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I primi due secoli della storia di Firenze, v. 1 - 08

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  loro consorti sono quelli che troviamo ora alla testa del governo; i
  documenti provano chiaro che i Consoli del Comune sono quasi tutti di
  famiglie che fanno parte delle Società delle Torri. Il vedere poi che
  alcuni di essi, come ad esempio i Cavalcanti ed altri non pochi,[132]
  si trovano qualche volta anche Consoli delle Arti, è una prova certa
  della buona armonia in cui essi, come già piú volte dicemmo, erano
  col popolo. L'ordinamento di queste Società, simile in qualche modo a
  quello delle Arti, da cui forse era stato ispirato, non aveva nulla
  di veramente feudale.[133] Se fossero in Città prevalsi solo gli
  Uberti, piú aristocratici, le cose avrebbero di certo preso ben altro
  aspetto; ma essi dovettero, sebbene di mala voglia, cedere alla forza
  degli eventi, che spesso furono loro avversi. Assai di rado infatti li
  troviamo nel consolato prima del 1177, quando cominciarono ad entrarvi
  piú spesso, dopo aver fatto una vera rivoluzione. E ciò conferma che
  nel 1115 essi avevano subito uno scacco. Il governo consolare venne
  allora in mano di parecchie famiglie di Grandi, amiche del popolo, che
  prevalse nelle assemblee, senza le quali non si decideva nessuna delle
  grandi questioni e dei grandi interessi dello Stato.
  I Consoli erano eletti in principio d'anno,[134] due per Sesto, tale
  almeno sembra il loro numero normale, quantunque non sia certo, né paia
  sempre costante. Fra questi dodici, due, scelti a turno, funzionavano
  da capi del collegio, ed erano detti _Consules priores_. Cosí ne seguí
  che i cronisti usarono nominare solo due, e qualche volta uno solo dei
  Consoli. I documenti ne nominano due, tre o piú, che stanno però sempre
  a rappresentare anche i colleghi, di cui si danno spesso i nomi. Di
  rado, e solamente in casi eccezionali, se ne trovano ricordati piú di
  12,[135] forse perché gli uscenti erano stati in ufficio alcuni giorni
  insieme coi nuovi eletti, o per altra causa temporanea a noi ignota.
  Tutto ciò non farà maraviglia, se si tien presente, che la costituzione
  fiorentina è ora in uno stato di formazione, quindi sempre incerta e
  mutabile, di che ne avremo molte altre prove.
  
  IX
  Importa qui osservare la parte che aveva il popolo nella costituzione.
  Che le Arti fossero solidamente ordinate nei primi del secolo XII, è
  fuori di ogni dubbio. Il Villani ci dice che i Consoli dei Mercanti
  o sia dell'Arte di Calimala, verso il 1150 «ebbero in guardia dal
  Comune di Firenze la fabbrica dell'opera di S. Giovanni». (I, 60). Ma
  quello che è piú, noi troviamo che il 3 febbraio 1182 gli uomini di
  Empoli, sottomettendosi a Firenze, si obbligarono a pagare ogni anno
  50 libbre di buoni danari, che dovevano dare ai Consoli o Rettori della
  Città, e quando non vi fossero, ai Consoli dei Mercanti, che avrebbero
  ricevuto come rappresentati il Comune.[136] Ora se questi avevano già
  acquistato una tale importanza nel 1182, è chiaro che ciò deve far
  credere ad una esistenza assai piú antica dell'Arte. E se si pensa che
  si tratta dell'Arte di Calimala, quella cioè che raffinava e tingeva i
  panni di lana, fabbricati all'estero, massime in Fiandra, che poi da
  Firenze andavano in tutti i mercati stranieri, si capirà a che grado
  di prodigioso svolgimento dovesse essere già arrivato il commercio
  fiorentino, e quanto piú antico bisogna perciò credere l'ordinamento
  di molte delle sue Arti. Un solo esempio, è ben vero, proverebbe assai
  poco, perché potrebbe interpetrarsi in piú modi; ma ne abbiamo anche
  altri. Il 21 luglio del 1184 si faceva alleanza tra Lucca e Firenze,
  con la dichiarazione, che i patti potevano essere modificati dai
  Consoli fiorentini a _comuni populo electi_, e da 25 Consiglieri, tra
  cui era espressamente stipulato, che dovevano essere compresi i Consoli
  dei Mercanti.[137] Ed il 14 luglio del 1193, nella sottomissione degli
  uomini di Trebbio, i sette _Rectores qui sunt super Capitibus Artium_
  avevano essi soli l'incarico di far inserire i patti nel Costituto
  della Città.[138]
  Ma qui si presenta un'ultima osservazione, la quale ci fa vedere
  di nuovo quanto incerto e mutabile fosse ancora questo governo.
  I documenti, nell'accennare a quelli che erano a capo del Comune,
  dicono quasi sempre: _Consules seu Rectores vel Rector_, e piú tardi
  aggiungono ancora: Potestas sive Dominator.[139] Tutte queste parole
  avevano allora un significato assai generale. Pure lo scrivere nei
  trattati di pace, di alleanza o in altri solenni documenti: i Consoli
  o i Rettori o la Potestà, deve avere una qualche ragione, e tanto piú
  dovrà averla, se si aggiunge che spesso dicevano pure: _Consules qui
  pro tempore erint, et si non erint_ ne faranno le veci i Rettori o la
  Potestà o i Consoli delle Arti. Perché tanta incertezza nell'indicare
  il supremo magistrato della Repubblica? Noi non troviamo che una
  sola spiegazione possibile. Il governo reale, efficace della Città
  era in mano delle associazioni; l'ufficio dei Consoli aveva poche
  attribuzioni, né mai ebbe l'importanza e la forza d'un governo
  centrale, quale noi lo immaginiamo oggi. Lo stesso può dirsi anche dei
  Priori, degli Anziani e degli altri, che vennero dopo; ma è piú che mai
  vero per i Consoli, i quali riunirono la prima volta in un governo solo
  le varie associazioni della Città. Si prevedeva quindi che, per una
  ragione qualunque, non fossero stati nominati, nel qual caso i Rettori
  delle Torri o delle Arti avrebbero naturalmente assunto quel potere
  che da essi emanava direttamente. Noi però non troviamo atti pubblici,
  compiuti in nome di questi Rettori, il che prova che il caso, preveduto
  come possibile, di rado s'avverava.
  Piú volte trovammo menzionati i _Consiliarii_, fra i quali vedemmo
  compresi i rappresentanti delle Arti. Sappiamo infatti che a Firenze,
  come in tutti i Comuni italiani, v'era un Consiglio, che il Villani
  (IV 7, e V. 32) ci dice essere chiamato, «secondo l'usanza data dai
  Romani ai Fiorentini», Senato, e composto di cento Buoni Uomini. Nei
  documenti, è vero, essi sono quasi sempre chiamati _Consiliarii_, una
  sola volta avendo noi incontrato la parola _Senator_;[140] ma Senato
  o Consiglio, Senatori e Consiglieri erano parole che si adoperavano
  allora spesso l'una per l'altra, massime quando si trattava d'un
  Consiglio ristretto o Speciale, come si disse piú tardi. Il numero
  dei Consiglieri non lo troviamo mai con precisione determinato
  nei documenti; crediamo però che quello ricordato dal Villani sia
  alquanto al di sotto del vero, perché abbiamo un giuramento dato da
  133 Consiglieri.[141] Forse se ne eleggevano 20 o 25 per Sestiere,
  numero che poteva anche non essere costantemente lo stesso, dal che
  ne seguiva che il Consiglio si poteva, con vocabolo approssimativo,
  chiamare dei Cento. Ad esso bisogna aggiungere il Parlamento, detto
  pure Arengo,[142] che era un'adunanza generale del popolo, tenuta nelle
  grandi occasioni, per gli affari piú gravi.
  
  X
  Il Comune fiorentino era dunque come una confederazione di Società
  delle Arti e delle Torri. Alla sua testa si trovavano, per la guerra,
  per la finanza, la giustizia e gli affari piú importanti, i Consoli,
  eletti ogni anno, con un Senato o Consiglio di Cento Buoni uomini
  circa, eletti anch'essi ogni anno, e poi il Parlamento. I Consoli erano
  quasi sempre scelti fra i membri che appartenevano alle Consorterie
  delle Torri, e quando, per una qualunque ragione, l'elezione non
  avesse avuto luogo, i Rettori di esse o quelli delle Arti potevano
  temporaneamente farne le veci. Nel Consiglio le Arti avevano la
  preponderanza, e cosí ne seguí che fin d'allora il governo fu veramente
  popolare, e tutta la politica fiorentina fu diretta sempre a favorire
  l'industria ed il commercio della Città.
  A formarci però di un tale governo un'idea anche piú chiara,
  occorrerebbe sapere con precisione quali e quanti erano i cittadini
  che effettivamente vi partecipavano, e su ciò restano ancora parecchi
  dubbî. Il contado veniva interamente escluso dal far parte della
  cittadinanza, la quale non era concessa piena ed intera neppure a
  tutti coloro che abitavano dentro le mura, gli operai minori e la
  plebe essendone privi.[143] Il governo si trovava quindi in mano
  d'alcune potenti famiglie, dei capi delle Arti e dei loro principali
  aderenti. Fino agli ultimi tempi della Repubblica, infatti, la vera
  cittadinanza, che sola dava diritto agli ufficî politici, rimase un
  privilegio concesso a pochi, i quali anche nel 1494 non superavano di
  molto i tre mila. E questa è la ragione per la quale, anche ai nostri
  giorni, v'erano alcune modeste famiglie che si vantavano d'avere
  l'antica cittadinanza fiorentina, come se fosse un ambito privilegio,
  quasi un titolo di nobiltà. In Venezia, fino agli ultimi tempi della
  repubblica, anche nel secolo passato, troviamo ancora diversi gradi
  di cittadinanza, ed il governo sempre in mano di pochi. Questo in ogni
  modo è uno degli argomenti che anderebbero nella nostra storia meglio
  studiati. Nel Parlamento, è vero, s'adunava il popolo indistintamente;
  ma queste adunanze erano il piú delle volte di pura forma. E quando noi
  vediamo che il Parlamento veniva convocato in una piazza, spesso non
  molto grande, o in una chiesa, bisogna pur concludere, che di nome, ma
  non di fatto, vi pigliavano parte tutti gli abitanti delle Città.
  È superfluo poi aggiungere, che allora non si conosceva alcuna esatta
  divisione di poteri, quale si trova nelle costituzioni moderne. Gli
  affari si dividevano piú secondo la loro importanza, e secondo la
  qualità delle persone cui si riferivano, che secondo la loro natura.
  Il Consiglio dei Cento non era, come si crederebbe oggi, un'assemblea
  legislativa, né i Consoli un potere esecutivo. Questi giudicavano,
  amministravano, comandavano in campo, eseguivano la volontà popolare,
  e qualche volta compievano anche atti legislativi, senza il Consiglio,
  che nelle riforme di maggiore importanza era sempre consultato, ma
  assai spesso le votava o le respingeva senza discuterle. Il Parlamento,
  nei casi piú solenni, approvava con un _placet_, senza capir sempre
  neppure di che cosa si trattasse. Da un altro lato non solo gli
  affari d'una certa gravità, massime se occorrevano danari, venivano
  portati in Consiglio; ma questo poteva essere consultato su tutto
  ciò che piaceva ai Consoli, da una proposta di condanna a morte, per
  ragioni politiche, fino alla concessione d'un permesso per trasferire
  la propria abitazione da un Sestiere ad un altro,[144] perché questo
  fatto che a noi apparisce di cosí poco momento, poteva allora alterare
  la distribuzione degli abitanti nelle diverse parti della Città, e
  quindi la forza relativa di esse, e la proporzionale partecipazione dei
  cittadini agli ufficî pubblici, cosa di cui s'era molto gelosi.
  Tale era la forma di governo con cui il Comune di Firenze si costituí
  la prima volta. Esso non era però ancora consolidato, né abbastanza
  sicuro di sé. Il contado, in cui il Comune comandava, era molto
  ristretto; i suoi confini incerti, disputabili e disputati; ed
  anche dentro questi confini la sua autorità era debolissima, perché
  i castelli dei nobili, non solamente si dichiaravano indipendenti
  dalla Città, e non volevano riconoscere altra autorità fuori quella
  dell'Impero, a cui neppur sempre obbedivano; ma le movevano guerra
  continua, e continuamente eccitavano, aiutavano a ribellarsi da essa le
  vicine terre. La prima cosa dunque che occorreva fare in questo momento
  era: impadronirsi del contado colla forza delle armi, sottometterlo
  davvero e governarlo, il che doveva, come vedremo, essere causa di
  molte nuove e gravi perturbazioni, cosí interne come esterne. Esse
  costituiscono la vera storia del Comune fiorentino, la quale ora
  finalmente incomincia.
  
  
  CAPITOLO III
  PRIME GUERRE E PRIME RIFORME DEL COMUNE FIORENTINO[145]
  
  I
  Dopo la morte di Matilde, i messi inviati dalla Germania a riassumere,
  in nome dell'Impero, il Margraviato di Toscana, si successero
  rapidamente gli uni agli altri.[146] Furono quasi tutti uomini piú o
  meno incapaci, che seguirono una politica titubante, senza mai nulla
  concludere. Pigliavano l'autorità di margravî, ma erano ufficiali
  temporanei dell'Imperatore. Privi di forze, ignari del paese,
  s'appoggiavano ora agli uni, ora agli altri, senza distinguere gli
  amici dai nemici; ed intorno ad essi scoppiavano guerre continue, di
  cui non riuscivano mai a capir le ragioni. Un tale stato di cose,
  attissimo a favorire la comunale indipendenza, durò fino al 1162,
  quando Federico Barbarossa cominciò a far sentire la sua mano ferma,
  iniziando una politica piú chiara e determinata, sebbene neppure a lui
  riuscisse di ottenere grandi risultati.
  I Fiorentini furono quelli che piú di tutti seppero profittare di
  questa debolezza dell'Impero. Nel 1129, s'impadronirono del castello
  di Vignale in Val d'Elsa;[147] nel 1135 distrussero quello di
  Monteboni, da cui ebbero nome i Buondelmonti, che dovettero allora
  sottomettersi, con l'obbligo di servire in guerra il Comune, ed
  abitare alcuni mesi dell'anno in Città.[148] Il Villani, a questo
  proposito, osserva che ora il Comune cominciò ad ingrandirsi «colla
  forza piú che con ragione...., sottomettendosi ogni nobile di contado
  e disfacendo le fortezze». Questa infatti fu la politica fiorentina,
  e da essa due conseguenze dovevano inevitabilmente venire. La prima
  era l'ingrandimento del territorio; la seconda, l'introduzione in
  Città d'un numero sempre maggiore di nobili, il che apparecchiava la
  formazione d'un partito aristocratico, avverso al popolo, e quindi le
  guerre civili e i futuri mutamenti di governo.
  Nel giugno 1135 entrava in Firenze il messo imperiale Engelbert,[149]
  che pareva le fosse amico. Egli andò subito verso Lucca, dove toccò
  una grave sconfitta. Fu piú tardi mandato Errico di Baviera, che venne
  con qualche forza, e pareva avverso ai Fiorentini; ma ben presto andò
  via, e gli successe Ulrico d'Attems, che si mostrò loro favorevole,
  anzi nel 1141 andò con essi a fare una scaramuccia contro Siena.[150]
  Queste erano però meteore che apparivano e sparivano. La principale
  guerra dei Fiorentini incominciava adesso contro il conte Guido,
  soprannominato il Vecchio, che era divenuto loro nemico. Occasione
  della rottura era stata un'eredità contestata; ma la ragione vera
  bisogna trovarla nella sua cresciuta e minacciosa potenza. Coi suoi
  possedimenti egli circondava infatti da ogni lato la Repubblica: _per
  se quasi civitas est et provincia_, scriveva di lui il Sanzanome.[151]
  E prima gli tolsero un castello presso Ponte a Sieve, poi assalirono
  quello di Monte di Croce. Ma il Conte, aiutato dalle vicine città,
  poté il 24 giugno 1146, dare ai Fiorentini una disfatta. Pure anche
  allora riuscirono ad ottenere patti vantaggiosi: una parte delle mura
  doveva essere demolita, e sul castello essere innalzata la bandiera
  fiorentina.[152] Ciò fu fatto, e per qualche tempo si ebbe tregua,
  tanto piú che il Conte pare s'allontanasse per altre imprese. Ma piú
  tardi le mura furono ricostruite,[153] ed i Fiorentini, dichiarando
  violati i patti, improvvisamente assalirono nel 1153 il castello, e lo
  demolirono. E cosí _Mons Crucis est cruciatus_, scriveva il Sanzanome.
  Tutto ciò non poteva di certo contribuire alla pace. Il conte Guido
  cedette una parte di Poggibonsi ai Senesi, con obbligo di fortificarlo
  e difenderlo contro i Fiorentini, i quali si apparecchiavano ad
  assalirlo. Accettando il dono, Siena s'impegnava quindi a prendere
  parte attiva alla guerra, che cosí s'allargava.[154]
  
  II
  Se non che, appunto allora lo stato delle cose mutava, perché
  s'incominciò a sentire in Toscana l'azione di Federico I Barbarossa.
  Avvistosi che il duca Guelfo non riusciva a farsi rispettare,
  mandò (1162-3) l'arcivescovo Rainaldo di Colonia, uomo accorto ed
  energico, col titolo di _Italiae archicancellarius et imperatoriae
  maiestatis legatus_, e l'incarico di riordinare l'amministrazione
  imperiale, secondo un nuovo concetto. Federico accettava, come fatto
  inevitabile, la dissoluzione del Margraviato, e voleva direttamente
  assumere il governo delle varie parti di esso, per mezzo di Conti
  o Podestà tedeschi, come già aveva fatto in Lombardia. E Rainaldo
  si mise con ardore all'opera, ponendoli, con presidî tedeschi, nei
  principali castelli del contado: dove i castelli mancavano, ne furono
  costruiti dei nuovi.[155] S. Miniato, con la sua torre in cima del
  colle, col borgo di S. Genesio in basso, fu il centro di questa nuova
  amministrazione. Ivi Rainaldo pose Everardo d'Amern, col titolo di
  _Comes et Federici imperatoris legatus_.[156] Il concetto politico di
  Federico era chiaro e preciso; ma ad attuarlo, contro il volere dei
  Comuni già liberi, contro l'interesse di molti dei conti indigeni,
  sarebbero occorsi gran tempo ed un grosso esercito, cose che allora
  mancavano ambedue. Rainaldo dové ben presto partire per altre imprese,
  e quantunque gli succedesse l'arcivescovo Cristiano di Magonza,
  anch'esso uomo di valore, i risultati pratici dell'opera loro furono
  assai scarsi. Riuscirono solo a cavar danari, smungendo le popolazioni:
  «come buoni pescatori, cosí dice un cronista, stesero abilmente le loro
  reti per tutto». Ma politicamente nulla di stabile fondarono.
  Si videro, è vero, per tutto sorgere i nuovi Podestà tedeschi, i
  _Teutonici_, come li chiamavano. Troviamo infatti ora di continuo
  menzionati il _Potestas Florentiae o Florentinorum_, e cosí quelli
  di Siena, Arezzo, ed altri molti. Dentro le mura, però, delle grosse
  città, poco o nulla potevano, perché in esse continuavano a governare
  i Consoli, i quali nel contado contrastavano l'autorità dei Teutonici.
  Era uno stato di cose che non poteva durare a lungo. Ad alcune
  città amiche, l'Imperatore stesso concedeva, che, per mezzo dei loro
  Consoli, ma in suo nome, esercitassero la giurisdizione dentro le
  mura, qualche volta anche in una parte del contado, esentandone però
  sempre i nobili, spesso le chiese e conventi, che riteneva sotto la
  sua autorità.[157] In tutto il resto dell'Italia centrale dovevano i
  suoi Podestà comandare senz'altro, non avendo egli alcun dubbio sul
  pieno e assoluto diritto dell'Impero. Ma la questione era adesso piú
  di fatto che di diritto, e poteva essere risoluta solo dalla forza, che
  l'Impero non aveva in Toscana. E però quello che ne seguí, fu una gran
  confusione. Le grosse città, e piú specialmente Firenze, continuarono
  a reggersi come prima; nel contado invece Podestà imperiali, Conti
  toscani, signori feudali, grossi e piccoli. Consoli od altri ufficiali
  del Comune si disputavano ogni giorno l'esercizio dell'autorità; e
  le popolazioni non sapevano piú a chi obbedire. Le stesse città, gli
  stessi nobili che si dichiaravano per l'Impero, non si adattavano ai
  disegni di Federico, anzi li combattevano, perché in sostanza a tutti
  puzzava questa signoria teutonica, esercitata da avidi e prepotenti
  ufficiali dell'Impero.
  Una pittura abbastanza fedele di tale stato di cose possiamo cavarla
  dalle antiche deposizioni di testimoni, che furono, in diverse
  occasioni, chiamati a dare autentici ragguagli sulle condizioni del
  paese. Coloro che andarono a deporre sul monastero di Rosano, ce lo
  descrivono come dipendente dal conte Guido, che era continuamente
  costretto a difenderlo «dal castellano di Montegrossoli, da altri
  Teutonici e dai Consoli fiorentini», che tutti presumevano esercitarvi
  la loro autorità. Essi ci fanno vedere a Monte di Croce, Consoli di
  quella terra e vice-comiti, i quali comandano nello stesso tempo, e
  sono costretti a difendersi dai Teutonici, dalle pretese dei Consoli
  e di altri ufficiali del Comune fiorentino.[158] Né minore confusione
  descrivono quelli che furono, in altra occasione, chiamati a deporre
  sul castello e sulla valle di Paterno, il cui dominio veniva disputato
  tra Fiorentini e Sanesi. Un testimone dice, che ai suoi tempi vide
  comandare colà, come in tutto il contado fiorentino, un tal Pipino,
  _Potestas Florentiae_. Un altro ricorda di aver percorso la Valle
  di Paterno e tutto il contado fiorentino, in compagnia dei Consoli
  del Comune e di un Teutonico. Parecchi affermano di esservi andati
  ora con Pipino, ora con altri Teutonici, ora coi Consoli, i quali
  tutti erano obbediti del pari, e riscotevano tasse. Singolare è la
  deposizione d'un Giovanni _de Citinaia_, che fece lungo racconto delle
  vicende seguite colà, negli ultimi tempi. Narrò d'un prete, che svelse
  dal suolo un grosso pilastro, di cui, non sapendo a quale scopo vi
  fosse posto, voleva servirsi per la costruzione della sua chiesa. Ma
  pesava tanto che, con un carro e due buoi, non riuscí a portarlo via.
  Laonde i contadini ivi presenti, esclamavano: _Domine sacerdos, male
  fecisti, quia est terminus inter Florentinos et Senenses_. Dopo di
  ciò, cosí continuava il teste, due individui andarono dal castellano
  di Montegrossoli, dicendogli che se li secondava nel far ricostruire
  il castello di Paterno, gli avrebbero fornito le prove dei diritti che
  aveva sopra di esso. Il castellano corse lieto a Firenze per ottenerne
  l'assenso; ma tornò in fretta, dicendo che smettessero di lavorare,
  avendo i Fiorentini ricusato, perché veniva in Toscana l'arcivescovo
  Cristiano di Magonza, il quale già era in Lombardia. Allora i Senesi,
  profittando della occasione propizia, demolirono i lavori abbandonati,
  e spadroneggiarono essi. Di certo non è possibile immaginare una
  moltiplicità maggiore, una maggior confusione e contrasto di autorità
  e di diritti.[159]
  Per Firenze e pei Comuni di Toscana in genere, non v'era quindi ora
  da far altro, che profittare d'ogni occasione opportuna a sostenere,
  colle armi o coll'astuzia, i proprî diritti. La guerra era già
  scoppiata tra Pisa e Lucca, con la quale s'era unito il conte Guido,
  nemico dei Fiorentini, che fecero perciò trattato d'alleanza con Pisa.
  Ne ottennero molti vantaggi pel loro commercio, impegnandosi però
  a pigliar parte attiva nella guerra.[160] E lo facevano volentieri,
  perché si trattava non solo di combattere i Lucchesi, ma anche il conte
  Guido e Cristiano di Magonza, che li sostenevano. Parve dapprima che
  Cristiano, ponendo, il 23 marzo 1173, Pisa al bando dell'Impero, e
  togliendole cosí tutti i privilegi già prima concessi, la inducesse
  alla pace. Infatti il 23 maggio fu concluso un accordo (cui erano
  presenti anche i Fiorentini), con obbligo che fra Pisa e Lucca si
  procedesse allo scambio dei prigionieri. Il bando fu ritirato il 28 del
  mese stesso, e la pace venne solennemente conclusa in Pisa, il primo di
  giugno.
  Ma dopo due mesi avvenne un fatto inaspettato, che fece correre
  subito alle armi. Il 4 di agosto l'arcivescovo aveva invitato a San
  Genesio i Consoli di Pisa e di Firenze; e quando furono colà, li fece
  improvvisamente prendere e gettare in carcere. Che cosa era seguito
  di nuovo, per voler rendere inevitabile la guerra, dopo aver tanto
  cercato la pace? Si sono immaginate molte spiegazioni, ma una cosa
  sola si sa di certo. Il 5 maggio 1172, mentre cioè che erano già
  innanzi le trattative di pace, s'era a Firenze stretto un segreto
  accordo, al quale i Pisani non potevano essere rimasti estranei. Alcuni
  Samminiatesi, cacciati dalla loro terra come ribelli all'Impero,[161]
  avevano, nel palazzo del vescovo di Firenze, giurato non solo di far
  causa comune coi Pisani e coi Fiorentini; ma di dar loro la terra
  di San Miniato, se riuscivano a riprenderla, anche quando la torre
  fosse rimasta in mano dei Tedeschi.[162] Il fatto è certo, perchè il
  documento che stringeva l'accordo è arrivato fino a noi. Non è un
  vero e proprio trattato, non essendovi stati presenti i Consoli, e
  mancandovi le formole essenziali alla vera legalità. Ma l'aver giurato
  e firmato nel palazzo del vescovo; l'avervi preso parte alcuni dei
  principali cittadini, fra cui uno degli Uberti;[163] l'aver conservato
  il documento in Archivio,[164] sono prove che i governi delle due città
  non furono estranei all'accordo, e che si voleva solo nasconderne
  o mascherarne la vera importanza. Da tutto ciò, dalla mala voglia e
  lentezza con cui procedeva lo scambio dei prigionieri, Cristiano si
  persuase che la pace era fittizia, che volevano aggirarlo e tradirlo.
  Perduta quindi la pazienza, si lasciò andare all'atto imprudente
  ed inconsiderato, che rese ormai impossibile la pace da lui tanto
  desiderata.
  I Fiorentini erano infatti già nell'agosto a Castel Fiorentino, dove i
  Pisani, accampati a Pontedera, mandarono loro in aiuto 225 cavalieri,
  con due dei proprî Consoli. Cristiano s'avanzò subito col conte Guido e
  coi Lucchesi; ma questi ultimi dovettero abbandonarlo, perché i Pisani,
  consigliati a ciò dai Fiorentini, erano entrati nel loro territorio e
  lo devastavano. Tuttavia, sebbene stremato di forze, egli affrontò il
  nemico, e combatté con valore accanto alla bandiera; ma fu disfatto.
  Noi ignoriamo il seguito della guerra; certo è però che Cristiano ben
  presto partí, che nel 1174 i Samminiatesi ribelli tornarono con onore
  nella propria terra, e che finalmente nell'anno seguente si concluse
  una pace fra le tre città combattenti.[165]
  I Fiorentini intanto continuavano sempre a sottomettere città e
  castelli nel loro contado.[166] Sin dal 1170 avevano costretto a
  duri patti gli Aretini,[167] amici del conte Guido, ed ora andarono
  a combattere sotto le mura d'Asciano, terra vicina ad Arezzo, la
  quale s'era sottoposta in parte ad essi, in parte ai Senesi, che
  volevano ora impadronirsene del tutto. Questi furono, il 7 luglio
  del 1174, disfatti, lasciando al nemico un migliaio di prigionieri, e
  dovettero quindi, sottomettersi a condizioni di pace assai dure.[168]
  Le trattative andarono in lungo, ma furon pure concluse nel 1176. I
  Fiorentini vennero riconosciuti legittimi padroni di tutto il contado
  fiesolano e fiorentino, ed ebbero una parte di ciò che possedevano in
  Poggibonsi i Senesi, i quali dovevano aiutarli nelle loro guerre, salvo
  contro l'Impero ed i suoi messi, che[169] promettevano cercare con
  ogni opera di rendere amici di Firenze. V'erano anche parecchie altre
  durissime condizioni.[170] Che i Fiorentini riuscissero ad imporre
  tali patti, dopo la piccola guerra d'Asciano, è certo una prova della
  loro cresciuta potenza; ma è certo ancora che, se i Senesi non erano
  per sempre decaduti, questa non poteva essere che una pace fittizia e,
  dopo molto esitare, conclusa solamente per ottenere la liberazione dei
  prigionieri.
  
  III
  Questi trionfi esterni si ripercotevano però in modo impreveduto
  nell'interno della Città. Il governo dei Consoli, con la prevalenza
  in esso del partito popolare, aveva sempre piú lasciato da parte i
  potenti, massime la consorteria degli Uberti, i quali ben di rado noi
  troviamo ora alla testa del Comune,[171] di che, come era naturale,
  si mostravano assai poco contenti. Invece le continue sottomissioni
  di castelli e terre avevano in Città aumentato sempre piú il numero
  dei nobili di contado. I quali, se dapprima, come semplici _assidui
  habitatores_ o _cives salvatichi_, non potevano pigliar parte al
  governo, potevano unirsi agli scontenti, ingrossarne il numero e la
  forza. Divenuti coll'andare del tempo, veri e proprî cittadini, ebbero
  modo d'operare piú efficacemente. E cosí ne seguí finalmente, che nel
  1177 gli Uberti presero animo a tentare una rivoluzione, la quale fu la
  prima delle guerre civili in Firenze.
  Tutti i cronisti ne parlano, e non dovette esser cosa di poco momento,
  perché durò due anni circa, con molto spargimento di sangue, con
  incendi che distrussero gran parte della Città, al che s'aggiunse
  anche una piena d'Arno, che fece crollare il Ponte Vecchio. Il Villani
  descrive i due incendî seguíti nel 1177, dal Ponte al Mercato Vecchio,
  il primo; da San Martino del Vescovo a Santa Maria Ughi ed al Duomo,
  il secondo; poi descrive la caduta del ponte, ed aggiunge, al solito,
  che tutto ciò fu giusto giudizio di Dio contro la Città divenuta
  ingrata, superba e piena di peccati. Della rivoluzione seguita nello
  stesso tempo, egli discorre come se con gl'incendi non avesse relazione
  alcuna. Gli Uberti, esso continua, che erano «i piú possenti e maggiori
  cittadini di Firenze, co' loro seguaci nobili e popolani, cominciarono
  guerra contro i Consoli, che erano signori e guidatori del Comune, a
  certo tempo e con certi ordini, per la invidia della Signoria che non
  era a loro volere. E la guerra fu cosí aspra che si combatteva in piú
  
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