Colei che non si deve amare: romanzo - 14

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in cui la madre ricorda la sua prima carezza. Per lungo tempo la sua
seggiola era rimasta lì, davanti al posto vuoto, al tovagliolo di
bucato chiuso nell’anello d’alluminio, quasi ch’egli potesse tornare di
pasto in pasto; e non tornò. Poi se n’era andata la sorella maggiore,
a farsi un’altro focolare, con altri affetti; ed ora manifestamente si
allontanava l’ultima, quella che per ultima aveva allietata la casa de’
suoi strilli, quella che ai vecchi ricorda più da vicino la giovinezza
ed è come l’ultimo fiore d’un albero laborioso, il più fragile ed il
più bello.
Se ne andava, e restavan i due vecchi ad ingoiare amaramente il cibo
greve, con un figlio taciturno, che forse rimaneva, solo perchè sentiva
il possesso, l’eredità della casa, scendere nelle sue mani tenaci.
Tra il fumo della minestra questi pensieri salivano alla mente dei due
vecchi, e rivedevano essi forse quella lor stanza d’un tempo, quando
intorno alla tavola quadrata c’erano quattro testoline di bimbi, e
bisognava gridare, faticarsi, lavorar più duramente, ma ciò non era
molesto, se ad ogni tratto una vocina limpida si levava dalla nidiata
per chiamare: papà, mamma! con quell’accento infantile in cui trabocca
l’istintivo amore.
E pareva che, guardando Arrigo, entrambi gli dicessero mutamente: «Sei
stato tu! sei stato tu!»
— Non la ricondurre troppo tardi, — la madre disse ad Arrigo. Ed il
silenzio tornò nella stanza, rotto appena dal rumore che i cucchiai
facevano battendo le stoviglie sonore.
Quando Arrigo e Loretta si trovaron nella strada, soli, e si
guardarono, la colpa ch’era già entrata nelle lor vene li soverchiò
entrambi di dolcezza e di paura. Non osarono parlarsi a tutta prima.
Loretta prese il braccio d’Arrigo e s’avviarono lungo il marciapiede,
fra la gente folta, a passi frettolosi. Il rumore della contrada li
stordiva; quello stordimento era per entrambi delizioso.
— Dove andiamo? — domandò infine Loretta.
— Camminiamo. Ancora è presto, — egli rispose con una voce assorta.
La serata era dolce, un po’ snervante, piena di languori. Navigavano
per l’aria quasi ferma certe larghe ondate di vapori biondi, che
oscillavano vicino ai tetti e salivano alte nello spazio, facendosi più
rare, più tenui, fino alle prime stelle. In quella vaporosa pigrizia
dell’aria i vasti romori delle cose parevano accrescersi d’una maggiore
sonorità. Tutto quanto aveva un’anima, reale o fittizia, era nella
pienezza della sua vita; ogni cuore si sentiva spinto a desiderare più
in là di sè stesso.
Avevano da poco acceso i lampioni, che splendevan d’una luce quasi
azzurra sotto il cielo ancora intenso di trepidazione solare; alcune
finestre chiuse raccoglievan nelle vetrate i fuochi e le raggiere del
tramonto.
— Com’è bello camminare a quest’ora, — disse Loretta al fratello,
serrandogli fin poco il braccio, su cui pesava.
— Ti piace? — egli domandò, trasfondendo in queste due parole così
brevi tutta la dolcezza che gli traboccava dall’anima.
— Sì, mi piace; con te mi piace. — E dopo una pausa continuò: — Sai?...
ho tremato tutto il giorno....
— Perchè hai tremato?
— Pensavo che tu verresti... — ella confessò, piegando il viso.
Egli ebbe un movimento nervoso e disse:
— Era meglio dimenticare.
— Ah, no!
In quei pochi minuti ch’eran vicini si sentivano già presi, avvinti
l’uno all’altra, e soffrivano e godevano d’una gioia ch’era dolore.
Stavano bene insieme: lei bionda e sottile, armoniosa; lui, con la sua
persona elegante, con il suo passo franco. Molta gente si voltava a
guardarli.
Giunsero nelle strade più centrali; Arrigo le disse:
— Non mi dare il braccio. — Ella obbedì senza rispondergli; ma gli
rimase vicina.
Entrarono da un fiorista a comprare fiori; poi, camminando, si
fermavano a guardare i negozi dalle mostre scintillanti. Arrigo
salutava molta gente. Loretta ogni volta gli domandava: — Chi è?
Allora egli diceva un nome, una frase che dipingesse la persona, uno
di quei riassunti schematici ed incisivi che valgon meglio d’una lunga
biografia.
Un tale: — si fa chiamare avvocato, ha una bella moglie, sua moglie ha
un amante ricco, egli lo sa.
Un altro: — ha dovuto lasciar l’esercito per debiti; a teatro prende
solo il biglietto d’ingresso e fa visite in tutti i palchi; la notte
gioca, e vince sempre.
Un terzo: — ha una scuderia da corse che gli costa cara, ma dicono che
faccia anche l’usuraio, così riesce a pagarne le spese.
E via di séguito.
Su lo stesso marciapiede passarono due donne elegantissime, provocanti.
Vedendo Arrigo gli sorrisero; Arrigo, a sua volta, non salutò, ma
sorrise. Restò dietro i loro passi un lungo solco di forte profumo.
Loretta si rivolse a guardarle; domandò:
— Le conosci?
— Sì.
— Chi sono?
— Quella di destra era una mima: adesso è mantenuta da Rinaldo Bastìa,
un fabbricante di cornici, padre di quel Bastìa che s’è ammazzato pochi
mesi or sono. L’altra è una che vive di rendite... rendite giornaliere,
quando ne trova.
— Sono due belle donne.
— Peuh, non c’è male!
— Perchè ti hanno sorriso a quel modo?
— Che modo?
— Non saprei; come se avessero qualcosa da dirti.
— Non saprei; per abitudine forse.
— Sei stato amante anche di quelle?
— Amante no; ne ho conosciuta una, la mima, qualche anno fa.
Loretta rimase un momento a riflettere, poi disse;
— Ma che piacere provi tu nel cambiare tante donne?
Arrigo si mise a ridere.
— Lo stesso piacere, — disse — che voi donne provate a cambiar d’abiti.
La sorella non fece altri commenti.
Dopo aver taciuto qualche tempo, e quasi di malumore, disse:
— Io, per esempio, se avessi un amante, sarei molto gelosa.
— Ah, sì? — esclamò Arrigo, guardandola. — E cosa faresti?
— Non so cosa farei; credo non sia possibile saperlo prima, ti pare?
Poi gli domandò ancora:
— Le amanti che hai avute eran gelose di te?
— Sì, tutte! — egli fece con spontaneità.
— E tu?
— Io?....
Di nuovo guardò la sorella, attentamente, lungamente, poi le riprese il
braccio, poichè la dolce ora del crepuscolo andava mano mano facendosi
buia. Le confessò:
— Vedi, per ingelosirsi, bisogna essere innamorati. Io, veramente, non
lo sono stato ancor mai.
Ella gli fu riconoscente di questa risposta e n’ebbe una gioia
visibile, pur tacendo.
Andarono avanti, attraversarono una piazza, presero un’altra via.
— Come sarei contenta se tu volessi bene a me... — diss’ella, piano,
chinando la faccia, per nascondere la bocca che profferiva quelle
parole.
— Ma te ne voglio, Lora, — egli rispose.
— No... dev’essere un’altra cosa... non lo diresti così.
— Come dovrei dirlo?
— Niente, non dire niente.
Ella improvvisamente si sentì piena di tristezza; nella sua voce
tremava quasi un dolore.
— Vuoi che andiamo a pranzo? — domandò Arrigo.
— Andiamo.
— Ti condurrò in una trattoria che non conosci; è fuori di porta, in
mezzo alla campagna, e le tavole sono in giardino. Vuoi?
— Sì, Rigo.
Salirono nella prima vettura che trovarono, senza badare al vetturino,
che, malcontento della corsa troppo lunga, non cessava dal bestemmiare
tra i denti. Piano piano, su gli aspri ciottoli, il cavalluccio
cominciò a trottare.
Ora qualche strato di nebbia rosea intorbidava la trasparenza del
cielo; pioveva per intorno una chiarezza pervasa d’ombre; lungo una
strada fiancheggiata d’alberi li investì, li ravvolse, li inebbriò, il
profumo dei tigli che fiorivano.
Loretta si era tolto un guanto, aveva preso una mano del fratello ed
intrecciava le dita nervosamente nelle sue.
— Ho quasi voglia di piangere... — confessò con una voce tormentata.
— Perchè, Lora?
— Non so... non so; oppure non te lo posso dire...
— Non dire niente, Lora, ma non piangere, — fece Arrigo, tentando con
ogni sforzo di reprimere la sua commozione. E le carezzò la mano.
— Perchè mai non sono più allegra come l’altra volta?
— Invece devi essere allegra! dobbiamo ridere! Non pensare ad altro.
Ella si tese a lui come per fargli conoscere il suo amore.
— Vorrei che tu mi volessi bene... — disse di nuovo, tutta fremente,
in un bisbiglio. — Ma invece questo non può essere... È vero che non si
può?
Egli le rispose con serrarle una mano, e, turbato, non aggiunse parola.
— Senti, — fece Loretta, — spiégami una cosa. Perchè io, che sono tua
sorella, voglio bene a te?
— Taci, non dire così.
— Ma è vero! Se fosse una cosa brutta, come pare a noi, essa non
accadrebbe. Invece, vedi, tutto quello che potrei sentire per un altro,
per un estraneo, lo sento per te. Mi fa male, molto male...
— Loretta, mia Loretta... — egli mormorò con una trepidazione paurosa.
— No, sii buono, voglio parlare, voglio parlarne con te.
Lasciò la sua mano, e raccostatasi a lui, gli sfasciò, gli ravvolse il
braccio con il suo braccio morbido.
— Questo amore mi ha presa tutta in un momento... prima non lo sapevo.
Si protese a lui, così che gli moveva sul fiore della bocca i riccioli
della sua fronte bionda, e pregò sottovoce:
— Dammi un bacio... piano, piano... Fa buio, nessuno vede...
Le loro bocche innamorate s’incontrarono, godettero tutto il dolore del
male che li struggeva.
E andarono via lentamente, al trotterello del cavallo stanco, per
corsìe diritte, per strade oblique, per vicoli tortuosi, penetrando
nel dedalo della città crepuscolare che or si costellava di lumi, come
un immenso naviglio fermo su l’ancoraggio notturno. Quando furono di
là dalle barriere, nelle zone del suburbio che quasi non conoscevano,
parve ad entrambi d’esser giunti assai lontano da quella grande ostile
città che li teneva prigionieri, sottomessi al divieto, e parve loro
d’esser come due sconosciuti per una terra quasi straniera, liberi
finalmente dalle intollerabili sorveglianze altrui.
Nella dolce serata primaverile il suburbio era spesso di gente, uscita
fuori da’ formicolai di cinque piani o dalle piccole decrepite case,
per gremir la strada con tutte le figliolanze, dopo le parche cene.
Era vigilia di festa, un sabato sera; le comitive inauguravan per
ogni contrada l’allegrezza del giorno domenicale. Le trattorie, le
taverne, le sorbetterie riboccavan di gente, assiepavan di tavolini
il marciapiede popoloso. Alle porte dei teatri e dei balli suburbani
s’addensava una baraonda irrequieta levando alto il frastuono della sua
tumultuosa ilarità.
Su l’ingresso dei cinematografi, sfavillanti d’una luce quasi violetta,
gli strilloni dalla tunica o verde o rossa, dalla voce rauca, dalle
maniere ciarlatanesche, alternavan le lor grida strabilianti adescando
la folla con manifesti atroci e cartelli sanguinolenti come il paniere
del boia.
Ogni tanto una chitarra sbucava da una contrada buia, un fonografo
urlava la sua canzone asmática, un bambino picchiato strillava da una
portineria, come un’anima dannata.
E il cavalluccio trottava; il cavalluccio insensibile ai tepori
della primavera, ugualmente stracco e rassegnato nelle intemperie
dell’inverno come nelle canicole dell’estate, zoppiccava sul sasso
nemico, piano piano, con quella irremovibile filosofia che vien dopo
la disperazione; povera vecchia macchina fatta d’ossa e di dolori,
indifferente alle stratte, alle frustate, alla premura de’ clienti,
quasichè sapesse ormai che tutto il suo destino era di camminare, a
forza d’inciampi e di asma, piano, ma camminare.
La campagna vicina mandava tra l’ultime case qualche odore agreste,
e già compariva tutta sgombra, quasi ravvolta in un’aria violacea,
per le contrade laterali che non erano più selciate. In una d’esse il
vetturino svoltò.
— Non sono mai venuta fin qui, — disse Loretta. — Sembra d’essere in
campagna; senti che buon odore!
Avevano falciato qualche prato là intorno; i mucchi dalla fienatura
odoravano di fragranze vegetali nella sera primaverile. Anche il
ronzino, a quell’odor di maggengo saporito, pareva sentirsi dilatare
nei fianchi magri l’anima ingorda, e puntava più forte. Il vetturino si
cacciò un mozzicone di sigaro fra i denti e prese a canticchiare; con
la frusta schioccante accompagnava la sua monotona cantilena. Questo
fece ridere Loretta.
— Com’è buffo! — disse piano al fratello. E gli si accostò, con una
piccola risata, che gli diede in faccia il suo fresco respiro.
Egli non parlava; una specie di torpore, una sensazione mai conosciuta
fasciava dolcemente il suo spirito comunicandogli una stanchezza
fisica, una specie di sensuale abbattimento. Per una breve ora gli
piaceva scordare che la sua piccola compagna, colei della quale era
dolce sentirsi il braccio sotto il braccio ed il respiro nel viso,
fosse la sua medesima sorella, uscita dal grembo medesimo che aveva
data la vita, nutrita con lo stesso latte, cullata nella medesima cuna:
la figlia del suo padre e della sua madre, la sorella germana.
Egli aveva nel medesimo tempo un immenso orrore, un orrore
inconsapevole, di sè stesso, e in ciò trovava nondimeno la sua più
forte voluttà. Gli piaceva udirla parlare; quella voce, che gli pareva
di non aver conosciuta mai per l’addietro, gli entrava sin nell’intimo
del cuore prodigandogli quasi una lenta ed affaticante carezza. Ch’ella
dicesse di amarlo, ch’ella osasse dirgli che lo amava, che il suo
desiderio gli fosse così palese, così pronto a lasciarsi cogliere,
ch’ell’avesse un bisogno quasi malato di fasciarsi intorno alla sua
persona e fargli sentire la trepidazione delle sue morbide membra ancor
intatte, ch’ella parlasse a lui come al suo primo innamorato... tutto
questo lo stordiva, lo tentava, lo inebbriava, metteva nel suo cuor
forte una pulsazione veemente, nelle sue vene concitate un brivido
quasi di terrore, ne’ suoi nervi rudi una specie di tormento, del quale
assaporava con lentezza tutta la perversità.
In lei veramente era il possesso vietato, era la gioia che non doveva
conoscersi, era il delitto e la somma voluttà.
Quand’ella gli parlava d’amore, avrebbe voluto a sua volta,
risponderle: «Sì, ti amo! sei la prima che amo, la sola che potrò mai
amare... Tu muovi dentro di me una gran tempesta che m’inebbria...» Ma
di questo si vergognava, e le parole che suonavan dentro gli parevano
impossibili a dirsi. Allora taceva, lasciando a lei che parlasse, a
lei, poich’era quasi una bambina, una piccola bambina, e tutto poteva
dire.
Ma solo nel chiamarla, nel parlarle, nel profferire il suo nome, egli
metteva un infinito amore. Non era più solamente il desiderio di lei,
quel desiderio veemente che l’aveva assalito, facendolo schiavo e
torcendolo fino al dolore; adesso era qualcosa di più, una specie di
tristezza, un furor chiuso e torbido, che lo possedeva sin nell’intimo
e lo feriva come una spina infittagli nel cuore.
Egli, che non aveva mai affrontata la propria coscienza, aveva ora
paura di sè. Temeva qualcosa d’oscuro; c’era fra lui e lei una forza
indefinibile, ignota, che lo atterriva; sopra il suo colpevole amore
pendeva quasi una minaccia più che umana. Voleva esser aspro, e non
gli riusciva che d’esser dolce; voleva non guardarla, ed i suoi occhi,
senza volerlo, andavano incontro a’ suoi. Quand’era pur lontano e
distratto, ne aveva senza tregua l’immagine fissa nella mente. Voleva
pensare ad altre donne, ad altri amori, ed ella furtivamente gli si
annidava tra le braccia con una promessa più forte; voleva respingerla
da sè, quasi per purificarsi di questa colpa, e la colpa gli ritornava,
gli affluiva nel cuore per tutte le vene, come un’ondata di voluttà.
Il cavalluccio trottava; la campagna uguale riposava dal lavoro
diurno, rotta dai casolari, percorsa dalle strade, segnata dalle siepi.
Qualche filare di pioppi, traverso la vaporosa pianura, s’allontanava a
perdita d’occhio nella notte bianca. Dietro loro si addensava la città,
sovrastata da una luce rossastra, ch’era, nell’aria ferma, il riflesso
delle sue molte luci.
Di là da una siepe videro un gregge di pecore che pernottava; s’era
sparso nel praticello, a piccoli gruppi, e biancheggiando vi dormiva.
Il cane accorse su la proda, tutto ispido, ed abbaiò.
— Guarda, — disse Loretta con un’ammirazione infantile, — guarda come
sono bianche e come dormono vicine.
Quelle pecorelle addormentate davano al suo cuore di bimba una
tenerezza singolare. Soggiunse:
— La vita nelle campagne dev’essere migliore che nelle città. Perchè
non mi porti via, Rigo?
— Portarti via? Ma dove?
— Dove non importa. Una settimana sola. Vorrei fare un piccolo viaggio
con te, starti vicina sempre, giorno e notte, non lasciarti mai, giorno
e notte... Che felicità, pensa!
Il fratello scosse il capo, e tacendo le diede una carezza sul dosso
delle mani, poi su le ginocchia.
— Portami via... — ella disse ancora, supplichevole.
— Non si può.
Incontrarono in quel punto un’allegra comitiva che tornava in città
cantando. Apparve di lontano un villaggio, e, prima del villaggio,
dietro una casa, un gruppo d’alberi folti ove brillavano molti lumi.
— Vedi: è là che si pranza, — disse Arrigo segnando il chiarore. —
Viene molta gente in estate perchè vi si mangia bene.
Giunsero. Un cameriere di onesti modi si avanzò dalla soglia incontro
ai sopraggiunti.
— Vuoi aspettarci? — domandò Arrigo al vetturino. — Ti farò pranzare.
L’uomo guardò la sua bestia con un’aria misericordiosa:
— È sotto da nove ore... — disse; — dovrei andarlo a cambiare.
Ma poi, più che il suo paterno amore per l’animale stracco, potè la
golosità del pranzo promessogli, e rispose con aria di condiscendenza:
— Bene, se proprio vuole, posso anche aspettarli.
Entrarono, traversarono alcune sale ingombre di tavolate chiassose,
giunsero nel giardino e sedettero sotto il pergolato.
— Com’è bello qui! — fece Loretta, guardandosi attorno.
Gli alberi alti, collegati da una intelaiatura di fil di ferro,
formavano una specie d’immenso padiglione, percorso da un glicine tutto
fiorito. Fra i densi grappoli turchini i lampioni elettrici divampavan
d’una luce intensa, quasi violacea, nella quale turbinavano a sciami le
farfalle notturne.
L’odor soave del padiglione fiorito si respirava con l’aria, lo si
assorbiva come una bevanda, e l’abbondanza di quella fioritura che
s’arrampicava intorno a tutti i tronchi, si addentrava nel folto dei
rami, correva per i pergolati, si lanciava da un albero all’altro,
dall’uno all’altro lampione, assalendo la casa, le finestre, le
ringhiere, parendo ne’ suoi mille fiori non essere che un solo fiore,
dava a quel rustico giardino l’apparenza d’una corte azzurra nel mezzo
d’un bosco incantato.
Sotto i pergolati erano in un gran numero le comitive allegre che
pranzavano e banchettavano; quasi tutta gente ricca del suburbio,
festeggiante il sabato sera. Quel buon sangue popolano, acceso dal vin
forte, scoppiava in risate sonore; i camerieri affaccendati passavano
portando piatti fumanti; i bicchieri e le posate mandavano un allegro
tintinnire. Nel fondo, sopra un terreno ben rischiarato, alcuni uomini
in maniche di camicia stavano giocando alle bocce; altri, raccolti in
gruppo, commentavano i colpi. Al primo piano della casa, in una sala
che aveva le finestre aperte verso il terrazzo, si danzava gaiamente al
suono d’un pianoforte.
Un’ondata d’allegria pervase i loro giovani cuori, perchè ognuno può
sovente annullare l’anima propria per ricevere l’altrui, sopra tutto
quella dei semplici, che sono i più comunicativi.
Eran un po’ storditi entrambi di quella passeggiata serale per le
campagne semibuie; avevan nel cuore e negli occhi il fantasma della lor
colpa imminente, soffrivano entrambi il dolore dell’amore. Si erano
sentiti per un momento soli nel mondo, affacciati sopra un pericolo,
sopra una tentazione, che superava i loro pavidi sensi; — ed ecco si
trovavano in un giardino pieno di gente, di gente un po’ triviale, che
mangiava con robusta fame, parlando e ridendo forte; la luce aveva
abbagliato i loro occhi un po’ torbidi, l’odore delle vivande aveva
solleticato i loro stomaci sani, e la musica trascinante che veniva
dal terrazzo, e le coppie danzanti che si vedevan passare dietro le
finestre in un fascio di luce, avevano dato ad entrambi il desiderio di
allacciarsi l’uno all’altra, ben vicini, ben forte, e buttarsi a cuor
perduto in quel ballo, e non aver più paura di quel loro amore che li
faceva tremare.
Arrigo diede un piccolo colpo sul piatto vuoto, che gli luccicava
davanti, e disse:
— Ho fame!
Prese un pane, lo ruppe. Loretta cominciò a sbottonare il guanto che
ancora le calzava la mano destra sino a mezzo l’avambraccio, se lo fece
scorrere in giù lentamente, ne trasse fuori le dita ad una ad una,
si guardò la mano, sopra e sotto, l’intrecciò con l’altra su l’orlo
del piatto. Quella sera ella non portava il braccialetto di Rafa; i
suoi due polsi nudi, minuscoli, eran densi di vene; la luce obliqua li
dorava d’una biondezza tenue. La sua faccia un po’ stanca prendeva un
bel colore, tutto da lei spirava quella indefinibile seduzione che la
donna comunica quando ha molto pensato all’amore.
Mentre il cameriere imbandiva, si misero a guardare i loro vicini e
riderne.
Una donna esageratamente grassa e rubiconda eccitava l’ilarità di
Lora. Sedeva nel mezzo d’una tavolata numerosa, ov’eran molti bimbi che
cicaleggiavano sbrodolandosi il mento con le salse gocciolanti. E le
mamme a rimbrottarli, e gli uomini a lanciar loro qualche scappellotto.
La grassa commensale portava una camicetta scollata, d’una seta a
pallottole bianche su fondo blu; era forse una ricca bottegaia, che
andava in bagordo, il sabato sera, con tutto il parentado.
— Sa, — diceva il cameriere ad Arrigo, — abbia pazienza per stasera,
signor conte! Il sabato viene tanto popolo che non si ha tempo di
servire come si deve. Ma nei giorni della settimana è tutt’altra cosa.
Poi, se volesse telefonar prima, si potrebbe prepararle qualche piatto
speciale.
Un bimbo, col tovagliolo annodato intorno alla gola, si mise a correre
fra i tavolini per acchiappare una farfalla moribonda. Capitò vicino
alla tavola d’Arrigo e il cameriere lo frustò via col tovagliolo, quasi
fosse un can randagio.
Ella rideva del cameriere, del bimbo, della farfalla e della donna
grassa; rideva di tutto, per una súbita gioia ch’era entrata in
lei. Nella luce azzurra che pioveva dall’alto, i suoi lineamenti si
avvolgevano d’un contorno quasi vaporoso, i capelli biondi le facevan
cadere una leggera nube su la fronte.
Ma quest’allegrezza fu breve; breve per entrambi. A poco a poco furono
lontani da quella gente, da quel frastuono, si ritrassero in un mondo
loro, temendo quasi che alcuno ve li sorprendesse, mentre ambedue, per
una onestà inconsapevole, si ribellavano contro la forza del loro così
perverso amore.
Noi abbiamo talvolta, nel nostro pavido istinto, una certa riluttanza
davanti alla felicità, e nulla è così sbigottito come un’anima semplice
che s’affacci sopra un grande peccato.
Il pranzo era finito: portavano i dolci; il caffè versato fumava nelle
tazze. Dall’alto era caduto su la tovaglia qualche fior di glicine;
alcune piccole zanzare, contorte dall’agonia, si dibattevano fra le
briciole, senza più volo.
— E Rafa? — disse Arrigo improvvisamente.
— Oh, non parlarmi di lui ora! — ella esclamò con un gesto vivace. —
Non lo posso più soffrire!
Egli ebbe la vanità o la crudeltà di domandarle:
— Perchè?
Ella fece un gesto vago.
— Forse non puoi comprendere... Nessuno di voi può comprendere il cuore
d’una fanciulla.
— Oh, come parli! — egli esclamò sorridendo.
— Perchè? ti faccio ridere?
Il fratello si mise a guardarla, fissamente, insidiosamente, con
un’espressione ambigua; ella sostenne un poco il suo sguardo, poi chinò
la faccia nell’ombra del cappello.
— Se mi guardi così, Rigo, mi fai arrossire...
— Sei tanto bella, fiore mio!... — egli esclamò, piegandosi un poco
verso di lei, come attratto dal respiro della sua bocca.
Ed ella gli sorrise dal volto chino.
— Ma se non ti piaccio... — mormorò, con una civetteria timida.
— Sei tanto bella! — diss’egli ancora; — tanto, che mi fai male...
Ella non aveva pudore; sollevò la faccia, la sua bocca rise, viva,
invermigliata, piena di colpa. Le splendevan gli occhi: non aveva
pudore.
— Ed allora perchè?... — fece con esitazione.
— Cosa dici?
— ... perchè non mi vuoi?
La domanda era tanto grave, ch’ella stessa tornò a nascondersi. L’altro
nulla rispose; accese una sigaretta, quasi volesse ubbriacarsi di fumo.
Poi, quand’ella non si aspettava più nessuna risposta:
— Perchè sei mia sorella, — disse.
Ella si strinse nelle spalle, meditò.
— Questo nome ti pare così terribile?
— Sei una bambina, — egli osservò gravemente.
— Una bambina?... — E sorrise crollando il capo. — No, piuttosto
un’altra cosa, molto semplice: soffro e non voglio più soffrire. Voglio
bene a te, a te solo, e chiunque tu sia, voglio bene a te! Infine, di
cosa mi rimproveri? Perchè sento questo amore? Ma non è mia colpa.
Forse perchè ne parlo? Ma che servirebbe il tacere, se tu, che pure
taci, non fai che pensare continuamente alla stessa cosa?
E le sue piccole mani si allacciarono strettamente alle mani di lui,
che non sapeva rispondere, che non osava più guardarla. Poi divenne
mansueta, persuadente, insistente:
— Ascóltami, Rigo, ascóltami! Quel coraggio che dovresti avere tu,
l’ho avuto io per la prima. Ora non condannarmi: aiutami! V’è una certa
paura in tutto questo, è vero, ma bisognerà pur vincerla...
Egli la guardò stupefatto.
— Non bisogna vincerla, — disse oscuramente. — Anzi bisogna guarirne.
— È dunque un male così grande?
— Sì, un orribile male. Anche il parlarne, anche il pensarvi è male.
— No, — ella disse con fermezza. — No!
— Vedi, se tu potessi avere un altro nome che il nome di sorella... Non
senti come suona male su la mia bocca?
— Un nome!... cos’è un nome? — ella fece.
— Ma è tutto, poichè vuol dire qualcosa, poichè racchiude il peccato
più grande che vi sia nell’amore.
Ella ebbe un gesto vago, ed un sorriso.
— Non importa, — rispose. — Io non ti considero per tale; non sento
affatto che tu sia mio fratello. Paolo è mio fratello, tu no. È una
cosa del tutto diversa. Non mi ricordo nemmeno più com’eri, quand’eri
mio fratello, cioè quand’eravamo bambini. Ora tu sei un altro.
Fece una pausa, indi ricominciò:
— Del resto è naturale che fra noi ci sia una differenza. Tu hai avute
tante altre amanti, sei stato carezzato, baciato, adorato da tante...
Quello che puoi avere per me somiglia tutt’al più al desiderio che
potresti avere d’un’altra. Invece io...
— No, Lora, questo non lo dire! non lo dire! È assurdo! Ma dunque non
vedi che faccio sopra me stesso uno sforzo terribile per salvarti?
— Per salvarmi? Per salvarmi, dici? Ma io non voglio essere salvata!
A che scopo? Perchè un giorno magari mi prenda Rafa, od un altro
come Rafa? Io sono libera, capisci? padrona di fare con me quello che
voglio. E son io che ti cerco, non tu. Se hai paura del rimorso, io
lo voglio portare tutto su me stessa. Guarda: ragiono freddamente, so
quel che dico. Amo te, voglio esser tua; solo questo mi piace. Voglio
carezzarti, farmi carezzare, viverti vicino, essere innamorata di te,
gelosa di te... E son io che voglio, non tu; io sola... ti basta?
Egli guardò quella fanciulla di vent’anni, quel fiore semplice, che
aveva un cálice così profondo e maturo, così odoroso e perverso. Una
specie di ammirazione tacita nacque in lui, come se ne avesse paura.
— Loretta, — egli disse, — alla tua età non si può saper ancora cosa è
bene e cosa è male, o per lo meno qual è il male troppo grande.
— Il male troppo grande è non avere il coraggio d’essere felici, — ella
disse, inconsapevole forse delle sue parole.
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