I primi due secoli della storia di Firenze, v. 1 - 13

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politico-industriali, chiamate Arti maggiori ed Arti minori, le quali,
cominciate nei primordî del Medio Evo, andarono assumendo anche una
grande forza ed autorità politica, ed acquistarono un grandissimo
predominio nella Città. Cosí s'erano formate adesso molte famiglie
di nuovi potenti, quasi una nuova aristocrazia del danaro e del
lavoro, o, come incominciavano già a chiamarla, di popolani grassi,
divenuti di fatto i veri padroni della cittadinanza fiorentina.[285]
I Ghibellini quindi, a poco a poco, si trovarono al governo, come una
casta separata, e si dovettero sempre piú reggere con la sola amicizia
di Manfredi, e con l'aiuto de' suoi Tedeschi. Quasi gente accampata
in terra straniera, erano andati perdendo di giorno in giorno ogni
ascendente morale e politico, ogni civile autorità sopra i popolani,
i quali colle loro industrie ed il loro commercio, s'erano come
formato un mondo a parte, costituendosi in una società divisa, e, fra
certi limiti, indipendente da chi li governava. Rivolgersi dunque
ai piú autorevoli fra costoro, era difficile e pericoloso, perché
essi, capi del popolo guelfo, non potevano chiedere altro che la sua
partecipazione al governo, il che sarebbe stato ben presto la rovina
dei Grandi e dei Ghibellini. Dare, di loro propria iniziativa, parziali
riforme neppure era facile ai Grandi, perché non si sapeva quali, né
come darle, ora che il popolo si sentiva già in forza da dominar la
Città. Si pensò quindi a chiamar da Bologna due cavalieri del nuovo
Ordine detto dei Frati Gaudenti, il cui ufficio era di soccorrere
vedove e pupilli, metter pace fra i partiti avversi. E perché apparisse
un qualche segno piú visibile d'imparzialità, si volle che fossero
guelfo l'uno, ghibellino l'altro. E tutto ciò fu fatto col consenso,
anzi quasi per consiglio di papa Clemente IV, il quale, provenzale e
grande sostenitore di Carlo d'Angiò, scriveva continuamente lettere
imperiose[286] ai Fiorentini, come se per la vacanza dell'Impero, ne
potesse egli assumere l'autorità, e come se, per la vittoria di Carlo,
fosse divenuto il loro padrone.
Questi frati gaudenti però, il cui Ordine durò poco, erano, secondo
il Villani, uomini dati piú ai loro piaceri, che capaci di trattar
seriamente l'impresa loro affidata di far come da podestà in Firenze,
proponendo anche le nuove riforme. E tanto ciò era evidente, che essi
stessi videro subito la necessità di consigliarsi e intendersi con le
Arti. Laonde, arrivati in Città, alloggiarono nel Palazzo del Comune, e
convocarono un Consiglio di 36 mercatanti guelfi e ghibellini, i quali
cominciarono subito a radunarsi ogni giorno, per discutere, nella Corte
dell'Arte di Calimala, o sia de' panni forestieri che si raffinavano
in Firenze, dove questa industria era assai progredita e formava già
l'Arte piú potente. Furono subito tutti d'accordo, che si dovesse
proporre la costituzione industriale e politica delle sette Arti
maggiori, con insegne proprie, armi e capi intorno a cui raccogliersi,
e cominciarono ad ordinarle, dando un gonfalone a ciascuna di esse
cioè: Giudici e Notai, di Calimala o dei panni forestieri, della Lana,
dei Cambiatori, de' Medici e Speziali, della Seta, dei Pellicciai.
Ma i Ghibellini s'avvidero che per questa via s'andava rapidamente
a costituir di nuovo, sotto altra forma, il Primo Popolo. E però gli
Uberti, i Lamberti, i Fifanti, gli Scolari si dimostrarono decisamente
avversi a tali novità, e fecero sentire al conte Guido il bisogno di
mettervi immediato riparo, se non si voleva lasciarsi fuggire di mano
il governo. Ed il conte Guido, che altro non cercava, mandò subito
a chiedere aiuti dalle città ghibelline. Da Arezzo, da Siena, Pisa,
Pistoia, Colle, S. Gimignano vennero parecchi cavalieri, che uniti ai
Tedeschi, furono in tutto circa 1,500. Ma se essi erano agli ordini
del conte Guido, erano anche alle sue spese: i Tedeschi già gridavano
che volevano le paghe, e a lui mancavano affatto i danari. E però,
continuando tuttavia le pratiche d'accordo col popolo, pensò di mettere
una nuova imposta del dieci per cento sulle entrate dei cittadini. Ma
questa, dopo tante altre gravezze, riusciva ora incomportabile alle
piccole fortune, tanto che il popolo, già stanco del mal governo,
irritato ancora dal vedere che il Conte aveva spogliato dell'armi
il Palazzo del Comune, per arricchirne il suo castello di Poppi,
imbaldanzito dalla prospera fortuna, e sempre piú eccitato contro i
Ghibellini, protestò energicamente, dando chiari segni di voler correre
alle armi. I Trentasei cercarono allora di calmarlo, e, postisi di
mezzo, proposero di riscuotere essi la nuova tassa, distribuendola in
modo da farla il piú possibile cadere sopra i ricchi e potenti.
Ma questo fu invece il momento in cui i Grandi, divenuti audaci pei
nuovi soccorsi avuti, scelsero per farla finita, e levarono addirittura
il rumore nella Città. Primi a muoversi furono i Lamberti, che, scesi
in Piazza armati, andavano gridando: ove sono questi ladroni dei
Trentasei, che noi vogliamo farli in pezzi? E i Trentasei, che erano
allora a consiglio, si sciolsero; le botteghe si chiusero; il popolo,
levato a rumore, si pose sotto gli ordini di essi, dei Consoli delle
Arti, e soprattutto di Giovanni Soldanieri, nobile che, per ambizione,
si era nel tumulto messo alla testa dei popolani. Fecero capo a S.
Trinita, dove ben presto sopraggiunse colla sua cavalleria il conte
Guido, che si teneva sicuro della vittoria. Ma trovò, invece, che la
moltitudine, asserragliata, resisteva gagliardamente, e dalle finestre,
dalle terrazze venne giú una tal pioggia di sassi e di frecce, che i
suoi cavalieri cominciarono a perdersi d'animo, ed egli si sbigottí
per modo, che, fatte subito voltar le insegne, se ne tornò alla piazza
S. Giovanni; di là, andato poi al Palazzo del Comune, dove erano i due
Gaudenti, chiese le chiavi della Città, per partirsene. Né le preghiere
de' suoi amici, né lo sdegno de' suoi seguaci bastarono a persuaderlo,
che non v'era nessun grave pericolo, e che poteva restare. Egli si
sentiva cosí smarrito che, avute le chiavi, volle essere accompagnato
da tre dei Trentasei, temendo altrimenti d'essere ferito dalle
finestre. E, per la porta detta dei Buoi, se ne andò colle sue genti a
Prato, il giorno di S. Martino, 11 novembre 1266.
Il dí seguente, passata la paura, s'avvide dell'errore commesso, e
persuaso dai Ghibellini di Firenze, che lo avevano accompagnato, si
provò, dice il Machiavelli, «a ripigliare quella città per forza,
che aveva per viltà abbandonata».[287] E venne co' suoi ordinato a
battaglia, fin sotto la porta del Ponte alla Carraia, là dove è ora
Borgo Ognissanti. Ma il popolo, che difficilmente lo avrebbe potuto
cacciare prima, se egli non avesse avuto cosí gran paura, facilmente
poteva respingerlo adesso. Ed alle domande, tra minacciose ed umili del
Conte, perché aprissero, fu risposto colle armi, saettando dalle mura.
Dové quindi retrocedere co' suoi, e si sentivano tutti cosí umiliati e
adirati, che per via tentarono di pigliare un castello vicino, pur di
aver l'aria di fare qualche atto di vigore. Ma respinti anche in questo
piccolo assalto, ritornarono a Prato piú avviliti che mai, in gran
dissenso tra loro. Il Conte, persuaso ormai d'aver perduto lo Stato,
se ne andò in Casentino, ed i Ghibellini di Firenze se ne andarono nei
castelli o ville del contado.

VIII
I Guelfi, rimasti ora padroni della Città, posero mano alle riforme
necessarie a riordinarla popolarmente, consigliati sempre con lettere
imperiose dal Papa, cui però si dava retta solo quanto era necessario
per non irritarlo. Prima di tutto furono licenziati i due frati
Gaudenti, che non avevano fatto buona prova; poi si mandò ad Orvieto
a chiedere un Capitano del popolo ed un Podestà, con qualche aiuto di
cavalieri a guardia del Comune. E vennero 100 cavalieri, con messer
Ormanno Monaldeschi podestà, ed un messer Bernardini capitano. Per amor
di pace rimisero in Firenze i Ghibellini, concludendo tra essi ed i
Guelfi paci e matrimonî, sperando cosí accomunare il popolo, e smorzare
gli odî: ma in verità si riuscí solo ad eccitare piú vivi rancori,
perché gli animi erano ancora troppo esaltati.
Firenze adesso sembrava non aver piú l'antica fiducia nelle proprie
forze, tanto che in mezzo alle gravi complicazioni della politica
italiana, anche i Guelfi sentivano il bisogno d'avere un protettore
straniero. Era un uso funesto, introdotto la prima volta dai
Ghibellini, che, per ossequio all'Impero, avevano chiesto un vicario
imperiale in Città, ed ora che il popolo aveva vinto, perché nel
regno di Napoli, agli Svevi erano successi gli Angioini, parve quasi
inevitabile ricorrere allo stesso pericoloso procedimento. Il Papa,
facendola da Imperatore, aveva nominato Carlo d'Angiò, prima Paciaro,
poi addirittura vicario imperiale per dieci anni in Toscana. E i
Fiorentini, credettero di dovere accettare questo nuovo stato di cose,
anzi fare ad esso buon viso, e quindi offrirono addirittura a Carlo
la signoria della loro Città per sei anni, che furon poi dieci. Ma sia
che a ciò ponessero condizioni le quali al Re angioino piacevano poco,
sia che egli volesse farsi pregare, certo è che parve dapprima esitar
molto. Poco dopo mandò Filippo di Monforte, il quale con 800 cavalieri
entrò in Firenze, il giorno di Pasqua del 1267, anniversario, come fu
allora notato, della morte del Buondelmonti. Piú tardi vi mandò qual
suo vicario Guido di Monforte;[288] poi venne anch'esso a condurre in
persona la guerra contro i Ghibellini in Toscana.
Ed ora, cacciati i Ghibellini, accettata la supremazia di Carlo come
inevitabile, era pur necessario dare a Firenze un assetto definitivo,
studiandosi, in mezzo a condizioni cosí nuove, cosí difficili,
di garantirne la libertà, e si venne a quella che fu la quarta
costituzione della Repubblica. Le condizioni della società fiorentina
erano assai mutate, e con esse doveva mutare anche il carattere della
nuova costituzione. Il partito ghibellino o aristocratico s'era
ristretto in un piccolo numero di Grandi, che esercitavano l'arte
della guerra e volevano spadroneggiare. Coi nobili che, mutando nome
e abbandonando i titoli, s'univano ai popolani, e con coloro che, pei
rapidi guadagni della mercatura, entravano in una nuova condizione
di viver civile, s'era formata, come abbiam visto, quasi una nuova
aristocrazia, un popolo grasso divenuto padrone della Città.[289]
E v'era poi anche questo di notabile, che andavano, tanto il popolo
grasso, quanto il minuto, perdendo ogni giorno piú l'antica educazione
militare, non solamente perché ora nelle guerre prevalevano gli uomini
d'arme, e cominciavano a valer poco gli eserciti popolari, ma anche
perché il commercio aveva preso tali proporzioni, che non potevano i
mercanti, sempre affaccendati a bottega, o in giro pel mondo, passare
ogni anno, come pel passato, due o tre mesi al campo. Il commercio
era divenuto la principalissima occupazione, quasi la vita stessa del
popolo fiorentino, che ora poteva dirsi davvero un popolo di banchieri
e di mercanti. Ed a tutto questo s'aggiungeva, che in Firenze v'era
adesso un'autorità straniera con soldati stranieri. Carlo d'Angiò
direttamente, o per mezzo di suoi vicari, o di persone in altro modo da
lui nominate, teneva l'ufficio del Podestà, e spesso sceglieva anche
il Capitano. I Fiorentini perciò, sempre accortissimi, ristabilirono
i Dodici Anziani, due per Sesto, col nome Dodici Buoni Uomini, coi
quali il Podestà doveva consigliarsi. E con essi ancora, invece di 36,
un Consiglio di 100 Buoni Uomini di popolo, «senza la diliberazione
dei quali nessuna grande cosa, né spesa si poteva fare». Con questo
Consiglio, unito al Parlamento, che, di diritto almeno, a Firenze
non mancò mai, noi abbiamo la ricostituzione di un governo centrale e
popolare, che toglieva importanza al Podestà angioino. Può quasi dirsi
un ritorno all'antica costituzione consolare, da cui erano già usciti
il Podestà ed il Capitano, che si cercava ora sottomettere ad essa.
Ma ciò non era tutto. Furono ripristinati i due Consigli, speciale
e generale, del Podestà e del Capitano. Se non che, il Capitano del
popolo che, nella costituzione del 1250, teneva il secondo posto, e
sotto il dominio ghibellino sembrava quasi scomparso, adesso non solo
ricomparisce, ma si cerca dargli prevalenza sul Podestà.
Infatti, quando una legge era stata dai Dodici proposta ai Cento ed
approvata, passava ai due Consigli del Capitano, e prima a quello
speciale e delle Capitudini, detto anche la Credenza, che rimaneva
come in antico, composto di 80 membri. Approvata la legge in questa
assemblea, veniva proposta al Consiglio generale, speciale e delle
Capitudini, che era di 300. Le tre votazioni si facevano di regola
in un giorno solo. Nel successivo la legge veniva portata dinanzi
ai due Consigli del Podestà, e prima al Consiglio speciale di 90,
poi al Consiglio generale di 300, ai quali spesso si univano quelli
dello speciale, ed erano allora 390. Poco sappiamo del modo con cui
s'eleggevano questi Consigli, che solevano durar sei mesi. Però,
essendo molto numerosi, e trovandosi dall'altro lato assai ristretto
il numero dei cittadini, noi riteniamo che tutti gli _abili a sedere_,
o sia gli eleggibili, che erano appunto i veri e proprî cittadini,
v'entrassero a turno. Ma qui è da notare che non sempre, né tutte le
deliberazioni passavano per ognuno di questi varî Consigli. Le leggi
e le consuetudini lasciavano non di rado ai magistrati la libertà
di consultarne alcuni solamente, come lasciavano loro il diritto di
radunar prima un piú ristretto Consiglio di Richiesti, invitandovi
solo quegli ufficiali o cittadini, che potevano giovare colla loro
esperienza a preparare le deliberazioni. Altre volte s'invitavano
nei Consigli anche alcuni estranei. Cosí, per esempio, discutendosi
le faccende della guerra, vi si trovano chiamati coloro che avevano
l'incarico di provvedervi. Gli Statuti non erano né molto precisi,
né molto rigorosi a questo proposito. E pareva che si studiassero
singolarmente di frenare la libertà della discussione, forse per
impedire che la moltitudine di tanti Consigli mandasse le cose troppo
per le lunghe. La proposta d'un provvedimento qualunque, era sempre
riservata ai soli magistrati, che la facevano sostenere dal notaio o
da altri in loro nome. I Consiglieri, meno i casi di molta gravità,
dicevano solo poche parole prima di votare. Il numero degli oppositori
era sempre assai piccolo, e ciò anche perché quando una provvisione
veniva portata ai Consigli, era stata già prima vagliata molte volte.
Piú tardi, lasciando sempre liberissimo il votare contro le proposte
dei magistrati, si giunse perfino a proibire il parlare altrimenti che
in favore. Laonde con tanti Consigli non si vide nascere in Italia la
vera eloquenza politica, della quale infatti la nostra letteratura è
assai povera. E qui v'è ancora un'ultima considerazione. Il Consiglio
dei 100 era tutto di popolani, e cosí quelli del Capitano; i Consigli
del Podestà eran composti invece di popolani e di Grandi. Le Capitudini
come abbiam visto, erano sempre presenti nei Consigli del Capitano,
ed assai spesso anche in quelli del Podestà. Da tutto ciò risulta
chiarissimo che il partito democratico e le Arti maggiori, le quali ne
formavano il nucleo principale, avevano grandissima prevalenza.[290]
Ed in questo modo re Carlo ottenne la signoria della Città, ma fu
vincolato in modo che il potere effettivo rimase nelle mani del popolo,
soprattutto del popolo grasso.
Le nuove leggi da noi esaminate, parlano ora assai poco di Guelfi e
di Ghibellini, assai piú di Grandi e di Popolani, perché la lotta
dei partiti comincia a mettersi ne' suoi veri termini, e si vede
chiaro che, in sostanza, trattasi di aristocrazia e democrazia. Ma
ciò nondimeno, il partito ghibellino esisteva sempre, anzi era esso
veramente il partito aristocratico. Il popolo ne voleva quindi la
totale rovina, ed a ciò mirava un'altra parte della nuova costituzione.
Si pose mano a fare un elenco di tutti coloro che dal 1260 al 1266
erano stati perseguitati dai Ghibellini, e dei beni loro confiscati. Si
trovò che grandissimo era stato il numero dei condannati, e che i danni
ascendevano alla somma allora assai ingente di lire 132,160.8.4.[291]
Si cercò allora di fare lo stesso contro i Ghibellini, e negli anni
1268 e 69 vi furono tremila circa fra confinati e ribelli, con le
rispettive confische, le quali continuarono poi lungamente.[292] Dei
beni via via confiscati si cominciò, come dicevasi, a far Monte, cioè
a raccoglierli insieme; poi vennero divisi in tre parti, una delle
quali doveva andare al Comune; una ai Guelfi, per risarcirli dei danni
sofferti; una finalmente alla Parte guelfa, per darle sempre maggior
forza, a scapito dei Ghibellini. Coll'andare del tempo però, quasi
tutti questi beni si concessero solo alla Parte, e ad amministrarli
furono creati sei governatori, tre Grandi e tre popolani, chiamati
prima Consoli dei cavalieri, poi Capitani della Parte guelfa,
seguendosi in tutto ciò i funesti consigli di papa Clemente IV e di
Carlo d'Angiò. E siccome allora ogni magistratura importante soleva
essere circondata da due Consigli, cosí anche i Capitani di Parte
ebbero un Consiglio segreto o speciale di 14 membri, ed uno generale di
60.[293] Duravano i Capitani due mesi in ufficio, e si radunavano nella
chiesa di S. Maria sopra Porta. Piú tardi ebbero un proprio palazzo,
e vennero loro concessi altri incarichi, come la cura delle pubbliche
fabbriche, la direzione degli ufficiali di torre, e simili. Ma la
loro principal cura fu sempre di proteggere la Parte, perseguitare i
Ghibellini. E questo ufficio essi adempierono con tanto ardore, e tante
furono le persecuzioni, che, coll'andar del tempo, si giunse a tale
che chi era padrone dei Capitani di Parte, si poteva dire padrone di
Firenze. Esclusione dai pubblici ufficî per mezzo delle ammonizioni,
esilî, confische saranno le opere con cui fra qualche tempo li vedremo
funestar la Repubblica, e rendersi sempre piú potenti.
Se ora gettiamo finalmente uno sguardo generale alla nuova
costituzione, in mezzo alla intricata moltitudine de' suoi Consigli
e de' suoi magistrati, essa ci parrà abbandonata al disordine ed
all'arbitrio. Ma se guardiamo piú attentamente allo scopo cui essa
era destinata, noi la vedremo singolarmente adatta a raggiungerlo. La
guerra civile non è finita di certo, deve anzi ancora per lungo tempo
continuare; la democrazia s'avanza, per giungere al suo pieno trionfo,
e distruggere totalmente l'aristocrazia. Né si contenterà di toglierle
il dominio della Repubblica, ma vorrà toglierle l'esistenza stessa, il
che non potrà fare senza versar molto sangue, senza molte rivoluzioni.
Nel nuovo ordinamento politico, il potere centrale, mutabile ben presto
ogni due mesi, è sempre debolissimo di fronte alla grande importanza,
alla durata ed alla forza che hanno assunta il Podestà ed il Capitano.
Messi alla testa del Comune e del Popolo, circondati ognuno da due
Consigli, essi restan sempre come capi di due repubbliche armate e
nemiche. Ma in quella del Popolo, che finora era stata la piú debole,
niuno dei nobili può entrare; in quella del Comune, invece, il popolo
ha preso accanto ai nobili un posto assai importante, e nelle sue mani
è perciò legalmente venuta la decisione principale di tutti gli affari,
non ostante la supremazia che di fatto Carlo d'Angiò esercitava nei piú
gravi momenti. Che odî nasceranno da un tale stato di cose è facile
immaginarselo. Se poi osserviamo che, in siffatta repubblica, quasi
preordinata alla guerra civile, v'era una magistratura importante,
quale i Capitani di Parte, che sembrava creata solo a tener viva la
discordia, come una macchina di guerra, che agitava continuamente
queste forze incomposte, senza dar mai posa, come uno strumento di
sanguinosi disordini e di distruzione, allora noi possiamo prevedere
dove ci condurrà il seguito della narrazione. Dobbiamo aspettarci
continue lotte, un mutare irrequieto di magistrati e di leggi, il
non veder mai giungere a mezzo novembre quello che si fila d'ottobre.
Ma tutto era anche singolarmente preordinato al fine costante cui la
Repubblica, fin dalla sua prima origine, mirava.

IX
Noi siamo però ancora assai lontani dall'aver dato un concetto adeguato
e chiaro della Costituzione e della società fiorentina, nella seconda
metà del secolo XIII. Ancora non abbiamo parlato abbastanza della parte
piú importante delle nuove riforme, l'ordinamento cioè delle Arti. Le
proposte che a tal fine i Trentasei, radunati nella Corte di Calimala,
avevano fatte sin dal principio, quelle contro cui i Grandi piú s'eran
sollevati, furono subito accettate dal popolo, e divennero d'ora in poi
la base principale degli Statuti fiorentini. Le associazioni d'arti
e mestieri erano antichissime in tutta Italia, ed a Firenze avevano
ben presto fatto maggiore progresso che negli altri Comuni. In esse
s'era, come vedemmo, concentrata tutta la vita del popolo, quando la
tirannia dei Ghibellini, protetti da Manfredi, lo aveva escluso da ogni
partecipazione al governo. Ed ora non si fece altro, che dar forma piú
ordinata e legale a ciò che naturalmente era sorto e progredito. Le
Arti maggiori, le sole che furono nel '60 sollevate a vera e grande
importanza politica, eran sette; le altre solamente piú tardi poterono,
al pari delle prime, ricostituirsi. Che cosa dunque divennero adesso
le sette Arti maggiori? Pigliamone ad esaminare minutamente una sola,
quella che prima e piú di tutte divenne importante; essa ci servirà di
guida e modello a comprendere le altre.
Nel tempo di cui noi ragioniamo, insieme con le industrie, fiorivano in
Italia le arti belle, e questo non solo giovava alla cultura nazionale,
ma cominciava già a portare alle nostre manifatture il vantaggio di
dar la legge del gusto in Europa. La moda partiva allora da Firenze,
da Milano[294] e Venezia, come oggi viene da Parigi. Ed al buon gusto
italiano l'arte di _Calimala_[295] dovette in parte la sua origine ed
il suo rapido incremento. Essa consisteva nel raffinare e tingere,
con colori di cui i Fiorentini soli possedevano il segreto, panni
forestieri, che venivano di Fiandra, di Francia o d'Inghilterra, per
poi, cosí perfezionati, tornare in tutti i mercati d'Europa, col bollo
dell'Arte. E questo bollo aveva una riputazione grandissima, giacché
assicurava della buona qualità, e che nessuna contraffazione vi era,
che la misura delle pezze era scrupolosamente esatta e verificata
in Firenze. Egli è facile comprendere come i mercanti di Calimala si
trovassero in molteplici relazioni con tutta l'Europa, e come i loro
interessi s'estendessero ovunque era qualche progresso di civiltà e di
agiato vivere. Nacque quindi, sin da antico, il bisogno di scegliere
capi dell'Arte, fare Statuti, avere Consoli non solo in Città, ma
anche fuori, per tutelare questi interessi. Ma ora, per le nuove
riforme, essa, al pari d'ogni altra delle Arti maggiori, fu costituita
addirittura come una piccola repubblica.[296]
Ogni sei mesi, adunque, in giugno cioè e dicembre, si radunavano
i capi di fondachi o botteghe, e questa Unione dell'Arte, che, in
qualche modo, potrebbe paragonarsi a ciò che nella Repubblica era il
Parlamento, sceglieva gli elettori, cui era commesso di nominare i
magistrati. Primi erano i 4 Consoli, che rendevano giustizia secondo
gli Statuti; rappresentavano l'Arte, e la governavano con l'aiuto
di due Consigli, uno speciale, non minore di 12 membri, e l'altro
generale, che andò spesso variando di numero, e si restrinse anche fino
a 18. Con l'approvazione di questi Consigli, potevano i Consoli anche
riformare gli Statuti. Essi portavano la bandiera dell'Arte, e sotto
i loro ordini si radunavano, all'occorrenza, gli artigiani armati.
V'era poi il Camarlingo che durava in officio un anno, ed amministrava
le uscite e le entrate dell'associazione. E come la Repubblica aveva
un magistrato forestiero nel Podestà, cosí l'ebbe anche l'Arte nel
suo Notaio, il quale durava anch'esso in ufficio un anno; era eletto
dal Consiglio generale, e doveva arringare nei Consigli, a nome dei
Consoli; spesso andava nelle ambascerie per l'Arte, e soprattutto
vegliava continuamente alla scrupolosa osservanza degli Statuti, con
la facoltà di punir severamente chiunque li violasse, non esclusi
i Consoli stessi. Tutti questi magistrati dovevano essere fedeli a
Parte guelfa. Il salario del Notaio era fissato d'anno in anno. I
Consoli, che non potevano ricusare l'ufficio, ed avevano poi per un
anno divieto d'essere rieletti, ricevevano un salario che fu prima
di 10 lire, e qualche multa a loro favore riscossa; ma si ridusse
piú tardi ad alcune libbre di pepe e zafferano, ad alcune paniere e
scodelle di legno. Non molto diversamente, ed anche meno, era pagato
il Camarlingo o Camerario. Ogni anno venivano eletti tre ragionieri,
per sindacare l'operato dei Consoli, del Camerario e degli altri
magistrati usciti d'ufficio. E cosí pure s'eleggevano dodici mercanti
statutarî, con arbitrio di correggere e migliorar lo Statuto; ma le
loro riforme dovevano essere approvate prima dai due Consigli, poi dal
Capitano del Popolo. I Consoli che, col nome di Capitudini, pigliavan
parte ai Consigli del Capitano e del Podestà, dovevano in essi curare
gl'interessi dell'Arte, e promuovere leggi in suo favore.
Ma che cosa volevano, nell'interesse proprio dell'Arte, questi Statuti
alla cui osservanza tanti magistrati vegliavano? Essi stabilivano
tutte le regole e i modi con cui l'Arte doveva essere esercitata.
Le contraffazioni o la cattiva qualità della mercanzia erano
severissimamente punite. Una macchia, uno strappo non rivelato sulla
scritta che ogni pezza doveva portare, venivano del pari puniti. Piú
di tutto poi si era severissimi sulla esattezza della misura. Gli
ufficiali dell'Arte spesso andavano ad esaminare le pezze, ed ogni
due mesi riscontravano, in ogni bottega, le canne e passetti con
cui si misurava, e ne dovevano tener modelli esposti al pubblico, in
alcuni punti della Città. Né ciò era tutto. I Consoli mandavano in
ogni fondaco a visitare se i libri e le scritture dei mercanti erano
in regola, e punivano coloro che deviavano dalle norme stabilite.
Componevano fra i mercanti dell'Arte loro, o fra di essi e quelli di
un'altra, tutte le liti che nascevano per ragione dell'Arte stessa,
ed era severamente punito chi, in queste liti commerciali, avesse
voluto ricorrere ai tribunali ordinarî. Ma in qual modo si rendevano
efficaci le condanne dei Consoli? Quasi tutte le pene erano in danaro,
e chi non le pagava, dopo essere stato piú volte ammonito e piú
gravemente tassato, era, se non si sottoponeva alla condanna, escluso
dall'Arte, il che voleva dir la rovina totale del suo commercio. Non
solamente la sua mercanzia non aveva piú il bollo, e quindi perdeva la
guarentigia dell'Arte; ma egli perdeva ancora molti altri grandissimi
vantaggi, e finiva col non potere piú esercitar la sua industria in
Firenze, spesso anche neppure fuori. Infatti, i Consoli eletti in
Firenze vegliavano, come vedemmo, sull'interesse dell'Arte anche fuori
della Repubblica, eleggendo a ciò Consoli in diverse parti d'Italia
e d'Europa, i quali crebbero di numero a misura che il commercio si
estese. Due specialmente di maggiore importanza, ne eleggevano in
Francia. E tutti questi s'occupavano perfino degli alberghi destinati
ad accogliere i mercatanti dell'Arte. Quando poi, secondo l'uso di quei
tempi, uno Stato concedeva rappresaglie su i beni di essi, dovevano
i Consoli aiutarli e difenderli. Cosí, in qualunque modo e dovunque
un mercante veniva ingiuriato o danneggiato, trovava subito valida
protezione. L'Arte era gelosa custode di tutti gl'interessi de' suoi
membri, ed a difenderli in paese straniero, e far rendere giustizia
contro le ingiurie o i danni ricevuti, mandava spesso suoi ambasciatori
ai rispettivi governi.[297] Questo era un aiuto incalcolabile, quando
gli stranieri non avevano alcuna efficace protezione per diritto
internazionale, e continue erano le rappresaglie. Ad un mercante
conveniva perciò sottomettersi a qualunque pena, piuttosto che
essere cancellato dall'Arte; né vi era bisogno d'altra minaccia per
costringerlo a rispettare gli Statuti. E come veniva governata l'arte
di Calimala, cosí erano anche le altre sei. I loro Consoli riuniti
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