rabbiosa di mordere. Qualche
volta lo vedeva in ginocchio, supplice come un bimbo.
Le sue vestaglie di seta facevano appena un morbido fruscìo d’ala, nel
fuggire. Poi, nell’altra stanza, rideva, rideva, con la gola piena...
Dirgli di sì... come sarebbe stato facile! Ma forse avrebbe interrotto
quell’incanto, ed ella non voleva. Viziata, snervata, appassionata, era
questo l’amore che a lei piaceva.
Ma una sera che le tende gonfie lasciavano entrar la primavera, i
candelabri si spensero in un soffio d’aria, le rose aperte nei vasi di
cristallo stormirono come se fossero su le spalliere...
Veniva dalla strada un rosso riverbero di lampioni, disperso
nell’azzurra luce della notte primaverile; veniva di tempo in
tempo qualche scalpiccìo di passanti, qualche fragore di ruote che
lontanavano, qualche risata.
Allora, d’improvviso, con rabbia, egli si piegò su lei, cercò la sua
bocca innamorata, bevve il suo più gonfio respiro, la sua crudeltà più
forte, che traboccava in un riso convulso...
Le tende gonfie di profumo soffocarono il lor grido d’amore, lo
confusero nel vento soave con la fragranza delle rose, lo dispersero
via, nella notte, fra le musiche della primavera...
* * * * *
I
Trascorsero due lenti anni. Nel crocchio d’amici, fermi su l’angolo
della bottiglieria, si parlava immutabilmente di donne, di giuoco,
d’amore.
Sul marciapiede opposto una giovinetta passò, con un’andatura svelta,
con qualcosa di simile alla cingallegra nella sua fresca giovinezza,
movendo entro la gonna succinta l’onda mutevole del suo corpo.
— Chi è quella ragazza? — domandò il marchese di Sant’Urbino,
additandola al crocchio degli amici.
— Bellina! — disse Cesare Farra, che amava d’ogni frutto le primizie
immature.
— Pare una piccola vespa! — commentò Lanzo Malatesta, maneggiando per
celia la sua mazza come una sciabola, da quell’abitudine ch’egli aveva
di celiatore e di schermidore.
Totò Rígoli avanzò di qualche passo fuor dal marciapiede per ravvisarla
meglio.
— To’!... se non erro, dev’essere la verginella che sta per cascare
con Rafa Giuliani. L’ho veduta una sol volta, però la riconosco. È un
amore!
Già lontanava. Di lei distintamente non si vedeva più che la bella
capigliatura, d’un vaporoso color biondo.
Sacco Berni fece una smorfia; qualche volta gli piaceva proverbiare;
disse:
— Stretto passaggio, si paga il pedaggio.
— Ma Rafa è molto ricco, — notò Giorgino Prémoli. — A queste inezie
Rafa non bada.
— Poi dev’essere innamorato cotto! — proseguì Franco Spada. — Rompe i
timpani a tutti con le sue confidenze. Non sapevo che fosse per quella
lì. Graziosa. Ma mi sembra un poco mal vestita. Che fa? La sartina?
— Dev’essere una ragazza onesta, ma figlia d’un cornuto, — sentenziò
il Rígoli. — Perchè i padri legittimi non riescono mai a farle così
belline. Vi pare? Quanto poi a rivestirla con eleganza provvederà il
buon Rafa... Eccolo appunto! E guardate come corre!
Il Giuliani passava su l’altro marciapiede, camminando in fretta. Lo
chiamarono, ma non rispose.
— Corri, corri, che sei in ritardo! — gli gridò dietro Sacco Berni. — È
passata or ora.
— Io delle vergini ho paura, — disse gravemente Giannotto Pigna, —
perchè molte volte attaccano la sifilide...
La marchesa di Versano passò in quel mentre, nella sua carrozza
scoperta, con la pariglia del sauro e del grigio, due superbi
trottatori. Molti si levarono il cappello, inchinandosi profondamente.
— L’aborto non le ha fatto male, — osservò il Rigoli. — Si è rimessa
molto presto. Ma il Commendatore ha certo avuta una bella paura...
Alcuni, poich’eran amici di casa, si astennero dal ridere.
— Totò, la conosci la vergine di Rafa?
— Io no.
— E allora come sai ch’è una ragazza onesta?
— Me lo ha confidato Rafa.
Sopraggiunse il conte Anatoli, con un abito nuovo, che gli stava
malissimo. Era famoso per la sua eleganza ridicola. Molti si misero a
burlarsi di lui, cosa che in fondo lo lusingava.
— È una vespa, ma è carina, — ribattè Lanzo, al quale non poteva
uscir dal capo. E domandò al Pigna, uso a piantonare per lunghe ore
quell’angolo:
— Passa ogni giorno qui?
— No, quasi mai.
Il del Ferrante, la notte innanzi, aveva vinto al Circolo trentamila
lire. Quando giunse fu assai complimentato e gli fecero narrare i
particolari della bella partita. Ma in quel punto scese di vettura la
Tita Borsani, che si era data modestamente il nome di Tita La Vallière
per miagolare nei teatri di varietà. Aveva, tempo addietro, avuto un
capriccio per il del Ferrante, e non appena lo scorse, poichè doveva
passare frammezzo al crocchio, lo prese per il braccio dicendogli con
una certa ostentazione:
— Venite ad offrirmi una tazza di tè.
Il del Ferrante, con l’aria d’un uomo che ubbidisse a malincuore,
l’accompagnò nella sala. Molti altri li seguirono.
— E così che tenete le vostre promesse? — disse ad Arrigo la signorina
La Vallière, non appena furono seduti. — V’ho aspettato ieri e l’altro
ieri. Aspettato per modo di dire: cioè sono rimasta in casa.
— Piccola Tita, sai bene che avevo detto: forse...
— Perchè mi dài del tu, scusa? — ella interruppe con impertinenza.
— E tu?
— Ah, va bene!
— T’è passata l’ubbriacatura? — le fece uno, avvicinandosi.
— Sciocco! — ella rimandò con un bel riso. — Ti pare che avessi bevuto
iersera?
— Se mi pare? T’ho messa in carrozza di peso per ricondurti a casa, e
se fossi venuto fin sopra, giuro che non te ne saresti nemmeno accorta!
— Oh, di te, pare che sia molto difficile «accorgersi...» — ella fece
ridendo.
L’altro non disse nulla, ma sembrò che la celia non gli garbasse
affatto.
— Dunque ti sei messa a bere? — le domandò Arrigo, non appena quegli si
fu allontanato.
— Ma no! Ieri notte mi hanno fatta bere per forza. Quel terribile
Mumm... Su, versami il tè. Perchè mi guardi? Cosa pensi?
— Penso, cara Tita, — egli disse affettuosamente, — che ci siamo quasi
quasi voluti bene una volta, e ciò mi rattrista, perchè io provo sempre
una grande malinconia pensando alle cose che sono passate, alle cose
che non possono...
— ... tornare più! — ella fece, seria, nel sorridere.
— Volevo dire: che non posso continuare sempre.
— Fate un po’ di sentimento, ora? — domandò il Rígoli che s’era seduto
alla tavola vicina.
— Sì, per ridere... ed anche per farvi ridere! — esclamò la Tita, con
un accesso d’allegria. Ma i suoi grandi occhi neri, offuscati di nero,
un po’ sciocchi forse nella loro bellezza, non sapevano celare una
certa inquietudine, una certa sensibilità quasi timida, nel guardare il
giovine dallo sguardo vellutato, dalla bocca aspra, che le mesceva ora
il tè fumante e pareva considerarla come un piccolo trastullo.
— Non ti si vede più, — ella disse al Ferrante, sottovoce. — Che fai?
— Molte cose. — Poi, con un gesto vago, ripetè: — Molte cose.
Ella lo guardò attentamente:
— Sei divenuto un posatore.
— Quei due si rifanno la corte! — annunziò allora un de’ vicini, che
aveva udito. — Siete ben noiosi!
— Sapete che purtroppo, — ammise ridendo la Tita — ho sempre avuto un
tenero per Arrigo.
— Questo non ci riguarda, — ribattè Sacco Berni. — Del resto Arrigo non
è libero e perdi il tuo tempo. Io sono invece liberissimo, se vuoi.
— Tu?... No, grazie! Tu sei un uomo prosaico, sboccato e pieno di vizi.
Per innamorare le donne ci vuole sempre un poco di poesia.
Ella inzuppava un biscotto nel tè, afferrandolo in fretta con le
labbra, perchè non si spezzasse.
— E del resto, — continuò, — se non è libero, cosa m’importa? Io non
gli domando niente. Gli dicevo anzi ch’è diventato un posatore.
Sopravvenne il Malatesta, con il cappello messo all’indietro,
l’occhialetto insolente, stringendo fra le dita la mazza flessibile,
che faceva roteare. Disse ad Arrigo:
— Tu, che sai tutto in fatto di donne, sapresti per caso dirmi chi è
la ragazza alla quale corre dietro Rafa Giuliani? È passata poco fa: mi
piace.
— Non l’ho veduta, — rispose Arrigo. — Non so nulla di nulla.
— Se Rafa le corre appresso, ti consiglio di lasciarla stare, — osservò
la Tita, piena di buon senso. — Rafa è troppo ricco.
— Ecco la donna venale! — esclamò il Malatesta con un riso gaio.
Era un autunno di sole; nei parchi e nei giardini ove andava la piccola
vespa tutte le foglie non eran cadute ancora.
II
In media una volta ogni mese il farmacista Riotti capitava in casa
d’Arrigo, dandosi l’aria d’un uomo risoluto a qualche passo estremo,
tutto gonfio di spiriti oratorii e pieno di burbera tracotanza, come
chi sa di propugnare invanamente una causa giusta.
Perchè l’ira gli sbollisse, Arrigo lo faceva attendere un buon quarto
d’ora, poi gli andava incontro con la sua disinvoltura d’uomo gioviale,
tendeva al farmacista la sua mano risfavillante d’una grossa pietra,
dicendogli:
— Buongiorno, carissimo Riotti; come va?
L’altro borbottava qualcosa, ch’era un mezzo saluto, profferito in
luogo e vece d’una ingiuria.
— Sedetevi dunque! Che buon vento vi mena? Oh, là là... State bene,
vedo. Una cera da principe! Novità?
— Signor Arrigo, meno chiacchiere! Io vengo, lo sapete bene, per la
solita faccenda.
— Cioè?... Ma sedetevi, dunque! Toglietevi il cappotto, che diamine!
Come sta mio padre? È un pezzo che non lo vado a trovare. Come sta? E
la mamma?
— Se non son morti ancora, con un figlio come voi, vuol dire che hanno
la pelle dura!
— Dunque stan bene. Meglio così.
Ma intanto il Riotti, curioso, indiscreto, cominciava con lanciare
un’occhiatina per intorno. Il salotto gli piaceva; gli sarebbe
estremamente piaciuto che tutto questo appartenesse a sua figlia, cioè
a lui. Si sbottonava il soprabito, rimanendo nel viso più arcigno
che potesse. In fin dei conti la spavalderia di quel Rigoletto, a
lui familiare sin da quando era bambino, superava il suo buon senso
borghese, lo sbalordiva un poco, gli dava quasi quasi una certa
soggezione.
Arrigo gli metteva sottomano la scatola de’ sigari — una scatola
d’argento martellato, con le cifre in oro — ed il Riotti tastava la
scatola in ogni senso prima di mettersi fra i labbri uno di quegli
Avana lunghi e panciuti, che col loro fumo gonfio di sapore davano
al suo cervello certe deliziose sensazioni esotiche. Poi Arrigo si
alzava con premura per versargli un bicchierino di quel suo vecchissimo
«Curaçao», che sapeva di fiori d’arancio, e gli lasciava presso la
bottiglia nettarea, tappandola bene perchè non isvanisse.
— Dunque, le nozze? — interrompeva bruscamente il Riotti, per tagliar
corto a tante cortesie.
— Ah... le nozze! A proposito, come sta l’Eugenia?
— Bene, bene... ossia, come può stare una ragazza ne’ suoi panni.
— Insomma sta bene anche lei; meglio così!
— Sentite, Arrigo, finiamola con gli scherzi! So che adesso appartenete
al bel mondo, siete sempre fra conti e marchesi, ricevimenti, pranzi,
amanti, e che diavolo so io; ma per me non conta; la parola data non si
ritratta, a meno d’essere... a meno d’essere... insomma io v’ho visto
bambino, e certe cose ve le posso ben dire!
Arrigo lo aveva sempre tenuto a bada con qualche vaga promessa; ma una
volta finalmente perdette la pazienza.
— Bene, sentite, — gli rispose. — Io mi sono avveduto di una cosa: che,
per prender moglie, ci vuole la vocazione. Io non l’ho. È triste, ma
non l’ho. Non me n’ero accorto finora, ma non l’ho!
— Che c’è di nuovo adesso? — era scattato su il Riotti.
— Sicuro; e volete che ve lo ripeta un’altra volta? Non l’ho! Anzi
vorrei darvi un buon consiglio. Cercate di coltivare qualche altro
partito per vostra figlia, perchè, se aspetta me, credo che le
spunteranno i capelli bianchi.
Il Riotti sgangherò la bocca, come se volesse buttarne fuori la più
orrida bestemmia, ma non diede che una specie di enorme sbuffo mentre
le sue guance divenivano paonazze.
— Ah, davvero?!... È così? è così? dopo quel che c’è stato?!
— È così, mio caro, è proprio così.
E gli aveva urbanamente volte le spalle, ritirandosi nelle stanze
interne dell’appartamento e piantandolo in asso nel bel mezzo di quel
salottino elegante, ove, dopo alcuni minuti, il domestico venne ad
avvertirlo che s’aspettava gente, sicchè facesse il piacere d’andarsene
via.
Il Riotti, sbraitando, se ne uscì. Ma corse a gettar fuoco e fiamme
nella retrobottega del povero Ferrante, ch’era l’uomo più paziente del
mondo.
In quella retrobottega erano successe varie cose, da quando Arrigo non
vi abitava più.
L’occhialaio s’era di molto invecchiato, ed a forza di montar lenti per
gli occhi altrui s’era fatto miope a sua volta. Chi faceva prosperare
il negozio era piuttosto il figlio Paolo, un buon ragazzo, modesto,
economo e mediocre. La figlia maggiore, Luisa, s’era maritata col suo
droghiere benestante; aveva già un figlio ed era incinta d’un secondo.
Era divenuta grassa oltre il prevedibile; viveva solo per le cure della
sua famiglia nuova.
Ma invece la minore, Anna Laura, Loretta, era il grattacapo dei due
vecchi genitori. S’era fatta più che mai bellina, d’una bellezza un
po’ sfacciata e provocante; si profumava, s’incipriava, si vestiva di
fronzoli, civettava, cicaleggiava, era vispa, furba e graziosa come un
furetto.
Di sposarsi, lei, non ne voleva sapere; quanti partiti le capitavano,
tanti ne mandava in fumo. Aveva, per quella mediocre vita plebea, lo
stesso odio che il fratello Arrigo, e ad ogni scena che le facevan i
genitori minacciava di andarsene come lui, per vivere alla ventura.
Liberatosi a quel modo del Riotti, Arrigo ebbe una sera la curiosità di
rivedere i parenti e sapere qual effetto avesse prodotta in famiglia la
sua dichiarazione esplicita in merito al fidanzamento.
Vi andava rarissime volte, e sempre in vettura chiusa, perchè a nessuno
potesse mai accadere di vederlo bazzicare in quel suburbio. Ora, nella
sua casa, tutti avevano in lui quasi un rispetto diffidente e timoroso.
Quella sera la famigliola pranzava. La luce elettrica, messa da pochi
mesi, rischiarava la piccola retrobottega, e, per un’abitudine antica,
pranzavano lì, sebbene avessero al pian di sopra una saletta ben
mobiliata.
Donna Grazia, nel trascorrere di quei lenti anni, s’era fatto un po’
dura d’orecchio, s’era presi certi malanni reumatici che le davan noia.
Come donna di casa valeva molto poco; tutti i suoi meriti si riducevano
a saper preparare, insieme con la domestica, certe minestre sostanziose
che odoravano per l’intero vicinato. Lui, Stefano, un po’ più curvo,
un po’ più calvo, era sempre il medesimo; gli mancavan ora due denti
incisivi, il che dava al suo bigio volto una malinconica espressione di
vecchia bestia malata. Paolo era un ragazzotto piuttosto incline alla
corpulenza, con il cranio tondo come un cocomero, due occhietti buoni e
scialbi, le linee del volto precise come quelle del fratello, ma un po’
inselvatichite.
Fra quei tre tipi grossolani, ciò che formava un singolare contrasto
era la figurina leggiadra di Anna Laura, con la sua torricella di
capelli ben pettinati, con i suoi abiti quasi eleganti e la squisita
grazia di tutto il suo corpo, che dava la fresca e odorosa impressione
d’un bocciolo di rosa.
— Buon appetito a tutti! — aveva detto Arrigo, entrando.
Gli avevan ricambiato il saluto con una esclamazione di sorpresa, pur
senza interrompersi dal pranzare; tranne Loretta, che s’era levata
in piedi e gli era corsa incontro buttandogli le braccia al collo e
ridendo con un’allegrezza infantile ma un po’ sguaiata.
— Oh, Arrigo! Arrigo! finalmente... — esclamava.
— Come va? — disse il padre, asciugandosi il mento gocciolante.
— Bene, bene, — rispose Arrigo, accarezzando il braccio della sorella e
tendendo l’altra mano al padre. — Veramente bene.
Poi si chinò verso la madre per baciarla sui capelli.
— Non pare nemmeno nostro figlio! — ella osservò bonariamente,
traducendo l’impressione spontanea che provava nel guardarlo.
— Buona sera, Arrigo, — fece il fratello senza gran che scomporsi.
— Di’: se tu volessi per caso una cucchiaiata di minestra... — offerse
il padre quasi con vergogna.
— Eh, sì, ti pare! — esclamò Loretta, che invece di rimettersi a tavola
gli farfalleggiava intorno, — ha proprio bisogno dei nostri pastoni,
lui!
— Taci tu! — rimbrottò Paolo. — Per una volta ogni tanto si potrebbe
anche degnare.
— E perchè no? — fece Arrigo. — Non ho pranzato; ho fame, e la minestra
manda buon odore. Su, presto, una sedia e datemene una fondina.
La famigliola si guardò con sorpresa, ed avvenne un piccolo trambusto,
per far posto al primogenito che sedeva alla mensa familiare. Le facce
dei due vecchi si rischiararono.
— Qua, vicino a me allora, — disse Loretta; e si mise a servirlo ella
stessa, con le sue manine svelte, ben curate, che uscivano fuor dai
pizzi d’una leggiadra camicetta. Per lei quel fratello estraneo, così
pieno di signorilità, così diverso da tutti quelli che bazzicavano in
quella bottega, era quasi un corteggiatore, quasi un amante.
E il padre a dire:
— Be’, Arrigo, e gli affari come vanno? È un pezzo che non ti ricordi
più di noi.
— Me la cavo, rispose il figlio. — Non ho fastidi in questo momento.
Anzi, se vi abbisognasse qualcosa, dite pure.
— Sì, a me! — saltò su Loretta, con un fare civettuolo, che le stava
bene. Il fratello la guardò, la guardò con il suo occhio esperto, che
involontariamente pareva quasi apprezzarne il valore.
— Sei bellina, sai! — fece d’un tratto. Poi soggiunse: — Allora cosa
desideri?
— Quel certo collo di pizzo che una volta mi avevi promesso...
Arrigo si cercò nelle tasche e ne trasse un involto.
— Eccolo qui, — disse. — Vedi che non dimentico.
La ragazza diede un piccolo sobbalzo su la sedia, disfece l’involto, e
veduto il pizzo che ambiva, gli occhi, per la gioia, le si fecer lustri
e cominciò ad abbracciare il fratello tra continui scoppi di riso.
— Ve’, che buona cipria adoperi! — disse Arrigo, sentendo l’odor fresco
delle sue guance. — Chi te l’ha data?
— Eh, quella lì!... — fece Paolo, senza levare il viso dal tondo, con
un’aria di sottinteso.
— Quella lì! quella lì!... — rimbeccò Loretta contraffacendo la sua
voce. — Cosa vuoi dire?
— Quella lì, — riprese Paolo, caparbio, — è tutto il giorno in giro dai
parrucchieri e dalle sarte. Si schiaccia il naso contro le vetrine; non
ha in mente che il suo specchio.
— Stupido! — sibilò Anna Laura, stizzosa come una viperetta. E la sua
faccia divenne cattiva.
— E per te papà, — fece Arrigo, risolvendosi ad interrompere quel
battibecco, — per te ho portata una pipa di schiuma. Guarda se ti
piace, se no te la cambio.
Gli tese un astuccio ricurvo, contenente la pipa istoriata, con il
bocchino d’ambra.
— Maraviglia! maraviglia! — esclamò il vecchio, lasciando cadere il
cucchiaio. La guardò per ogni verso, la tastò quasi con religione:
— Maraviglia! — Poi la trasse fuori dall’astuccio e la mostrò alla
moglie.
— Per Dio! — esclamava. — Chissà cosa l’avrai pagata!
E senz’asciugarsi la bocca se la prese tra i denti.
— Sembra la pipa d’un signore con attaccato un portinaio! — disse
ridevolmente Loretta, che si provava il suo collo di pizzo. Arrigo
intanto mangiava ghiottamente, a piene cucchiaiate.
— Che minestra, mamma mia! Che minestra! Era un secolo che non avevo
gustato qualcosa di simile!
— Ti piace? — domandò Anna Laura con una smorfia.
— Per bacco! E datemene ancora!
La vecchia madre, tutta confusa dal complimento come se le venisse da
un estraneo, prese la fondina del figlio, la riempì di nuovo e gliela
porse.
— Nei ristoranti dove tu vai devi mangiare ben altra roba, — fece, come
per iscusarsi.
— Eh, no mamma! Dopo tutto, una buona minestra fatta in famiglia è
ancora la cosa migliore.
— Bravo, Arrigo! Dillo un po’ alla Loretta, che tira sempre su il naso!
— intervenne Paolo. — Per lei ci vogliono le pernici!...
— Tu mischiati dei fatti tuoi, fammi il piacere! — gli rispose con
dispregio la ragazza. E versò ad Arrigo un bicchier di vino; un buon
vinetto onesto, che sgorgava dal fiasco a piccoli fiotti con uno
scintillìo di rubini.
— Buono, — fece Arrigo, assaggiandolo. — Ma voi vi trattate da principi!
— Ci vuoi prendere in giro, eh? — disse con indulgenza il padre, ch’era
commosso per la sua pipa.
— Io? Tutt’altro! Come volete che vi prenda in giro? Dopo tutto non
sono forse in casa mia?
Gli faceva bene al cuore quel po’ di riposo familiare in mezzo alla sua
vita piena d’infingimenti e di scaltrezze.
— Questo sempre, — gli rispose il padre. — Ma ci stai così poco tu, che
deve parerti una casa di forestieri.
La domestica, tutta rossa per la visita del signor Arrigo, portava
in tavola un piattone grande, su cui c’eran manzo lessato e certe
costolette di maiale che ancor scricchiolavan nel burro in cui s’eran
cotte. In mezzo torreggiava un gran mucchio di patate, messe male,
ma appetitose. Giovanna, la serva goffa e timida, borbottava che, se
l’avessero avvertita prima di quella visita, avrebbe fatto andare un
pollo.
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