I primi due secoli della storia di Firenze, v. 1 - 02

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l'istituzione è divenuta affatto diversa da ciò che era stata in
origine, ma spesso per lungo tempo sopravvive alla istituzione stessa.
Ed è singolare allora veder le ingegnose ipotesi che si fanno, per
dar corpo e realtà a questi nomi, che son divenuti ombre d'un passato
che s'è dileguato. Per uscire da un simile laberinto non v'è altro
mezzo, che provarsi a ricostruire la serie dei mutamenti principali,
che ciascuna di siffatte istituzioni ebbe, e non perder mai di vista
le relazioni che esse serban fra loro nelle continue vicende cui
vanno soggette. Solo cercando la legge che regola e domina questi
mutamenti, è possibile ritrovare il concetto generale della Repubblica,
determinare il valore delle sue istituzioni.
Ma come fare, se molti degli elementi piú necessari a compiere un
tale lavoro ci mancano? L'erudito ancora non ha ordinata, studiata,
illustrata la serie infinita delle Provvisioni, degli Statuti, delle
Consulte e Pratiche, delle Relazioni degli ambasciatori, in una
parola degli atti ufficiali della Repubblica, molti dei quali non
furono neppure cercati o trovati. Noi tuttavia crediamo che, senza
volere ora scrivere una vera e propria storia di Firenze, resti pure
a fare un lavoro non del tutto inutile. Possiamo di certo prendere a
guida gli antichi storici e cronisti, in quelle parti solamente nelle
quali parlano come testimonii oculari, cercando dove è necessario, di
temperare il loro spirito partigiano, col metter loro a riscontro gli
scrittori d'avverso partito. La serie dei documenti pubblicati alla
spicciolata, e di erudite dissertazioni, è pure vastissima, sebbene
non ancora compiuta; nelle difficoltà e lacune principali si può
agevolmente ricorrere all'Archivio fiorentino. E dopo siffatte indagini
a noi è sembrato, che sia agevole dimostrar chiaramente come tutta
quanta la storia di Firenze possa rischiararsi d'una nuova luce, e il
suo apparente disordine possa scomparire. Le rivoluzioni politiche di
Firenze, infatti, per poco che uno le esamini attentamente, cercandone
le cagioni vere e reali, al di sotto delle apparenti, che spesso
ingannano, si succedono con un ordine logico maraviglioso. Al piú
strano disordine, sembra allora che venga rapidamente a sostituirsi una
successione e connessione matematica di cause e di effetti. Gli odii
e le gelosie personali non sono cagioni, ma occasioni che accelerano
il rapido e febbrile avvicendarsi di quelle riforme, per le quali il
Comune fiorentino, percorrendo tutte le costituzioni politiche allora
possibili, arrivò, di grado in grado, alle piú larghe libertà di cui
il Medio Evo era capace. Ed è questo scopo cosí nobile, questa libertà
cosí larga, ciò che ridesta tutte quante le forze intellettuali e
morali nel seno della Repubblica, che produce un maraviglioso acume
politico, ed in mezzo ad un apparente disordine, fa fiorire cosí
splendidamente le lettere, le arti e le scienze. Quando poi gli odii
e le passioni esclusivamente personali prevalgono, allora il disordine
comincia davvero, la costituzione si corrompe, e la libertà precipita
al suo fine.
Con questo scritto non si presume altro, che dare un breve saggio della
storia di Firenze nei tempi in cui furono fondate le sue libertà. Il
soggetto è di tale importanza, che lo storico Thiers se ne è lungamente
occupato, e sentiamo che un illustre Italiano vi abbia già dedicato
molti anni d'assidue ricerche.[8] Se queste pagine potessero servire
d'annunzio o d'incitamento alla pronta pubblicazione d'un'opera
che dovrà certo onorare le nostre lettere, esse non sarebbero certo
inutili.

II
La storia di tutte le repubbliche italiane può dividersi in due
grandi periodi: l'origine del Comune, lo svolgimento della sua
costituzione e delle sue libertà. Nel primo periodo, in cui una
società vecchia si decompone e ne sorge una nuova, male si può la
storia d'un Comune dividere da quella degli altri, perché si tratta
di Goti, di Longobardi, di Greci e di Franchi, che dominano, volta a
volta, gran parte d'Italia, ponendola, quasi per tutto, nelle medesime
condizioni. Lo stato dei vincitori e dei vinti è lo stesso, mutando
solo col variare dei dominatori. In mezzo alla oscurità dei tempi ed
alla scarsità delle notizie, le differenze che passano fra una città
e l'altra d'Italia sono allora assai poco visibili. Esse però si
determinano assai piú chiaramente, e divengono sempre maggiori dopo il
primo sorgere delle libertà. Di tutte queste origini le piú oscure,
quantunque non le piú antiche, son forse quelle di Firenze, la quale
assai tardi incomincia ad acquistare la sua grande importanza. Siccome
qui è nostro proposito illustrar solo la storia della costituzione
fiorentina, cosí diremo poche e brevi parole sul primo dei due periodi
accennati, cioè sull'origine dei Comuni italiani in generale.
È una quistione su cui si agitò un tempo lunga, erudita e vivissima
disputa, specialmente fra scrittori italiani e tedeschi. Ma il rigore
scientifico di queste ricerche, nelle quali i dotti italiani molto si
fecero onore, venne spesso diminuito dal patriottismo e dai pregiudizii
nazionali. Si vedeva che nelle origini del Comune erano anche le
origini delle libertà e della società moderna, e quindi il problema
si trasformava tacitamente in quest'altro: sono gl'Italiani oppure
i Tedeschi gli autori di queste libertà, di questa società? È facile
capire in che modo le passioni politiche venissero allora a prender
parte nella disputa, togliendole la necessaria serenità.
Sul finire del secolo scorso la quistione era stata molte volte
discussa fra noi da uomini dottissimi, con diversi intendimenti
(Giannone, Maffei, Sigonio, Pagnoncelli, ecc.). Il Muratori, senza
avere un sistema prestabilito, gettò dei lampi di luce maravigliosa sul
soggetto, sollevandolo, colla sua portentosa erudizione, ad una grande
altezza. Non cominciò tuttavia la disputa a divenire ardente, fino a
che il Savigny non venne a trattar l'argomento nella sua immortale
_Storia del diritto romano nel Medio Evo_. Volendo egli dimostrare
la non mai interrotta continuità di quel diritto, siccome tutto nella
storia si collega, dovette di necessità sostenere che gl'Italiani sotto
i barbari, anche sotto i Longobardi, non avevano perduto ogni libertà
personale, ogni antico diritto, e che il municipio romano non era mai
stato compiutamente distrutto. Il risorgimento perciò delle nostre
repubbliche e del diritto romano, altro non era che un rinnovamento
di antiche istituzioni, di antiche leggi non mai affatto scomparse.
In Germania furon subito comprese le conseguenze ultime, cui menavano
le idee del grande storico, ed allora l'Eichorn, il Leo, il Bethmann
Hollweg, Carlo Hegel ed altri si levarono a combattere l'opinione d'una
origine romana del Comune italiano. Essi sostennero, invece, che i
barbari, massime i Longobardi, la cui signoria era stata infatti piú
lunga e dura di tutte le altre, ci avevano tolto ogni libertà, avevano
distrutto ogni traccia d'istituzioni romane, in modo che i nuovi Comuni
e i loro Statuti furono una creazione nuova, la cui prima origine si
doveva solo ai popoli germanici.
Queste opinioni avrebbero, secondo ogni apparenza, dovuto trovare nel
patriottismo degl'Italiani un'ardente opposizione, e quelle del Savigny
ottenere un favore universale. Eppure non fu cosí. Non mancarono fra
noi molti e dotti seguaci né dell'una né dell'altra scuola. Allora
si ridestava lo spirito nazionale, si desiderava, si voleva già
un'Italia unita, a prezzo di qualunque sacrifizio, e si odiava ogni
cosa che a questa unità fosse sembrata avversa. Ebbene i Longobardi
erano stati sul punto di dominar tutta Italia, e solo il Papato aveva
potuto, col chiamare i Franchi, fermare le loro conquiste. Se ciò non
avesse fatto, l'Italia, fin dal nono o decimo secolo, avrebbe potuto
essere una nazione unita come la Francia. Era allora già risorta fra
noi quella scuola che, sin dai tempi del Machiavelli, aveva veduto
nel Papato la cagione funesta delle divisioni d'Italia. E, come era
naturale, questi Ghibellini del secolo XIX, confutando le opinioni del
Savigny, esaltarono i Longobardi, si provarono a lodarne la bontà e
l'umanità, maledissero il Papa, che aveva impedito il loro universale
e permanente dominio in Italia. Ma v'era un'altra scuola politica,
che invece sperava il risorgimento d'Italia dal Papa, e questa, che
prevalse poi nella rivoluzione del 1848, prese a sostenere l'opposta
sentenza, e trovò i suoi due piú illustri rappresentanti nel Manzoni
ed in Carlo Troya. Ad essi non fu difficile provare che, in fin
dei conti, i barbari erano poi stati barbari davvero; che avevano
ucciso, distrutto, calpestato ogni cosa, e che il Papa, col chiamare i
Franchi, qualunque fine avesse avuto, era pure stato di qualche aiuto
alle moltitudini duramente oppresse. I Franchi, infatti, sollevarono
alquanto le popolazioni latine, permisero l'uso della legge romana,
dettero nuovo potere ai Papi ed ai vescovi, che contribuirono di
certo al risorgimento dei Comuni. Cosí, con opposti intendimenti, le
medesime opinioni venivano sostenute al di qua e al di là delle Alpi.
In questa disputa, senza che gli scrittori stessi ne fossero sempre
consapevoli, l'erudizione era sottoposta a fini politici; la serenità
e la verità storica ne soffrivano non poco. Il Balbo, il Capponi ed il
Capei, inclinando chi piú da un lato, chi piú dall'altro, vennero poi
a sostenere opinioni assai temperate, e con la loro dottrina portarono
sulla questione moltissima luce.
In vero la difficoltà principale nasce tutta dal perché pochi si
vogliono persuadere, che nel Medio Evo, come in tutta quanta la storia
moderna, si trova sempre l'azione vicendevole, continua di due popoli,
latini e germanici, e che delle piú grandi rivoluzioni politiche,
sociali, letterarie, non è mai possibile dar tutto il merito ad uno
di essi solamente. Anzi là dove sembra piú evidente che si tratti
dell'assoluta prevalenza d'uno di essi, bisogna andare tanto piú
guardinghi, e cercar la parte che spetta all'azione dell'altro. A
pesare poi e misurare equamente i vicendevoli diritti, che essi hanno
nella storia, meglio assai d'un sistema ispirato da idee politiche,
riuscirebbe una descrizione imparziale. Quando, in vero, i fatti
sono bene accertati, il sistema non è piú necessario, perché le
idee generali risultano naturalmente da essi. Se qui fosse permesso
portare il paragone di tempi molto diversi, si potrebbe osservare,
che nel secolo XVIII la letteratura francese invase la Germania,
fu generalmente imitata, e ne derivò, per conseguenza inaspettata,
un rinnovamento della letteratura nazionale tedesca. Sarebbe egli
necessario, per esaltare il carattere nazionale di questa letteratura,
sostenere che quella grande diffusione dei libri francesi fu sognata
dagli storici? Piú tardi la bandiera francese entrò in quasi tutte le
città della Germania, ed il popolo tedesco fu umiliato, calpestato.
Da quel momento noi vediamo lo spirito nazionale tedesco rinnovarsi e
ridestarsi vigorosamente. Dovremo dire che questo ridestarsi fu opera
dei Francesi? Non val meglio descrivere gli eventi come seguirono,
lasciando da un lato le teorie prestabilite? Comprendo bene l'abisso
che sépara questi fatti recenti dagli antichi; ma pure mi sembra
che avesse ragione il Balbo, quando osservava, che l'essersi potuto
disputare sull'origine dei Comuni con tanto ardore e con tanta
dottrina, cosí lungamente dalle due scuole opposte, dimostrava che
la verità non era né tutta da un lato, né tutta dall'altro. Noi
accenneremo dunque rapidissimamente le conclusioni che ci paiono piú
ragionevoli.
Ognuno sa che, dopo le prime incursioni dei barbari, i quali
devastarono l'Impero e piú volte saccheggiarono anche Roma, vi furono
in Italia cinque vere e prorie invasioni. Odoacre con una banda di
ventura, composta di gente raccolta in paesi diversi, alla quale si
dette generalmente il nome di Eruli, fu colui che vibrò il colpo di
grazia nell'anno 476, e divenne padrone d'Italia per piú di dieci anni,
senza quasi governarla, solo pigliando il terzo delle terre. Ma dalle
sponde del Danubio s'era mossa una gente nuova, che portava il nome
di Goti, divisi in Visigoti ed Ostrogoti. I primi, sotto il comando
d'Alarico, avevano già prima assediato e saccheggiato Roma; i secondi
vennero nel 489, comandati da Teodorico, e furono ben presto padroni di
tutta Italia. Il regno di Teodorico fu molto lodato. I capi di questi
primi barbari avevano spesso passato parte della loro vita servendo
nelle legioni romane, e avevano qualche volta ricevuto educazione
romana; sentivano perciò anch'essi una grande ammirazione per la maestà
dell'Impero, che nell'ebbrezza delle loro vittorie venivano ora a
distruggere. Teodorico ordinò il governo; prese, secondo il costume
barbarico, un terzo delle terre pei suoi; lasciò ai Romani le loro
leggi, i loro magistrati. In ogni provincia fu un conte che ne ebbe
il governo, e giudicò gli Ostrogoti; i Romani s'amministrarono colle
proprie leggi, e con esse erano giudicati da un tribunale misto delle
due genti. Ma a poco a poco il governo di Teodorico divenne sempre piú
duro e meno tollerabile ai Romani, che dopo la sua morte si sollevarono
contro i suoi successori, e chiamarono in aiuto i Greci dell'impero
d'Oriente. Una tal sollevazione peggiorò assai le loro condizioni,
giacché i Goti, per sostenersi, cominciarono ad uccidere i Romani, a
togliere la libertà e le istituzioni che avevano ad essi lasciate,
ordinando un governo militare e assoluto. Questo governo trovarono
Belisario e Narsete, quando vennero da Costantinopoli a liberare e
riconquistare gl'Italiani; questo governo imitarono coi loro duchi
o duci. Gli Ostrogoti avevano dominato l'Italia per cinquantanove
anni (493-552), e i Greci la tennero ben altri sedici (552-568). Fu
anch'esso un governo tutto militare, sotto il generalissimo Narsete; i
duci, i tribuni, i giudici minori erano nominati in nome dell'Impero.
I nuovi venuti presero al solito una parte delle terre, che ora andò
probabilmente al fisco. La loro tirannia fu diversa, perché non di
barbari, ma di uomini corrotti e quindi anche piú dura.
I Greci avevano cacciato i Goti, ed i Longobardi vennero a cacciare
i Greci. A poco a poco essi progredirono nelle loro conquiste, ed in
quindici anni furono padroni di tre quarti d'Italia, lasciando solo
alcuni lembi di terra, piú specialmente verso il mare, ai Greci, che
non poterono mai cacciare del tutto. Misero profonde radici nel suolo
italiano, dove restarono per piú di due secoli (568-773), dominando
con assai dura tirannia. Presero il terzo delle terre, tennero
quasi come servi gl'Italiani, non rispettarono né le leggi, né le
istituzioni romane. Sotto di essi parve distrutta l'antica civiltà,
e s'apparecchiarono i germi della nuova, i cui primi passi restano
ancora in una grande oscurità. Tutte le dispute intorno alle origini
dei nostri Comuni cominciarono appunto dall'esame delle condizioni
in cui erano gl'Italiani sotto i Longobardi. Se l'antica tradizione
fu spezzata, e ne cominciò un'altra del tutto nuova, ciò fu sotto il
dominio longobardo. Se essa, invece, fu solo profondamente alterata,
per poi rinvigorirsi e rinnovarsi, ciò dovette seguire nel medesimo
tempo.
Se non che, là dove il dominio greco era restato, una piú incerta e
debole signoria lasciava le popolazioni meno oppresse; laonde sin dal
settimo e ottavo secolo si videro sorgere a nuova vita alcune città.
Il Comune incominciò presto a formarsi anche in Roma, dove era assai
cresciuta la potenza del Papa, nemico dei Longobardi, i quali, venuti
fra noi di religione ariana, cominciarono col non rispettare i vescovi
cattolici, né il clero minore, nessuna cosa sacra o profana, e piú
tardi minacciarono la stessa Città eterna. Cosí, per salvarsi da un
nemico esoso e vicino, il Papa invitava i Franchi a liberare la Chiesa
e l'Italia dalla oppressione, ed essi vennero fra noi, condotti prima
da Pipino, poi da Carlo Magno, che cacciò i Longobardi, rafforzò con
donativi di terre il Papa, il quale poté sin d'allora apparecchiare
il suo dominio temporale. In compenso di ciò, Carlo fu coronato
imperatore, e venne cosí restaurato l'antico impero d'Occidente
col nuovo impero dei Franchi, cui successe poi il sacro Impero
romano-germanico.
Ed allora il disfacimento delle istituzioni barbariche, che già era
cominciato in Italia, divenne assai piú rapido. Si vide nella società
italiana un fermento, che annunziava il principio d'un'èra novella.
Si trovavano accanto, e mescolate insieme, istituzioni, consuetudini,
leggi, tradizioni longobarde, greche, franche, ecclesiastiche e romane.
Segue un lungo e violento tumulto d'uomini e di cose, in cui il nome
italiano appena si ode. Tutte le vecchie e le nuove istituzioni
sembrano lottare fra loro, ed invano cercano impadronirsi della
società, quando a un tratto sorge il Comune, che risolve il problema, e
l'èra delle libertà incomincia. Come dunque è sorto il Comune? Ecco la
stessa domanda, che continuamente ricomparisce.
Noi non vogliamo qui seguire quei dotti, che dalla frase incerta d'un
antico codice, dalla dubbia espressione d'un cronista hanno voluto
cavare ingegnose e complicate teorie. È certo che l'Impero romano
era un aggregato di municipî, i quali s'amministravano da sé stessi.
La città era la molecola primitiva, la cellula, se cosí può dirsi,
della grande società romana, che incominciò a sfasciarsi, quando
nella capitale venne a mancare la forza di attrazione necessaria a
tenere unito un cosí gran numero di città, separate da vastissime
campagne, deserte o popolate solo da schiavi che le coltivavano. I
barbari, invece, non conoscevano il vivere cittadino, ed il _Gau_ o
_Comitatus_ (onde la parola contado), in cui erano appena embrioni
di città o piuttosto villaggi, che qualche volta venivano bruciati,
nel trasferirsi delle genti da un luogo ad un altro, era come l'unità
primitiva della società germanica. Il conte coi suoi giudici comandava
e giudicava nel comitato; i capi delle schiere erano a lui sottoposti,
e divennero poi baroni. Piú comitati uniti formarono i Ducati o
Marchesati, in cui l'Italia fu allora divisa, e tutto il popolo
invasore era comandato da un re eletto dal popolo.
Quando adunque i popoli germanici si sovrapposero ai latini, il Gau
si sovrappose alla città, che anzi divenne parte di esso. E i conti,
come capi militari, comandarono la terra conquistata, della quale i
vincitori presero un terzo. Cosí fecero i Goti; cosí fecero i Greci,
ponendo i loro duci là dove avevano trovato un conte; cosí fecero i
Longobardi. Se non che, la signoria di questi ultimi fu, massime nei
primi tempi, assai piú dura, e la loro storia è molto oscura. Essi
cominciarono coll'uccidere i piú ricchi e potenti Romani; presero, a
quanto pare, il terzo non delle terre, ma della rendita, lasciando
cosí i popoli oppressi senza proprietà libera, e quindi in una
condizione anche peggiore. I Goti avevano lasciato i Romani vivere
a lor modo, ma i Longobardi non rispettarono nessuna legge, nessun
diritto, nessuna istituzione dei vinti. In tutti gli ufficî regi,
in tutti gli atti pubblici, osserva a questo proposito il Manzoni,
non si trova mai un personaggio italiano, nemmeno immaginario.[9]
Ma da un'assoluta tirannia, da una vera e propria soggezione, alla
distruzione totale d'ogni legge, d'ogni diritto, d'ogni istituzione
romana ci corre un gran tratto. Perché i Longobardi, che qualcuno fa
ascendere a circa 130,000 uomini, avessero potuto davvero estinguere
la vita romana per tutto, bisognerebbe supporre un'azione governativa
cosí ordinata, disciplinata, costante, permanente, che sarebbe
irreconciliabile con lo stato barbarico di quella gente. Come potevano
essi, incapaci di comprendere la vita romana, inseguirla per tutto, ed
estinguerla? Ammesso pure, quistione del resto anch'essa disputata,
che ai Romani non fosse lasciata nessuna proprietà libera; ammesso
che il diritto romano non fosse stato legalmente riconosciuto mai,
né rispettato da' Longobardi, non ne viene per conseguenza, che quel
diritto, che ogni avanzo di civiltà romana fosse allora distrutto.
Piú giusta assai e piú credibile sembra l'opinione di coloro i quali
sostennero, che i Longobardi, venendo in Italia, pensassero molto piú
a sé che agl'Italiani, pei quali non provvedessero legalmente nulla,
contentandosi di tenerli sottoposti al loro arbitrio.[10] Cosí i vinti,
nelle loro relazioni private, e dovunque l'azione del governo barbarico
non arrivava, poterono continuare a vivere col diritto romano, con le
loro secolari consuetudini. I Romani ed i Longobardi restano, in vero,
sulla terra italiana come due popoli fra loro estranei; la fusione tra
vinti e vincitori, altrove cosí facile, dopo due secoli si dimostra
in Italia sempre difficile. La tenacia e la persistenza della stirpe
latina fra di noi è tale, che i vinti possono piú facilmente essere
ridotti in ischiavitú o uccisi, che perdere la personalità loro.
Infatti, appena che la necessità delle cose e il lungo convivere
avvicinano i vincitori ai vinti, diviene inevitabile ai barbari far
larghe concessioni alla civiltà dei Latini, che par sempre estinta e
sempre si ritrova in vita. Come comprendere altrimenti quel piegarsi, a
poco a poco, del diritto longobardo sotto la forza maggiore del diritto
romano; come spiegare quella specie di nuovo diritto che sorge col
tempo, e che il Capponi chiama _quasi edifizio romano su germaniche
fondamenta_?
A misura che i Longobardi si fermano stabilmente in Italia, essi
cominciano a vivere nelle città, che non poterono mai distruggere del
tutto; cominciano a desiderare una proprietà stabile, e però, al tempo
del re Autari, invece del terzo dei frutti, presero una parte anche
maggiore delle terre. Il che, se da un lato aggravò la condizione dei
vinti, dall'altro, lasciando ad essi una libera proprietà, la migliorò
grandemente.[11] E se, come osserva il Manzoni, noi non troviamo
alcun regio ufficiale, né grande né piccolo, di sangue romano, è certo
del pari che i Longobardi avevano pure bisogno di amministratori, di
costruttori, di artefici, e dovettero perciò ricorrere ai Romani, in
ciò tanto piú abili di loro. Il che fece che le antiche _Scholae_ o
associazioni di Arti si mantennero in vita per tutto il Medio Evo,
come sappiamo anche dei _maestri comacini_, alla cui opera spesso
ricorsero i vincitori. Per quanto rozza e scomposta fosse la forma,
in cui queste associazioni poterono resistere all'urto barbarico,
pure erano un elemento dell'antica civiltà, di cui in qualche modo
mantennero il filo non interrotto. Intorno ad esse rimanevano pure,
come abbarbicati, altri avanzi e tradizioni della stessa civiltà,
e quando ogni altra forma di governo, ed ogni protezione mancò agli
abitanti delle città, quelle associazioni poterono pigliar qualche
cura del pubblico bene. Lo stesso antico municipio, che si trovò in sul
principio abbandonato alle proprie forze, non chiuse qualche volta le
porte della città ai barbari, difendendosi, quasi governo indipendente?
Non riuscí qualche volta a respingerli? Vinto, domato, calpestato, si
può supporre che fosse per tutto ugualmente distrutto, scomparso per
fino dalla memoria dei Latini, in modo da doverlo supporre, quando
torniamo a vederlo, risorto per opera dei popoli germanici, o sia di
popoli che non avevano conosciuto le città prima di venire fra noi? Non
cominciarono le città greche del mezzogiorno d'Italia a risorgere fin
dal VII e VIII secolo, al tempo cioè dei Longobardi, e certamente non
per opera di tradizioni germaniche? Non sorse nello stesso tempo il
Comune romano? E se gli antichi municipî, caduti sotto i Longobardi,
e quindi piú crudelmente oppressi, aspettarono ancora quasi quattro
secoli, non seguirono allora anch'essi l'esempio delle città sorelle?
Che significa la tradizione tanto diffusa, che solo nella greca Amalfi,
esempio d'indipendenza e libertà alle altre repubbliche, Pisa poté
trovare e prendere colla forza il volume delle Pandette romane, che
conservò come il suo piú prezioso tesoro? Tutta la storia posteriore
del Comune non è forse una lotta continua della risorta gente latina
contro gli eredi della gente germanica? Che se la civiltà latina
era stata totalmente distrutta, strano davvero sarebbe che i morti
si levassero poi a combattere ed a battere i vivi. A noi dunque par
chiaro che i Longobardi nulla lasciarono per legge ai vinti, ma che
pur non poterono realmente toglier loro ogni cosa; molto tollerarono
o non videro, e la tradizione, la consuetudine, la persistenza della
razza mantennero vivi gli avanzi della civiltà latina. Cosí solo si
riesce a spiegar come, dopo una lunga e dura oppressione, la quale
sembrava avere distrutto ogni cosa, non appena che incominciò a seguire
qualche strappo in quella forte catena di barbari, che stringeva cosí
crudelmente le popolazioni italiane, subito risorsero le istituzioni
latine, e riguadagnarono il terreno perduto.
La società barbarica aveva non solo una forma, ma anche un'indole
essenzialmente diversa dalla latina. Quello che s'è chiamato
individualismo germanico, a differenza della sociabilità latina, era
il suo carattere predominante. Si osserva una tendenza costante a
dividersi in gruppi separati e indipendenti. Era un corpo il quale,
quando perdeva quella forza d'unione e di coesione, che gli veniva
dal moto e dall'impeto della conquista, subito si sminuzzava, si
sgretolava. Dalla vita nomade e selvaggia, dal sangue stesso pareva che
i barbari avessero ereditato una personalità e indipendenza eccessiva,
che rendeva loro difficile il sottomettersi lungamente ad una comune
autorità. Cosí colla pace cominciavano subito a manifestarsi i germi
d'una divisione che li indeboliva. In fatti, quando i Longobardi
s'ebbero assicurata la conquista di quasi tutta Italia, la divisero in
trentasei Ducati, governati da duchi indipendenti e signori assoluti
in ciascuno di essi. Sotto i duchi erano qualche volta i conti, che
abitavano le città secondarie, e comandavano nei Comitati; nelle città
ancora piú piccole si trovano spesso gli sculdasci. Duchi, e sculdasci
giudicavano, secondo il diritto longobardo, in compagnia dei giudici
assessori, che sotto i Franchi si maturano negli scabini. I capi delle
schiere, poco a poco, si resero padroni di castelli e ne divennero poi
signori quasi indipendenti. V'erano i gasindi uffiziali regi, anch'essi
potentissimi. E come i duchi finirono col dichiararsi indipendenti
dal re, cosí il conte e gli sculdasci desideravano indipendenza dal
duca, sebbene ancora non vi riuscissero. Pei vinti non v'era, nel primo
secolo della conquista, diritto né protezione riconosciuta, e neppure
l'autorità del clero e dei vescovi veniva rispettata. L'oppressione
fu cosí dura, che nella storia del dominio longobardo, sembra che il
popolo oppresso non esista, ed in nessuna piú favorevole occasione si
vede mai un serio e vero tentativo di rivolta. Non bastò a muoverlo
neppure l'esempio delle città libere del mezzogiorno.
Se non che, come già abbiamo accennato, era cresciuta di molto la
potenza della Chiesa, la quale non sapeva tollerare la superbia ed
oltracotanza di questi barbari, che per essa avevano assai poco
rispetto. Quindi il Papa pensò di cacciare uno straniero con un
altro, ed invitò i Franchi a venire in Italia. Carlo Magno, primo
fondatore del nuovo Impero non poteva avere pei Latini, dei quali
s'era pur molto vantaggiata la rinascente civiltà de' suoi Stati, quel
barbarico disprezzo rimasto inestinguibile nei Longobardi. Egli voleva
estendere le sue conquiste, il suo potere; voleva rafforzare il Papa,
per esser da esso consacrato e moralmente aiutato. Venne quindi in
Italia, e la già disgregata famiglia dei Longobardi mal poté resistere
alla forte unità franca, ringagliardita dalle sue vittorie. Invano i
Longobardi s'erano già eletto un re e gli prestavano obbedienza, invano
s'apparecchiarono alla difesa; dopo 205 anni di dominio sicuro e quasi
non contrastato, il loro regno cadde per sempre. Nel 774 Carlo Magno
era padrone della terra italiana, e l'anno 800 venne in Roma coronato
dal Papa imperatore. L'Impero occidentale era cosí ricostituito e
consacrato sotto nuova forma, separato affatto e indipendente da quello
d'Oriente. I Franchi tolsero ai Longobardi tutto il loro dominio, meno
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