I primi due secoli della storia di Firenze, v. 1 - 15

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guelfi, fatti nobili, s'univano agli altri, e pigliando nome di Grandi,
si trovavano subito in opposizione col popolo, e ridestavano tutto
l'antico odio della democrazia fiorentina, la quale, come non aveva
voluto in passato tollerare la superbia feudale dei Ghibellini, cosí
non voleva ora tollerare neppure quella dei vecchi e nuovi Guelfi.
Bisognava dunque in ogni modo frenarli, ed a ciò pareva opportuno
consiglio richiamare i Ghibellini loro nemici e del Re. Il popolo
avrebbe in tal modo ricevuto forza dalla divisione dei nobili, e
lasciandoli consumarsi fra loro, avrebbe anche indebolito il numero di
coloro che si dimostravano troppo ossequenti a Carlo. Il quale perciò
non poteva farsi illusione di sorta sul segreto significato di questi
maneggi, e massimamente sulle vere intenzioni del Papa. Egli sapeva
che questi sollecitava ora i Tedeschi ad eleggere Rodolfo d'Asburgo
a re dei Romani, perché cessasse l'interregno imperiale, e quindi
il vicariato di Carlo. Quale altra ragione poteva avere il Papa per
desiderare un Imperatore, se non quella d'indebolire la potenza degli
Angioini? Pure il Re ed il Papa s'infingevano, e sembravano essere
tuttora nel migliore accordo del mondo; ma il vicendevole sospetto
traspariva continuamente.
Gregorio X aveva convocato pel 1274 un Concilio in Lione, a fine
d'indurre i Cristiani a combattere gl'infedeli; passò, nel suo viaggio,
per Firenze, dove arrivò il 18 giugno 1273, e vi si fermò appunto, cosí
egli affermava, per farvi la pace generale. Veniva con tutto il seguito
dei cardinali e prelati; con l'imperatore di Costantinopoli, Baldovino
II, che sollecitava il soccorso dei Cristiani contro gl'infedeli, con
re Carlo d'Angiò, che in segno di onore e d'ossequio, diceva di non
voler lasciar solo il Papa in Firenze. E questi trovando assai lieta
una tale dimora, decideva di passarvi la state. Il 2 di luglio era il
giorno fissato per la gran pace tra Guelfi e Ghibellini, ed i sindachi
degli uni e degli altri erano in Città. Sul greto dell'Arno, in gran
parte asciutto, presso al Ponte alle Grazie, furono costruiti palchi
di legno, sui quali salirono a sedere il Papa, l'imperatore Baldovino
e Carlo d'Angiò. In presenza d'una gran moltitudine ivi accorsa, fu
dato il giuramento di pace; i sindachi si baciarono; il Papa pronunziò
la sua benedizione, minacciando la scomunica contro chiunque osasse
violare il giuramento. Furono dati ostaggi, ceduti castelli dall'una e
dall'altra parte, in pegno della giurata fede. Tutto pareva che fosse
seguíto secondo le benevole intenzioni del Santo Padre, il quale aveva
preso alloggio nel palazzo dei Mozzi suoi banchieri. Baldovino abitava
al Vescovado, e Carlo in alcune case nel giardino de' Frescobaldi.
Altro non restava che darsi bel tempo in Firenze, aspettando il ritorno
dei Ghibellini per festeggiarli. Ma ad un tratto si seppe, che i
sindachi dei Ghibellini, invece di eseguire le ultime clausole della
pace, s'erano dati a precipitosa fuga. E la ragione di ciò si disse
essere stata, che il vicario di Carlo aveva fatto loro intendere,
che se non partivano subito, egli li avrebbe, a richiesta dei Grandi
guelfi, fatti tagliare a pezzi. Il Papa allora se ne partí senz'altro
pel Mugello, assai adirato, non solo contro il Re, ma piú ancora contro
i Fiorentini, che si dimostravano indifferenti a tutta questa commedia,
e lasciò la Città interdetta pel giuramento violato.
Carlo intanto proseguiva la sua politica aggressiva contro i
Ghibellini, e i Fiorentini lo secondavano, andando con la bandiera
del Comune, qualche volta soli, piú spesso in compagnia dei cavalieri
francesi, ad imporre la pace ed il trionfo della Parte in tutte le
vicine città. Ma qualche volta spinsero la loro superbia troppo oltre.
I Bolognesi avevano cacciato i Ghibellini, ed essi, non richiesti, si
misero subito in moto per portar loro aiuto. Ma con grande maraviglia,
quando furono sul fiume Reno, trovarono i Bolognesi che li aspettavano
pronti a respingerli. Avevano voluto e saputo, colle proprie armi,
cacciare i Ghibellini; ma non volevano che Firenze, sotto colore di
portare aiuti, venisse colla sua alterigia a seminare anche fra di loro
gli odî delle sue parti. Il Podestà dei Fiorentini, che voleva andar
oltre, venne ucciso, ed essi dovettero, umiliati, tornarsene a casa
(1274).
Piú fortunati furono contro Pisa, che, lacerata dalle sue fazioni,
aveva cacciato Giovanni Visconti giudice di Gallura ed il conte
Ugolino della Gherardesca di Donoratico, nobili ambiziosi, i quali
da parte ghibellina erano passati a parte guelfa, e chiesero aiuto ai
Fiorentini, che subito li concessero. E allora andarono tutti, insieme
coi Francesi, a muover guerra all'antica rivale, cui nel settembre
del 1275 presero il castello d'Asciano. Nel giugno del seguente
anno, istigati dai medesimi fuorusciti, tornarono in campo, con piú
grosso esercito, aiutati dai Lucchesi e da altri Guelfi, insieme col
Maresciallo del Re, e dopo una nuova vittoria obbligarono Pisa a fare
la pace il 13 giugno del 1276, a richiamare gli esuli, specialmente il
conte Ugolino, la cui ambizione doveva poi portare a sé stesso ed alla
sua città guai infiniti.
Intanto papa Gregorio, tornato da Lione, era giunto in Toscana nel
dicembre del 1275, e non voleva entrare in Firenze, contro cui si
dimostrava sempre irritatissimo; ma l'Arno era cosí grosso, che dovette
pure traversarlo sopra uno dei ponti della Città, e sospese perciò
l'interdetto su di essa, ma solo durante il tempo del suo passaggio.
Egli moriva poco dopo, il 10 gennaio 1276, ed in un solo anno gli
succedevano rapidamente tre nuovi papi: Innocenzo V, Adriano V,
Giovanni XXI; e finalmente veniva eletto (25 nov. 1277) Niccolò III,
che restò sulla sedia pontificale tre anni, nei quali riprese con piú
ardore che mai la politica di Gregorio X. Ambizioso e superbo, esso
voleva sollevare non solo l'autorità pontificia, ma anche il nome
della sua famiglia. Fu egli che ricominciò lo scandalo del nepotismo
e della simonia, facendo cardinali alcuni de' suoi parenti, ad altri
dando ufficî assai importanti. Ma quando pensò di dare una sua nipote
in moglie ad un nipote del re Carlo, questi ne ferí mortalmente
l'orgoglio, dicendo: — Che sebbene il Papa avesse il calzamento rosso,
non per ciò il suo sangue s'era nobilitato abbastanza, per potersi
mescolare con quello dei reali di Francia.[307] — E Niccolò III, che
già era insospettito e scontento del Re, non poté facilmente perdonar
questa ingiuria. Valendosi quindi della prima opportunità, fece
osservare a Carlo, che se Rodolfo di Asburgo non era ancora venuto a
Roma per farsi coronare imperatore, era pure stato eletto in Germania
Re de' Romani, il che rendeva inutile e vana la continuazione del
vicariato, a lui concesso solo durante l'interregno. E cosí Carlo
dovette finalmente lasciare il vicariato di Toscana, il titolo di
Senatore di Roma, ed anche la giurisdizione sulle terre di Romagna
e delle Marche, la quale in parte aveva ottenuta, in parte usurpata.
Vedendo che a questo colpo non v'era rimedio possibile, il Re cedette
subito, senza pure far mostra del piú piccolo risentimento, tanto che
il Papa ebbe ad esclamare: — Questo principe avrà ereditato la sua
fortuna dalla casa di Francia, la sua astuzia dalla Spagna; ma la
sua accortezza nel discorrere deve averla imparata frequentando la
Corte di Roma.[308] — Pure non si lasciava punto illudere da questa
apparente tranquillità di Carlo, e profittava d'ogni occasione che
potesse scemarne la potenza, accrescendo quella della Santa Sede.
Cosí quando Giovanni da Procida percorreva l'Italia, cercando fautori
alla rivoluzione siciliana, che doveva piú tardi scoppiare, trovò
incoraggiamento nel Papa. Profittando poi della occasione opportuna,
questi che tanto favoriva Rodolfo, ottenne da lui, che riconoscesse
l'estensione del dominio della Chiesa sino ai confini del regno di
Napoli da un lato, e dall'altro v'includesse la Marca d'Ancona, la
Romagna e la Pentapoli. Erano presso a poco i medesimi confini, che lo
Stato della Chiesa ritenne sino ai nostri giorni. In parte, è vero,
i Papi non ebbero allora che un alto dominio piú che altro nominale;
ma seppero, a poco a poco e con molta costanza, trasformarlo poi in
dominio effettivo.

V
Niccolò III infatti cominciava col mandare a pacificar la Romagna,
suo nipote il cardinale Latino dei Frangipani, domenicano, che aveva
reputazione di grande oratore, perché in questo modo si cominciasse
a far sentire la nuova autorità della Chiesa, e con lui mandò anche
il conte Bertoldo Orsini. Dopo una breve dimora colà, il Cardinale
fu inviato a Firenze, per tentare una seconda volta e con migliore
successo, quella pace fra i partiti, che Gregorio X non era riuscito a
concludere. Questa volta i Fiorentini stessi ne avevano mostrato vivo
desiderio. Liberati dalla troppo grave protezione di Carlo, sentivano
ora le tristi conseguenze della sua politica. I Grandi, sempre
irrequieti, erano cresciuti di numero e di potenza, e minacciavano di
dividere lo stesso partito guelfo. «Riposati», dice il Villani, «dalle
guerre di fuori con vittorie e onori, e ingrassati sopra i beni de'
Ghibellini usciti, e per altri loro procacci, per superbia e invidia
cominciarono a riottare tra loro; onde nacquero in Firenze piú brighe e
nimistadi tra' cittadini, mortali e di ferite».[309] Avevano cominciato
gli Adimari, per odio contro i Tosinghi, poi i Pazzi e i Donati, a
far nascere subbuglio; e si vedeva che questo era un principio di mali
maggiori. Fu perciò che i Guelfi inviarono messi a pregare il Papa, che
mandasse a pacificare la Città, se non voleva vedere lacerata la stessa
parte guelfa. Uguale desiderio dimostravano i Ghibellini, stanchi del
lungo esilio, delle confische continue, e per la speranza avevano, che
l'odio popolare, essendosi ormai acceso anche contro i Grandi guelfi,
potesse essere divenuto piú mite contro di loro.[310]
Il cardinale Latino adunque entrò in Firenze il dí 8 ottobre 1279, con
300 fra cavalieri e prelati, e fu accolto con ogni specie di onori.
Gli venne incontro il clero fiorentino, e la Repubblica mandò anche il
carroccio con gran numero d'armeggiatori. Egli, come domenicano, prese
alloggio nel convento di S. M. Novella, dove pose la prima pietra per
la fondazione della celebre chiesa di quel nome. E incominciò subito
le pratiche per la pace. Il 19 novembre furono costruiti alcuni palchi
sulla piazza di S. M. Novella Vecchia, e fatto in essa, presenti i
magistrati ed i Consigli, radunare il Parlamento, il Cardinale chiese
ed ottenne di poter concludere la pace con l'autorità stessa che aveva
il popolo, il che voleva dire facoltà di por taglie, fare confische,
occupare castelli, per sicurtà dei patti che sarebbero stati giurati.
Incominciò poi a tentare accordi fra quelli che piú s'odiavano, tra
quei Guelfi che eran fra loro divisi, tra i Ghibellini, tra Guelfi e
Ghibellini. E la cosa riuscí fino a che non si venne ai Buondelmonti
ed agli Uberti, tra i quali i vecchi odî erano cosí profondi, che
non vi fu modo a conciliarli, essendosi alcuni di loro sdegnosamente
ricusati. Laonde il Cardinale dovette risolversi a scomunicare ed a
far bandire dal Comune i piú renitenti. Finalmente il 18 gennaio 1280
fu stabilito di concludere la pace generale. Nella piazza di S. Maria
Novella Vecchia era grande apparecchio di palchi, di arazzi, di teli
che ricoprivano la piazza stessa. Vennero i Dodici, il Podestà, il
Capitano del popolo, che allora chiamavasi della Massa di parte guelfa,
coi loro Consigli; vennero tutti gli altri magistrati e grandissimo
popolo. Il Cardinale comparve finalmente in mezzo ai suoi prelati, da
tutti aspettato, anche perché doveva parlare, ed aveva voce d'essere
uno dei piú eloquenti oratori del suo tempo. Parlò sulla utilità e
necessità della pace, che finalmente fu letta. Con essa si poneva fine
a tutti gli odî antichi; si ordinava che fossero resi ai Ghibellini
i beni confiscati, capitale e parte anche degl'interessi; che si
cancellassero le sentenze, i giuramenti, le leghe o consorterie fatte
da una parte a danno dell'altra, levando dagli Statuti tutto ciò che
poteva alimentare questi odî. Richiese 50 mallevadori da ciascuna
delle parti, con obbligo di pagare 50,000 marchi d'argento, quando la
pace fosse violata. Volle alcuni castelli per maggiore sicurezza, e si
riserbò di chiedere anche altri mallevadori. Seguiva un numero assai
grande di minute condizioni tutte intese allo stesso fine. Molte delle
principali famiglie restavano confinate fino a che non avessero fatta
pace coi loro avversarî, e data, con danaro e con ostaggi, sicurtà
di mantenerla. I sindachi delle parti si baciarono in bocca, gli atti
dell'accordo furono solennemente rogati, e i bandi e le condanne delle
parti furono cancellati o arsi. Gli esuli poterono tornare; il Capitano
e le Capitudini ebbero, senza pregiudizio del Podestà, l'incarico di
mantenere inalterate le condizioni della pace. E per questa ragione
il Capitano non doveva piú d'ora innanzi essere chiamato Capitano
della parte guelfa, ma della Città, e Conservatore della pace. Essendo
poi cessato l'ufficio di Vicario imperiale concesso a Carlo, veniva
ordinato del pari, che d'ora innanzi Podestà e Capitano sarebbero per
due anni eletti dal Papa, e avrebbero ciascuno a loro comando 50 uomini
a cavallo e 50 a piedi. Dopo due anni, l'elezione tornerebbe al popolo,
con l'obbligo di non nominare alcuno contrario a Santa Chiesa, la quale
doveva anzi approvare la scelta. Avrebbero ciascuno a loro comando 100
uomini a cavallo e 100 a piedi, che non dovevano essere né della Città
né del distretto, per potere cosí meglio riuscire a mantener la pace. A
questo fine dovevano contribuir pure le Arti, che anch'esse giurarono.
Si dovevano rivedere gli Statuti, riformare il governo della Città,
fare un estimo dei beni di coloro i quali erano condannati a multe o a
risarcimenti di danni.[311]
Da tutto ciò parrebbe, che al Cardinale fosse stata concessa quasi
una dittatura temporanea di fare e disfare a suo arbitrio. Ma molte
di queste condizioni di accordi egli le propose dopo aver consultato
i magistrati, e di molte altre i Fiorentini tennero poi il conto che
vollero. La pace si desiderava dal popolo, per le ragioni che abbiamo
accennate, e si dette piena balía al Cardinale, perché, con l'autorità
sua e della Chiesa, la conducesse a termine. Ma egli ottenne in realtà
meno assai che non parrebbe. Continuò infatti la costituzione della
Parte guelfa; continuarono le divisioni a lacerare la Città, appena
che il 24 d'aprile egli fu partito, non senza aver prima ricevuto
_Mille floreni auri in pecunia numerata, et alie zoie empte pro Comuni
Florentie_.[312]
Tuttavia nel febbraio e nei primi di marzo, egli, contento assai del
buon successo che si lusingava d'avere ottenuto, attese a concludere
molte amicizie anche fra quelli che erano rimasti confinati; cercò
d'attuare le riforme della costituzione, accennate nella pace, e
principalmente sostituí ai Dodici, Quattordici Buoni uomini, otto dei
quali dovevano esser Guelfi e sei Ghibellini. Essi, che insieme col
Capitano e coi Consigli, ebbero il governo della Città, mutavano ogni
due mesi. Continuarono però a durare un anno l'ufficio del Podestà
e del Capitano. L'autorità del primo era stata, sotto il dominio
di re Carlo, che lo nominava, diminuita assai; e però si cercava
adesso accrescere quella del Capitano e dei Dodici, che divenuti ora
Quattordici, formavano la Signoria vera e propria.[313]
Su questa mutazione della Signoria ogni due mesi, che continua sino
agli ultimi tempi, si è molto ragionato in senso diverso. Certo la
Repubblica non poteva aver pace in un cosí rapido alternarsi del
supremo magistrato; ma noi abbiamo già piú volte osservato, che
la nuova costituzione delle Arti aveva ridotto a ben poca cosa le
attribuzioni del governo centrale. E da un altro lato, la tendenza,
che sembrava manifesta in tutte le repubbliche italiane, di cadere
nella tirannide, rendeva i Fiorentini sospetti d'una Signoria che
durasse piú lungo tempo. Specialmente ora che tornavano i Ghibellini,
si temeva che essa fosse spinta a cospirare per sostenere l'ambizione
di qualche tiranno, che da un momento all'altro poteva sorgere. Furon
queste le ragioni per le quali si volle da un lato scemare l'importanza
del Podestà, e da un altro mutare cosí spesso non solo i capi del
governo, ma, come vedremo, anche altri ufficî politici; e piú tardi si
ricorse alla elezione a sorte, sempre per evitare che in nessun caso
riuscisse possibile l'attuazione di un disegno prestabilito a danno
della libertà.[314]

VI
Intanto il Re dei Romani mandava in Italia un suo Vicario con soli
300 uomini, per vedere in quali disposizioni fosse il paese, e se le
città riconoscevano ancora la loro soggezione all'Impero. Il Vicario,
arrivato in Toscana, si fermò a S. Miniato al Tedesco, e trovò i
Pisani, sempre ghibellini, pronti a fare subito atto d'obbedienza;
ma le altre città toscane ricusarono; i Fiorentini, per mezzo di
danaro, lo corruppero, e mostrandogli l'inutilità della sua impresa,
lo persuasero d'andarsene, riconoscendo i privilegi che essi avevano
ottenuti dal Papa. In questo modo, la mutata politica di Roma riusciva
a loro vantaggio, di che seppero abilmente profittare, e a danno
di Carlo d'Angiò, che perdette ogni autorità nell'Italia centrale.
Niccolò III, rievocando l'Impero, incoraggiando Rodolfo di Asburgo, e
mettendolo di fronte a Carlo, aveva saputo indebolire l'uno e l'altro,
accrescendo forza al papato. E i Fiorentini, con non minore accortezza,
s'erano valsi di Carlo per dominare la Toscana; del Papa per indebolire
Carlo; e finalmente dell'uno e dell'altro, per non sottomettersi a
Rodolfo.
Niccolò III moriva nel 1280. Egli aveva costretto Carlo a lasciare
la Toscana, a contentarsi di ricevere l'investitura della Provenza e
del Reame da Rodolfo. E perché questi accordi ricevessero una qualche
sanzione, s'era anche stretto un parentado, avendo Rodolfo dato la
propria figlia in moglie ad un nipote di Carlo. Ma questi, come era
naturale, assai di mal'animo accettava tutto ciò, anzi non tralasciava
mai di sobillare in segreto i Guelfi di Toscana contro i Ghibellini,
che ora alzavano la testa. E conoscendo già per lunga esperienza che
grande differenza vi fosse tra l'avere amici o nemici i Papi, corse
ad Orvieto, dove s'era adunato il nuovo Conclave, deciso a far di
tutto per avere una elezione a lui favorevole. Secondo il suo solito,
egli operò senza scrupoli e senza esitare. Visto che i cardinali
temporeggiavano, né avendo tempo da perdere, promosse una rivoluzione,
per la quale il popolo s'impadroní di due cardinali di casa Orsini,
parenti del Papa defunto ed avversissimi agli Angioini. Dopo di che,
l'elezione ebbe luogo, ed il 22 febbraio 1281 fu proclamato papa
Martino IV, il quale, francese e di re Carlo amicissimo, si dette
subito a favorirne la politica ed a sostenere i Guelfi.
Ma le condizioni generali dell'Italia erano assai mutate, e però il
trionfo ottenuto da Carlo a Viterbo, non valse ad impedire che le
conseguenze già preparate dalle sue crudeltà nel Reame e dalla politica
di Niccolò III, avessero il loro effetto. L'accordo concluso da questo
con Rodolfo fu continuato anche dal nuovo Papa, che raccomandò alle
città italiane di fare buona accoglienza alla figlia di lui, la quale
veniva sposa al nipote del Re. Ed anche Firenze dovette accoglierla
con onore, sebbene fosse accompagnata da un Vicario imperiale, che al
solito si fermava a S. Miniato, per cercare di far rivivere in Toscana
i diritti dell'Impero. Ma un mutamento assai piú grave avvenne quando
nel marzo 1282, i Siciliani, stanchi della mala signoria, raccolsero
il guanto gettato al popolo da Corradino, e coi _Vespri_ cominciarono
quella sanguinosa rivoluzione, che, dopo una lunga e gloriosa guerra,
doveva per sempre togliere l'Isola agli Angioini. I Fiorentini, per
tenersi fedeli al partito guelfo, e non irritar troppo né il Papa né
Carlo, mandarono a questo 500 cavalieri, i quali, sotto il comando del
conte Guido di Battifolle de' conti Guidi, con la bandiera del Comune,
andarono all'assedio di Messina. Ma la rivoluzione superò tutto, ed
essi vennero come gli altri battuti, lasciando anche la bandiera in
mano del nemico. L'Isola fu inevitabilmente perduta dai Francesi.
Era assai naturale che i Fiorentini, prima ancora che scoppiasse la
rivoluzione dei Vespri, avessero aperto gli occhi, e pensato ai casi
loro. Vedendo che il Vicario imperiale era venuto con poca gente, e
non trovava gran seguito, cercarono subito contentarlo con danari, ed
ottennero che, riconosciute le antiche concessioni fatte loro, se ne
partisse. Nello stesso tempo, profittando della debolezza di Rodolfo,
combattuto in casa sua, e della lontananza di Carlo, già nel Reame
turbato dal pensiero dei gravi avvenimenti che s'apparecchiavano in
Sicilia, posero mano a riformare la loro costituzione. E prima di
tutto, ora che il Podestà ed il Capitano erano eletti non piú dal Re,
ma dal Papa, vollero accrescerne la forza, per mantenere la Città
tranquilla, mettendo un freno alle prepotenze dei Ghibellini, ed
all'arbitrio dei Grandi, che ogni giorno divenivano piú minacciosi.
Questi ultimi specialmente facevano colla violenza cancellare i bandi
dei magistrati, impedivano l'esecuzione delle leggi, commettevano o
promovevano gli omicidi per vendette partigiane, e tenevano perciò la
Città continuamente perplessa. Quindi s'ordinò che il Podestà avesse
mano piú libera a procedere severamente contro tutti i delitti, e che
il Capitano avesse maggior forza a mantenere la pace, a punire coloro
contro i quali il Podestà non usasse subito il dovuto rigore. E i
Grandi dovettero dare non solo promessa di sottostare alle leggi, ma
anche sicuri mallevadori, affinché se, commesso il delitto, riuscissero
ad evadere, vi fosse sempre in Città chi scontasse la pena, o pagasse
la somma, cui veniva condannato colui pel quale s'era dato mallevaria
o _sodato_, come allora dicevasi. Tutti i vagabondi e gli oziosi
furono cacciati dal territorio della Repubblica, e coloro che avevano
dimostrato odio contro qualche privato cittadino, dovettero far
promessa di rinunziare alla vendetta, dandone anch'essi mallevaria. E
perché a tutti questi ordini si desse esecuzione, furono scelti dalla
cittadinanza mille uomini armati, 200 del Sesto di S. Piero Scheraggio,
200 di quello di Borgo, e 150 dagli altri, che, divisi in compagnie,
con un gonfalone per Sesto, furono messi, 450 sotto gli ordini del
Podestà, e 550 sotto quelli del Capitano. Le insegne eran loro date
da quei due magistrati in presenza di pubblico Parlamento, e quando la
campana sonava per raccoglierli, non era permesso tenere radunanze in
Città.[315]
Questa riforma parve necessaria anche perché, durante la signoria di
Carlo, era andato in disuso l'ordinamento del popolo armato sotto
i Gonfalonieri delle Compagnie, e la tranquillità cittadina si era
mantenuta con l'aiuto dei soldati stranieri, per la qual cosa anche
il Capitano aveva perduto una parte di quella importanza, che gli
veniva ora restituita. Ma oltre di ciò noi troviamo che i Quattordici
governavano senza adunare il Consiglio dei Cento, il quale nei
documenti sembra infatti scomparso. Da ciò e anche dal trovarsi essi
fra loro divisi, perché otto dovevano esser guelfi e sei ghibellini, ne
venne che la loro autorità, invece di crescere, s'andava indebolendo.
Si pensò quindi ad un'altra riforma, quando la notizia dello scoppio
dei Vespri lasciava ai Fiorentini le mani piú libere. Tre cose essi
avevano sopra tutto di mira. Rendere la Repubblica indipendente dal
Papa, dall'Imperatore e da Carlo; farla finita coi Ghibellini, perché
nobili e aderenti sempre all'Impero, che riaffacciava le sue pretese
in Toscana; abbassare la superbia dei Grandi, guelfi o ghibellini
che fossero, perché colle loro prepotenze turbavano di continuo la
Città. Ed anche per questa ragione si era finito col non piú osservare
neppure i patti della pace del cardinale Latino; specialmente non
si erano pagate le somme promesse ai danneggiati ghibellini. Inoltre
il di 8 febbraio 1282 si strinse una lega guelfa con Lucca, Pistoia,
Prato, Volterra, e Siena, che dovette per forza aderirvi; e si lasciò
luogo d'entrarvi anche a S. Gimignano, Colle e Poggibonsi. Si giurò di
restare per 10 anni uniti a difesa comune, con obbligo di prendere a
soldo 600 cavalieri col loro seguito, e s'aggiunse al solito una specie
d'unione doganale fra gli alleati.
Ma ciò che per Firenze ebbe piú grande importanza fu la riforma
interna. Le Arti, massime alcune delle maggiori, andavano acquistando
un ordinamento sempre piú vigoroso, e con esso aumentava il loro
potere politico. Le Capitudini infatti compariscono nei documenti
sempre piú spesso, accanto ai Quattordici, al Capitano, al Podestà.
Ed ora appunto (1282-3) noi troviamo anche un _Defensor Artificum et
Artium_ con due Consigli, il che dimostra di certo la cresciuta potenza
di queste.[316] Esso, è vero, piú tardi scomparisce e si fonde col
Capitano; ma ciò avvenne dopo che le Arti stesse salirono addirittura
al governo della Repubblica. Intanto già partecipavano alla elezione
dei Quattordici, e li consigliavano. I cronisti ci dicono che, con
una riforma del giugno 1282, i Priori delle Arti, pigliando il luogo
dei Quattordici, salirono finalmente al Governo; ma in verità ciò non
avvenne ad un tratto, come apparirebbe dalle loro parole. Noi troviamo
invece, che per qualche tempo, i Quattordici (come seguiva sempre nelle
riforme fiorentine) continuarono a governare insieme coi nuovi Priori,
sino a che, dinanzi all'importanza crescente di questi, finalmente
scomparvero. Certo è che il 15 giugno del 1282 furono messi a capo
della Repubblica tre _Priori delle Arti_, uno dell'Arte di Calimala,
il secondo dei Cambiatori, il terzo della Lana. Ebbero sei berrovieri
e sei messi, per chiamare i cittadini a Consiglio; abitavano nella
casa della Badia, donde non uscivano mai, e deliberavano di regola
insieme col Capitano. I Quattordici continuarono ancora qualche tempo,
piú che altro _pro forma_, a comparire accanto ad essi.[317] Passati i
primi due mesi, si vide la necessità d'aumentare il numero dei Priori,
non solo perché quello di tre appariva troppo ristretto; ma ancora
perché, dovendo essere scelti ora in una metà, ora in un'altra dei sei
sestieri, pareva che il loro governo rappresentasse sempre una parte
sola dei cittadini. E cosí nell'agosto di quell'anno, senza metter
tempo in mezzo, alle tre Arti già menzionate furono aggiunte quelle
dei Medici e Speziali, dei Setaioli e Merciai, dei Vaiai e Pellicciai.
Piú tardi ve ne furono aggiunte anche altre, ma il numero dei Priori
restò fermo a sei, uno per Sesto. «Le loro leggi... (dice il Compagni)
furono, che avessino a guardare l'avere del Comune, e che le Signorie
facessino ragione a ciascuno, e che i piccoli e impotenti non fossino
oppressati dai grandi e potenti».[318] Quelli che uscivano d'ufficio,
insieme con le Capitudini e con alcuni cittadini aggiunti, cui si dava
nome d'_Arroti_, eleggevano ogni due mesi i successori.
Il Villani afferma che il nome di Priori fu preso dal Vangelo, là
dove Cristo dice ai discepoli: _Vos estis priores._ Certo è però che
con questa riforma le Arti o sia il commercio e l'industria salirono
addirittura al governo della Repubblica; ed è pur notevole che,
sebbene quelle che abbiamo qui sopra nominate, costituissero, insieme
con i giuristi e notai, le sette Arti maggiori, pure di questi, forse
perché non rappresentavano né l'industria né il commercio, non si fa
qui dai Cronisti menzione alcuna. Certo d'ora in poi la Repubblica è
proprio una repubblica di mercanti, e solo chi è ascritto alle Arti può
governarla: ogni grado di nobiltà antica o nuova è piú un danno che un
privilegio.
Infatti molte delle piú grandi famiglie cominciarono a mutare i loro
nomi, per nascondere l'antica e nobile origine. I Tornaquinci si
divisero in Popoleschi, Tornabuoni, Giachinotti, ecc.; i Cavalcanti in
Malatesti e Ciampoli; altri presero altri nomi.[319] Ciò nonostante,
molti ritennero con orgoglio i nomi e i titoli antichi, e quando
il principe di Salerno, figlio di re Carlo, chiamato a Napoli dalla
Provenza, passò per Firenze, egli, imitando l'uso paterno, vi si fermò
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