Colei che non si deve amare: romanzo - 05

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separava l’un dall’altro, ch’ella, per un momento, lasciò le sue viole
e si mise a guardare.
— Per la signora Tatiana Ruskaia, — disse Arrigo alla venditrice, che
racconciava il gran nodo di nastro sul curvo manico della cesta. E
soggiunse l’indirizzo.
Colei che sceglieva viole, udendosi nominare, guardò il giovine. Senza
impaccio, cortesemente, loquacemente, egli le sorrise. Poi distolse lo
sguardo, mise un biglietto da visita tra i fiori, si volse a pagare con
discretezza, ed uscì.
Ella ne rimase un po’ stupita, fra le sue violette di Parma.


XI

Un altro giorno l’attese nella via, come se l’incontrasse per caso.
E la guardò dirittamente, sorridendole ancora. Aveva pur notato una
piccola sorpresa in lei, vedendolo passare. La seguì per un tratto,
assai discretamente, però lasciandosi vedere; poi volse altrove. Ogni
giorno le mandò fiori, ed i più belli ed i più rari che trovava. Una
mattina la incontrò, mentr’ella usciva dalla guantaia; un pomeriggio
di nebbia s’imbatterono insieme su la porta della stessa pasticceria,
e presero il tè vicini. Una sera, ch’ella non cantava, s’incontrarono
nello stesso teatro. Ella era in un palco, insieme con altre signore,
altre cantanti forse, e ad un certo punto egli si accorse che domandava
di lui. Non le seppero dir nulla, certo... Ma ella portava alla cintura
un grappolo di rose gialle: per caso, quel giorno, egli le aveva
mandate rose gialle. Poi sentiva di non darle noia, di non esserle
indifferente; lo sentiva con quella inspiegabile certezza che la donna
trasfonde in noi quando riusciamo a piacerle. Ed è forse il momento più
soave di tutto l’amore.
Ormai pensò ch’era venuto il momento propizio per inviarle una lettera.
Ma un pensiero lo trattenne. Scrivere in italiano ad una forestiera
sarebbe stata cosa poco elegante, mentr’egli con lo stile francese non
aveva troppa familiarità, e nemmeno con l’ortografia, per vero dire.
Parlando, ne faceva uso con una certa speditezza, e Dio sa come ancora,
perchè lo aveva studiato poco tempo a scuola, poi vi si era meglio
addestrato da sè, leggendo qualche libro, facendo la corte a qualche
canzonettista francese.
Rinunziò dunque a mandarle una lettera, ebbe ancora pazienza. Ella
ricasava tutte le sere alla stessa ora, ed egli sapeva benissimo per
quali strade. Una volta, incontrandola, salutò. Ella rispose, appena
appena, con un semiriso ambiguo su l’orlo della bocca limpida, che
pareva una bocca di donna innamorata. Ed affrettò il passo. Egli non
insistette. Gli batteva un po’ il cuore.
Adesso la salutava sempre, tutte le volte che l’incontrava, lasciandole
dietro uno sguardo lungo, un cauto sorriso della sua bella bocca
limpida e rossa.
Una sera l’accompagnò da presso, quasi di fianco, sino alla porta di
casa.
Un’altra sera l’aspettò presso la soglia del teatro, dov’ella giungeva
in carrozza chiusa, per cantare.
A quell’ora gli strilloni gridavano il libretto dell’opera, gli
incettatori offrivan palchi e poltrone ai passanti; entravan gli ultimi
del lubbione; un venditore d’arance chiacchierava con due guardie di
pubblica sicurezza, fra le ceste ripiene de’ suoi frutti divampanti.
Quando giunse la sua carrozza, Arrigo s’avvicinò alla portiera,
l’aperse, e scoprendosi il capo le tese la mano per scendere. Di
maraviglia ella sorrise.
Era ammantellata fino al collo, per timore della nebbia fina, che
poteva nuocerle.
Ella mise la mano inguantata nella sua mano, vi si appoggiò, sorrise,
gli disse in fretta:
— Venite a trovarmi... — E passò via, strisciandogli vicino, rapida,
leggera; poi súbito scomparve nella piccola porta, lasciando per lungo
tempo dietro di sè un’ondata di profumo.
Egli rimase a guardare come un ebete il venditore di arance, che
or faceva qualche passo, avanti, indietro, lungo le sue ceste,
fischiettando piano piano; poi si rimise il cappello in capo e sentì
che dentro il cuore gli cantava....
Gli cantava una bella canzone di gioconda vita, un inno fervido,
concorde con tutte le sue speranze vertiginose, tanto può sul cuore più
saldo la parola fuggevole d’una donna.
Ora la piazza, vegliata in cerchio dagli alberi ancor bianchi di
recente nevicata, fra la nebbia rosea, fra l’austerità dei quattro
palazzi che la chiudevano per intorno, si andava lentamente animando
della sua vita serale. Frotte passavano, rade, folte, già satolle del
pingue desinare, ciascuno rannicchiando il collo nei caldi baveri ad
ogni soffio di vento, godendosi tuttavia quell’ozio della passeggiata
che riposa dal diurno lavoro. Gente sola, nemica del tempo freddo,
che striscia lungo i muri, tutta curva, come per proteggere una
bronchite latente; pedine che vanno in fretta, con un far donnesco
di cose appartenenti alla strada, forse digiune ancora, in cerca
dell’invaghito; lavoratori tardivi che se ne tornano zufolando;
cavallucci cascanti, che più vanno e più s’azzoppano su la pietra
pericolosa, trainando nel veicolo dai vetri appannati qualche scapolo
senza cucina al suo pranzo tardivo; belle pariglie scalpitanti, che
trascorron da palazzo a palazzo; automobili silenziose, veloci, che
lanciano sui marciapiedi un gran fascio di luce, passando.
Un crescere di sfaccendati, che sboccano da ogni contrada, s’incontran,
s’intreccian, si fermano a ciarlare dei lor casi domestici, fra le
grida monotone dei giornalai, le nenie dei banditori di spettacoli,
l’eco semidispersa delle orchestre che allietano le birrerie, la
canzonaccia di qualche vagabondo, la zuffa di due cani.
Egli camminò fra queste cose, respirando a pieni polmoni l’aria
frizzante, ingollando il fumo gonfio d’una sigaretta che gli spargeva
per le vene una specie di torpore benefico.
E la vedeva ora nel suo camerino, presso la specchiera ingonnellata di
garza, prepararsi lentamente all’acconciatura da scena sotto le mani
dell’abbigliatrice, con la partitura davanti agli occhi, ed ogni tanto
accennandone un motivo, provandosi la voce.
La vedeva tendere le labbra verso lo specchio, per disporvi sopra il
soverchio belletto, stenderne un poco sui pomelli delle gote, mettere
il nero fosco intorno agli occhi, perchè brillassero più vivi.
Poi, diritta, lasciandosi cadere la camicia sbottonata giù da le
spalle come una rotta guaina, sorretto appena dal busto basso il
ricolmo del seno, stendervi sopra, e su la gola, e su le spalle, e
su le braccia, una pasta molle, odorosa, quasi limpida, che sùbito vi
aderiva, luccicando, e poi facendosi opaca, man mano che la cameriera
leggermente vi passava sopra con il piumino della cipria, e le stendeva
sul dorso, fino a mezza schiena, la medesima imbiancatura.
Per tal modo il suo busto nudo andava prendendo una bianchezza di
perla, una trasparenza così delicata che pareva quasi azzurra e
lasciava intorno, per la piccola camera, un buon odore di mandorle
amare.
«Domani,» — egli meditò fra sè stesso. E trascorsa la prima ebbrezza,
la sua calma ragione lo riprese; pensò che un piccolo errore poteva
perderlo, adesso più che mai, e con l’anima piena di trepidazione
imaginò lungamente quell’incontro vicino.
Era tardi; se ne andò a pranzare.

Ella sedeva davanti al pianoforte sfogliando musica, quand’egli entrò.
Per un momento si trovaron nell’impaccio entrambi, poichè non sapevano
affatto come dirsi la prima parola.
— Debbo ringraziarvi... — ella cominciò.
— Di cosa?
Ella segnò due mazzi di que’ fiori ch’egli le mandava ogni giorno
come un messaggio. Era seduta su lo sgabello girevole del pianoforte,
a mezzo rivolta verso di lui, a mezzo verso il leggìo. E lasciando
correre la mano sbadata su l’avorio e su l’ebano della tastiera, che
riluceva nella penombra, sogguardando a lui dal volto chino, con una
grazia indefinibile sorrideva.
— Sono stato scortese... — disse il giovine.
— Sì, un poco... — ella rispose.
Ma il rimprovero quasi era carezza, tanto soave ne fu l’accento.
— Non avevo altro modo per avvicinarmi a voi, — diss’egli per
iscusarsi. — Molte volte non si può scegliere la strada. Ma dovete
perdonarmi, perchè il mio desiderio di conoscervi è stato così grande,
e insieme così rispettoso....
Egli lasciava cadere le parole pianamente, con insinuazione, stando
ritto e fermo nel mezzo del salotto, irrigidendo la sua persona per
non mostrarsi turbato. Ella ascoltava, guardandolo attentamente, con un
sorriso impercettibilmente ironico su l’orlo delle sue labbra fini.
Lo guardava con l’occhio vigile della donna che misura una propria
impressione anteriore e la raffronta con un’altra più immediata, stando
curva insieme sopra un pericolo o sopra una delusione. Lo guardava
perplessa, poich’era stata in verità un po’ leggera dicendogli di
venire nella sua casa, e quell’uomo, quello sconosciuto, in fondo
poteva credersi lecita qualche pretensione sopra di lei. Ma la sua
maniera d’essere non le faceva paura; egli piuttosto l’incuriosiva,
l’aveva incuriosita stranamente fin dal primo giorno quando s’erano
incontrati in quel negozio di fioraio. «Per la signora Tatiana
Ruskaia,» aveva egli detto, nel mettere il suo biglietto da visita
fra le belle orchidee; e il tono di quella voce, l’espressione di
quel sorriso, non si erano mai dipartiti dalla sua mente. «Per la
signora Tatiana Ruskaia...» Egli aveva pronunziato il suo nome in un
modo singolare, con un accento così nuovo, quasi con timore e quasi
con baldanza, non obliquamente, ma guardandola in viso, ma sorridendo
a lei che gli era del tutto sconosciuta: ed anche questo le piaceva.
Così le piacevano i suoi begli occhi neri, la sua bocca sensuale, dalla
dentatura lucente come cristallo. Quando più tardi lo aveva riveduto
per via, quand’egli le era passato vicino, quasi toccandola, e poi
le aveva camminato dinanzi, agile, con una franca sicurezza della sua
bella persona, ella ne aveva provato un senso molesto e dolce insieme,
come se nell’intimo della sua natura femminile una specie di turbamento
insolito avesse d’un tratto risvegliata la sonnolenta inerzia del suo
cuore. E senza volerlo aveva pensato a lui, di giorno, di sera; lo
aveva qualchevolta cercato per via con occhi distratti; si era sentita
trepidare, nell’avvicinarsi alle strade ove per solito le accadeva
d’incontrarlo.
Egli non era stato importuno: le aveva parlato, sì, ma di lontano,
con la forza de’ suoi occhi veementi; le aveva detto: «Mi piaci,» le
aveva detto anzi: «Ti voglio...» ma dolcemente, senza molestarla nè
offenderla.
Stando in scena, o dietro la scena, le avveniva spesso di cercare
unicamente la sua presenza tra i confusi ordini della platea; le
avveniva di aspettare ogni giorno quel suo mazzo di fiori con una
singolare ansietà, e fors’anco si sarebbe sentita piena di malinconia
se un giorno egli non avesse pensato a mandarle fiori.
Quest’uomo la imprigionava nella sua forza come nel piacere d’una
carezza che le stringesse tutta la persona. Quando la ravvolgeva nello
sguardo luminoso de’ suoi forti occhi, ella ne sentiva quasi un male;
senza volerlo, senza spiegarsene il perchè, le pareva che gli avrebbe
perdonato qualsiasi audacia; e quand’usciva dal teatro, vibrante,
accesa dalla passione che aveva trasfusa nel suo canto, avrebbe voluto
incontrarlo, passargli vicino, sentirsi fortemente, improvvisamente,
prendere fra le braccia da lui.
Perchè gli aveva dette quelle parole impensate nello scender di
carrozza? Era stata, in verità, una frase involontaria, come se le
sue labbra avessero parlato da sole, tanto si era turbata nel vederlo
subitamente avvicinarsi alla portiera.
Ed ecco, era lì davanti a lei, le parlava.
Si era sentita quel giorno irrequieta e nervosa, poichè l’aspettava;
s’era guardata nello specchio, in tutti gli specchi, molte volte,
poichè l’aspettava. Era una curiosità malsana, sciocca, la sua; non
avrebbe dovuto lasciarsi andare così leggermente al primo capriccio
che le frullasse per il capo! E quasi con ira, nell’aspettarlo, se
lo andava ripetendo ogni tratto: «Sì, una vera leggerezza, una vera
pazzia!...» Egli sarebbe venuto, l’avrebbe trovato volgare e sciocco:
la sera stessa non ci avrebbe ripensato più. Capricci di donna un poco
sola, che afferrano chi se ne va per il mondo in cerca di tentazioni,
con la testa molto accesa, l’anima un po’ vuota... capricci che son
tanto più forti quanto più sembrano assurdi, e nascon nei cuori
viziati, nei cuori avvezzi a soddisfare con troppa facilità ogni
loro desiderio. Sarebbe venuto, e, forse, guardandolo meglio, ella si
sarebbe accorta che in lui non v’era nulla di tanto singolare; forse la
sua voce, udita meglio, le sarebbe dispiaciuta; i suoi gesti, la sua
persona, la sua maniera di ridere non le avrebbero più ispirato quel
desiderio femminile d’essere per lui una vera donna; forse, alla fine,
se ne sarebbe sentita libera, ne avrebbe riso a cuore aperto, con quel
riso giocondo che scoppia in noi quando ci accorgiamo d’essere passati,
senza pur cadervi, troppo vicino all’amore.
E lo guardava.
Era un uomo insolito. Fra mille, dopo anni di lontananza, lo avrebbe
riconosciuto. Pure stando fermo, e se pur taceva, un contrassegno
della sua singolarità era visibile in ogni attitudine della persona.
I capelli foltissimi, più che neri, d’una lucentezza quasi violacea,
gli si spartivan disugualmente da un lato e dall’altro della fronte,
formando sopra il pallore delle tempie due dissimili onde, invano
appianate dal pettine o lisciate dalla mano in un gesto assiduo
di pensiero. Le linee del suo volto eran ferme, precise, quasi
eccessivamente pure; ma la bocca, un po’ aspra quand’era chiusa e piena
di soavità nel sorridere, gli occhi dalle palpebre oscure, gli occhi
mutevoli come il colore d’un’acqua sotto un variar di nubi, mettevano
in quella fredda bellezza una imperfezione gradevole, una specie di
selvatica vita, che pareva splendere di continue palpitazioni. Tutto
era in lui bello ma temibile: così la mano, piccola e nervosa, che
pareva nella sua delicatezza esprimere un non so che di rapace, l’alta
statura e complessa, che serbava nella sua forza un’ammirevole agilità,
così lo strano contrasto fra l’accuratezza esteriore dell’abito con
quello che aveva in sè di non ancora domato e lisciato, l’aria di
sofferenza che v’era nel suo sorriso, la malvagità subitanea che
brillava come una lama in taluni suoi sguardi.
Tutto questo ella vide, pensò, conobbe, in pochi attimi. La sua mano
correva su la tastiera, fuggevole, come inseguendo con ogni nota un
pensiero.
— Avete detto «un poco...» — egli fece per interrompere quel silenzio
che gli pesava. — Sono stato un poco scortese... Forse. Ma voglio
esserlo ancor più. Voglio dirvi, e forse ne riderete, che per voi,
senza sapere nulla di voi, ho provato qualcosa di così forte, di così
nuovo, che mi è sembrato di potervi amare terribilmente anche se avessi
dovuto non conoscervi mai. La prima sera che v’ho intesa cantare....
— Ma voi chi siete? — ella lo interruppe, con un gesto vivo di
malessere.
— Io? chi sono?
Egli parve cercare un poco la risposta.
— Nulla sono. Uno fra i tanti, uno fra i mille che vi avranno fatta
la corte, non è vero? Quello che vi è capitato con me, può capitarvi
ad ogni momento, non è vero? Nulla sono. Di me non potrei dirvi cosa
alcuna. Faccio una vita semplice. Amo più essere solo che con altri.
Non ho passioni; non ne ho avuta alcuna, finora. Sì, una soltanto: la
musica. E non lavoro. Mi siete piaciuta molto e súbito, in un modo che
mi ha fatto quasi male. Se anche ne riderete, son contento di avervelo
potuto dire.
Ella piegò leggermente il capo e si prese una mano nell’altra, girando
gli anelli che portava su le dita. Ora, col dorso, poggiava contro il
pianoforte; le ginocchia sovrapposte davano alla sua gonna l’apparenza
di una grande ala. Non rideva; era visibilmente commossa; visibilmente.
— E allora?... — ella fece, sollevando verso di lui con timore la
faccia un po’ confusa.
— Allora ditemi se potrò sperare di vedervi qualche volta, non più da
lontano soltanto, e se potrò domandare anche a voi, per esempio: Chi
siete?... e continuare a dirvi le cose un po’ ridicole che vi ho dette
oggi, e raccontarvi la storia dei giorni pieni d’inquietudine che ho
vissuti nell’attesa di parlare con voi....
— Ebbene... sì! — ella fece dopo una pausa, raccogliendo il ginocchio
pieghevole nelle mani congiunte.
Fuori la neve cominciava a cadere, lieve, piana.


XII

Erano divenuti amanti.
A lui, dopo trascorsa la prima ebbrezza, questo fatto non diede
alcun turbamento esagerato, perchè nutriva di sè medesimo un naturale
orgoglio e si sentiva pronto a ben maggiori destini. Ma ella si era
invaghita e persa di lui con un ardente amore; si sentì quasi divenire
una cosa piccola e fragile nelle sue mani forti; le piacque anzi d’aver
trovato questo bel dominatore nella sua libera vita. Che le importava
chi egli fosse? cosa egli fosse? di saperlo ricco o povero? di avere
forse raccolta qualche beffarda voce sul conto suo? Ella era una dolce
slava, malata d’una ipocondria sensuale, con una vita che tutta le si
radiava dal grembo desideroso, cosicchè le pareva talvolta di sentirsi
morire sotto le carezze di quell’amante. Non poteva essere una donna
per tutti; le bisognava amare, con tanta più veemenza quanto più
questo amore fosse inutile, amare con ubbriachezza, con perdizione,
con esaurimento, senza che mai tuttavia la sua passione giungesse a
lacerarle il velo trasparente dell’anima od a turbare quella chiara
fontana ch’era in lei, con l’ondata nè col fango delle passioni
tormentose.
Ella era frivola, e pur aveva talvolta le attitudini selvagge d’una
amante vera; le piaceva essere blandita, carezzata, addormentata, e pur
talvolta le nasceva su la bocca un bacio così violento, che sorpassava
la voluttà; era capace di levarsi una mattina, piena di riso, e
mettersi a cantare tra i vapori del suo bagno profumato, ma dieci
minuti più tardi, nella tepidezza lasciva dell’accappatoio, strisciare
sui piccoli sandali a rifugiarsi contro di lui, stringergli le braccia
al collo, baciarlo e mettersi a piangere.... Diceva di volergli essere
una mamma, una sorella, un’amica, cioè tutte le cose più pure che sian
nel cuore femminile, ma in verità non era che un’amante gaudiosa, una
tormentatrice raffinata, una donna che metteva ne’ suoi baci struggenti
qualche sapore di perversione, qualche stilla di crudeltà.
Quelli che facevano la corte serrata intorno alla Ruskaia, li videro
inaspettatamente un giorno andarsene a lato per la città, uscire
insieme dal teatro d’opera ed apparire qualche volta nei ristoranti,
qualchevolta mostrarsi nei teatri di prosa.
Ne fu mosso grande rumore. Chi era costui? da che parte era sbucato?
come si chiamava? che faceva? in che modo era giunto ad innamorar la
Ruskaia? Innamorarla per davvero, a quanto pareva! Taluno si ricordò
d’essere stato a scuola con lui; talaltro fece più accurate indagini e
comunicò il suo nome: Arrigo del Ferrante. Del Ferrante?... Quel nome
l’avevano già udito. Uno finalmente si risovvenne: — Ma sì! è proprio
quello che s’è fatto sorprendere dal Farra con Miris la Tunisina!
E per mille strade la voce ne corse un po’ dappertutto. Poi si
aggiunsero altri particolari. Taluno si rammentava d’averlo veduto,
anni addietro, mal vestito, in compagnia di gente equivoca; taluno
d’essersi imbattuto con lui nelle bische, d’averlo veduto giocare
alle Corse od incontrato nei caffè notturni con donne di malaffare.
Poi aveva mutato spoglie; ultimamente veniva spesso a pranzare nei
ristoranti centrali e spesso lo vedevano in teatro, sempre solo,
corretto, elegantissimo.
Viveva tempo addietro in Firenze una brigata di galantuomini,
che facevano professione di sapere il conto loro in ogni cosa, e
specialmente nel giocare e nello spender bene il lor denaro, e d’essere
il fiore della reale ed onorata scapigliatura. Avevan un capo, detto
l’Abate, da cui erano castigati quando fallavano o nel giocare o nello
spendere; si radunavano in casa di lui, dove si giocava, più per spasso
che per vizio, si facevano merende, cene, e varie allegrie.
A costoro era dato il nome gaio di Mammagnúccoli, così come narra nelle
sue Note uno storico di bello stile.
Or la brigata che a buon diritto, nei tempi mutati e mutata città,
poteva fregiarsi di tal nome onorato, poichè le stesse cose faceva e
con lo stesso brio, fu grandemente sdegnata che la più ambita donna
dell’anno fosse a lei ritolta per opera d’un tale che non era del suo
numero. Dal marchese di Sant’Urbino, cui spettava per nobiltà, per
censo e per effeminatezze d’esserne l’Abate, a don Carletto Santorre,
damerino compiuto, fino a Totò Rigoli, buontempone di bello spirito e
giullare della compagnia, i commenti furono senza fine.
Quando la novella fu per tutto risaputa, e la Ruskaia ricomparve la
prima sera in iscena, bisognò che facesse veri prodigi di maestrìa per
non trovarsi di fronte a qualche ostilità, così vivo era il fermento
che correva nei palchettoni sparsi per tutto il teatro. Tanto più che
verso il mezzo dello spettacolo, in una poltrona di terza fila, per
l’appunto era comparso il bel rapitore, quel personaggio misterioso,
che li aveva così tranquillamente gabbati.
Ma non sapevano quanto, in cuor suo, quel giovine agognasse a
divenir dei loro e quale desiderio lo struggesse di appartenere alla
medesima lor vita, forse per ambizione più che per tendenza; e sedere
fraternamente nei palchi ove, dal principio alla fine dell’opera, essi
non tralasciavano di fare un chiasso importuno, e aver adito a visitare
le signore ch’essi visitavano, poi andarsene, con loro insieme, ai
Circoli, alle partite protratte fin oltre il lume dell’alba, od alle
cene galanti ove Beppe Cianella e Massimo Ravizzoli s’ubbriacavan tutte
le sere, sciorinando le più laide sconcezze che si fosser udite mai da
favella umana.
Mentre la Ruskaia cantava, in quei palchi si discorreva di Arrigo.
— E un bel giovine però! — disse Totò Rigoli, un uomo che della sua
piccola statura s’era fatta un’arma temibile per molestare altrui. E
forse lo disse con l’intenzione di dar noia a Paolo del Bassano, che
oltremodo si vanagloriava della sua bellezza d’andrógine, e stava con
un gomito poggiato sul davanzale del palco, lisciandosi la piccola
barba rada e biondiccia che invano voleva essere un ornamento virile
nel suo viso dolciastro come rosolio e miele.
Egli puntò il canocchiale affettatamente verso la poltrona ove sedeva
Arrigo, poi si lasciò cadere dalle labbra un: «Peuh!...» semisdegnoso,
che fece ridere alcuni.
— Mi sembra volgare, — disse, con quella sua voce di falsetto, cui
mancava l’erre. Ma le proteste furon numerose, perchè tutto gli si
poteva negare, tranne che avesse una sua limpida e maschia bellezza.
L’Abate dei Mammagnúccoli, quel marchese di Sant’Urbino che pur
si coltivava con molte leggiadre usanze, fu più generoso del suo
confratello barbuto, ed ammise che la sua prestanza fisica gli dava
diritto al favore di qualsiasi bella donna.
— So di alcuni che per questa faccenda rischieranno di fare una
malattia! — disse Giorgino Prémoli, il malevolo, guardando Lanzo
Malatesta, che passava per essere fortunato con le donne, poi Carletto
Santorre, che s’era invaghito della Ruskaia ed aveva giurato di farla
sua per primo, poi Camillo Torretta, che aveva sperato egli pure di
sedurla, non coi vezzi dello spirito nè con le banconote allettevoli,
poichè d’entrambe le cose era scarso, ma col non avere sopra di sè cosa
alcuna che non portasse la genuina marca inglese; poich’egli stesso
andava più volte nell’anno a Londra, sacrificando altri lussi, per
essere il vero arbitro, in Italia, della moda londinese.
— Ma non disperate! — continuò Giorgino Prémoli, aggiustandosi
l’occhialetto che gli acuiva l’espressione sarcastica della fisionomia.
— Tutto viene a suo tempo: il bel Ferrante, se non m’inganno,
dev’essere uno spiantato.
— Come lo sai? — fecero alcuni.
— Me lo ha detto Sacco Berni, ch’era suo compagno di scuola. Lo ricorda
come un giovine di famiglia molto umile; figlio d’impiegati o forse di
bottegai suburbani.
Questi Berni eran due fratelli, dediti al gioco, alla crapula, al
libertinaggio, con una tempra di ferro; si chiamavano l’uno Gian
Giacomo, detto Bacco, per una certa sua rassomiglianza col giovial
nume del vino, l’altro Gian Pietro, detto Sacco, perchè aveva nella sua
persona tozza e greve qualcosa di simile veramente ad un sacco ripieno.
Specialmente in fatto di gioco, molte ambigue voci correvano sul conto
loro; ma eran ammessi ed anzi ricercati per il loro spirito giocondo
sebben grossolano, e per quell’instancabile brio che mettevan nello
scialacquare la vita. Bacco e Sacco eran di tutte le cene, di tutte le
scorrerìe notturne, di tutte le imprese più gaie; nei carnovali e nelle
quaresime non riposavano mai.
Entrò in quel mentre il conte Raffaele Giuliani, giovine di
casato nobilissimo, che godeva tra quei gentiluomini d’una certa
considerazione, per esser scevro di quasi tutti i loro vizi e liberale
insieme, sicchè mai non rimandava insoddisfatti gli innumerevoli
stoccatori. Molte madri della buona società gli tenevan gli occhi
addosso per le lor figlie da marito, ed egli, senza deludere alcuna
speranza, era frattanto un donnaiolo accanitissimo, ma di cuor talmente
svenevole che ad ogni piè sospinto cadeva in perduti amori. Così era
stato per la Ruskaia, naturalmente. Gli eran però falliti l’un dopo
l’altro i mezzi che a lui procacciavano con facilità estrema tutte
le donne del teatro e della galanteria, sicchè la notizia doveva
segnatamente colpirlo. E non gli furon lesinate allusioni e maldicenze.
Una malvagità innata spesso ci muove a schernire in altri il nostro
medesimo tormento: per questo si cominciò nel palco a magnificare ed
esaltare la passione della cantatrice per Arrigo del Ferrante, citando
copia d’imaginosi particolari e deridendo un poco il Giuliani con
quella garbata insolenza ch’è la più temibile arma degli amici.
— Vorrei conoscerlo questo bel tipo! — prese a dire Totò Rígoli. —
Non dev’essere in fin dei conti un uomo comune, e per dire la verità
confesso che mi è simpatico.
— Sono del tuo parere, — ammise il Prémoli. — Tanto più che, per
giungere alla Ruskaia, bisognerà d’ora innanzi fare la corte a lui.
Dico ciò per quelli che se ne interessano... Quanto a me, grazie a Dio,
me ne infischio!
Aveva benaltro a pensare, lui! Pieno di debiti fino al collo, senza
parenti dai quali ereditare, con un magro impiego in una Compagnia
d’Assicurazioni, con una vecchia amante sul dosso che gli aveva già
partoriti due bastardi, era ben naturale che il suo cuore fosse un poco
inasprito ed egli cercasse di mordere, se poteva, quelli che stavano
meglio di lui.
— Cosa ne dici, Rafa? — domandò Lanzo Malatesta al Giuliani, che si era
seduto in un angolo del palco, taciturno.
— Dico, — egli rispose, con una specie di sconsolata rassegnazione, —
che quando s’è troppi a circuire una donna, questa cade per forza nelle
braccia d’un estraneo. Peccato! peccato!... La Ruskaia mi avrebbe fatto
commettere qualsiasi pazzia.
— Non sarebbe cosa del tutto nuova per te! — rispose urbanamente Lanzo
Malatesta.
Era questi un bel giovine, smilzo, di capelli biondi, con gli occhi
vivacissimi, la bocca espressiva, una guancia divisa obliquamente da
una profonda cicatrice. Attaccabrighe molesto, buono schermitore,
facile duellatore, era più temuto che amato, sebbene la troppa
vitalità del suo spirito fosse più colpevole che non il cuor malvagio
di questi ardori eccessivi. Senz’altro amore che il pericolo nella
sua vita irruenta, cavalcava per gli ippodromi, si cimentava ne’
circuiti, gareggiava con il remo e con la vela, disistimando quelli che
spendevano il tempo in più tranquille fatiche. Donne, gioco ed altri
spassi non eran che intermezzi d’ozio nella sua vita coraggiosa.
Ma non soltanto in quella brigata si discorreva di Arrigo e della sua
buona ventura.
Nei palchetti ove sbocciavano come fiori opulenti le scollature
incipriate, adorne di limpidi gioielli tra la pigrizia dei ventagli
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