I primi due secoli della storia di Firenze, v. 1 - 17

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l'ora era giunta, che non v'era piú tempo da perdere. I Gualandi, i
Sismondi, i Lanfranchi ed altri ancora s'unirono con lui, e andarono
ad assalire il Conte, che con due figli, due nipoti, ed alcuni altri
a lui piú fidi, si difese valorosamente. Dopo il primo scontro, nel
quale vide morire un suo figlio naturale, si ritirò nel Palazzo del
popolo, e continuò a difendersi da mezzogiorno alla sera, quando gli
assedianti si decisero a mettervi fuoco. Penetrando poi attraverso le
fiamme, fecero prigioniero il Conte con i suoi due figli piú giovani,
Gaddo e Uguccione, e due nipoti, Nino detto il Brigata e Anselmuccio.
Furono chiusi nella torre dei Gualandi, sulla piazza degli Anziani,
dove l'arcivescovo Ruggieri li tenne alcuni mesi in assai dura
prigionia.[325] Finalmente la chiave della torre fu gettata in Arno,
e morirono tutti di fame, tra quelle angosce che l'Alighieri rese
immortali.[326]

IX
Questi fatti però, sebbene indebolissero sempre piú la misera città
di Pisa, abbatterono anche il partito guelfo, dettero luogo a nuovi
esilî, ed aiutarono le speranze dei Ghibellini, che adesso sembravano
risorgere in Toscana. Firenze dovette perciò ripigliare di nuovo le
armi. Carlo I d'Angiò era morto, e papa Onorio, che si dimostrava
favorevole al partito ghibellino, aveva spinto il suo parente
Prenzivalle del Fiesco a venire in Toscana come Vicario imperiale. Ma
le città della Lega lo accolsero assai male, ed egli se ne andò ad
Arezzo, donde invano pronunziò condanne contro i Guelfi, giacché ai
vicarî dell'Impero pareva che ormai nessuno desse piú ascolto. Se ne
ripartí quindi per la Germania, lasciando Arezzo in preda a tumulti,
nei quali la vittoria fu dei Ghibellini, che ebbero aiuto da molti
esuli fiorentini. I Guelfi si ritirarono nei castelli del contado,
dove ricevettero invece soccorsi dal governo di Firenze. Cosí la
guerra diveniva inevitabile anche nel Valdarno di sopra, e bisognava
da due lati combattere i Ghibellini, ritornati potenti sotto la guida
del vescovo d'Arezzo e dell'arcivescovo di Pisa. Difatti come in Pisa
l'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, cosí in Arezzo comandava il
vescovo ghibellino, Guglielmo degli Ubertini. Questi, dedito anch'esso
piú alle armi che alla religione, signore di molte castella, e di
assai dubbia fede, si provò dapprima a tradire la città ai Fiorentini,
mediante accordi coi quali voleva salvare i suoi possessi. Ma gli
Aretini seppero costringerlo a restar fermo nel proprio partito. Il
1.º di giugno 1288 l'esercito della Lega guelfa si mise in moto. Erano
nobili, popolani d'ogni parte di Toscana, insieme con gente assoldata,
formando in tutto 2,600 cavalieri e 12,000 pedoni. Restarono ventidue
giorni in campo, assediando e disfacendo tra grandi e piccoli, piú di
40 castelli degli Aretini; ma poi sopravvenne una tempesta che pose
il campo in tanto disordine da costringerli a ritirarsi. Avevano, in
segno di disprezzo, corso un pallio sotto le mura d'Arezzo, nominandovi
12 cavalieri di corredo; ma poi, levato il campo, se ne tornarono
a Firenze, senza avere abbattuto né scemato l'ardire del nemico. Ed
infatti, quando i Senesi si separarono per tornarsene a casa, furono
presi in un agguato, e rotti pienamente.
Nell'agosto i Fiorentini, insieme con Nino di Gallura, esule guelfo
di Pisa, fecero scorrerie nel contado pisano, pigliando il castello
d'Asciano, e nel settembre corsero contro gli Aretini, che avevano
messo insieme un esercito di 700 cavalli e 8,000 pedoni. Ma non vi fu
battaglia, perché i nemici si ritirarono, lasciando che i Fiorentini
guastassero le loro campagne, andando poi essi in principio del 1289
a guastare il contado fiorentino, ed arrivando fin presso a S. Donato.
Erano piú o meno grosse scaramucce, che facevano prevedere una guerra
maggiore.
Da ogni lato s'armava adesso in Toscana. I Pisani eleggevano a
loro capitano il conte Guido da Montefeltro, che aveva acquistato
grandissima reputazione nello scontro vittorioso avuto a Forlí contro
i Francesi di Carlo d'Angiò. Egli era veramente uno dei piú valorosi
soldati del tempo, e giunto che fu a Pisa, riordinò subito le milizie,
creò una nuova fanteria leggiera di tre mila balestrieri, che poté
resistere con onore a quella cavalleria pesante, tenuta allora la
forza principale degli eserciti. Da un altro lato anche gli Aretini
s'armarono sempre di piú, in modo che, quando Carlo II d'Angiò passò da
Firenze, per andare ad incoronarsi in Napoli, i Fiorentini, dovettero
accompagnarlo con i loro migliori fanti e cavalieri, perché le genti
aretine minacciavano d'assalirlo. Gli chiesero allora un buon capitano,
per poter proseguir con vigore la guerra, e ne ebbero Amerigo di
Narbona, che, in compagnia del bali Guglielmo di Durfort, venne con 100
uomini d'arme.
Il 2 di giugno 1289, il nuovo capitano Amerigo di Narbona usciva in
campagna alla testa d'un esercito di 1,600 cavalieri e 10,000 fanti
della Lega. V'era il fiore della nobiltà e delle genti fiorentine,
fra cui seicento cavalieri dei meglio armati, che uscissero mai della
Città. Prato, Pistoia, Siena e tutti gli alleati, anche i Guelfi di
Romagna avevano mandato il loro contingente. Gli Aretini avevano
dall'altro lato raccolto tutti i Ghibellini delle vicine città,
e vennero a Bibbiena con 800 cavalieri e 8,000 pedoni, sotto il
comando dei loro capitani, fra cui primeggiava il fiero arcivescovo
Guglielmo degli Ubertini. Dopo essersi persuaso che l'accordo con
Firenze, per salvare i suoi propri castelli, lo avrebbe esposto al
furore degli Aretini, esso s'era gettato con giovanile ardore nella
guerra. Procedeva altiero e pieno di baldanza, perché fidava nel
proprio coraggio ed in quello de' suoi soldati; aveva poca stima de'
Fiorentini, i quali, esso diceva, si lisciavano come donne.
Sul piano di Poppi, il giorno 11 di giugno, i due eserciti si
trovarono di fronte, presso Campaldino, dove ebbe luogo, e donde
prese nome quella battaglia che fu resa piú celebre, per esservisi
trovato a combattere Dante Alighieri, allora giovane ancora ed ignoto.
I Fiorentini avevano in prima linea una schiera mista di pedoni,
balestrieri e scudieri, ed alle loro ali avevano messo 150 feritori
di cavalleria leggiera, scelti fra i piú arditi. V'era fra questi
Vieri dei Cerchi, che, avendo avuto il carico di fare la scelta degli
uomini del suo Sesto, volle, sebbene malato, trovarsi alla battaglia
insieme col figliuolo e coi nipoti. Dietro la prima schiera, ne veniva
un'altra piú grossa di pedoni e cavalleria pesante, in ultimo erano le
salmerie. Corso Donati comandava un drappello di circa 250 tra pedoni
e cavalieri lucchesi, pistoiesi e forestieri. Egli era allora Podestà
di Pistoia e doveva, con la sua piccola riserva, accorrere all'uopo,
secondo il comando del generale. Si vedeva un'emulazione grandissima,
perché da un lato e dall'altro v'era lo sforzo dei Guelfi e dei
Ghibellini, e s'erano, per soddisfare anche l'ambizione dei potenti,
creati nuovi cavalieri in quel giorno stesso, acciò dessero maggior
prova di valore. L'ordine dato ai Fiorentini fu d'aspettare l'impeto
del nemico, e messer Simone dei Mangiadori da San Miniato, disse ai
suoi uomini: — Signori, le guerre di Toscana si vincevano per bene
assalire, ed ora si vincono per istare ben fermi. — Gli Aretini invece,
fidando nel proprio valore e nell'abilità dei capitani, assalirono al
grido di Viva S. Donato, con tale impeto, che l'esercito fiorentino
mal sostenne il primo urto, e dovette cedere. I feritori furono quasi
tutti scavalcati, la schiera grossa indietreggiò; ma i pedoni che
erano alle ali della seconda schiera, s'avanzarono al grido di _Narbona
cavaliere_, e minacciando di circondare il nemico, l'arrestarono, dando
cosí tempo ai compagni di riordinarsi. Il conte Guido Novello, che
aveva 150 cavalieri degli Aretini, per ferire di lato, mancò d'animo
nel momento appunto in cui doveva assalire il nemico disordinato,
e fu grandissimo danno. Ma gli seguiva sempre cosí, e poco di poi,
fervendo ancora la mischia, si dette alla fuga. Corso Donati, invece,
che aveva ordine di star fermo colle sue genti, e non muoversi senza
comando espresso, nel vedere i Fiorentini cedere a quel primo urto, non
poté piú stare alle mosse, e disse ai suoi: — Se perdiamo, io voglio
morire coi miei concittadini; se vinciamo, aspetterò che chi vuole,
venga in Pistoia a punirci della nostra disobbedienza; — e ordinò
subito d'investir di fianco i nemici. Cosí gli Aretini da assalitori
si trovarono assaliti. Resistettero con mirabile valore, e non avendo
sufficiente numero di cavalieri, i loro pedoni si spinsero carponi
fra la cavalleria nemica, e con le coltella sventravano i cavalli,
ferendoli nella pancia, dove non avevano difesa. Ma erano prodigi di
valor personale, che non potevano decidere la battaglia. La mischia
fu aspra e lunga, i Fiorentini pugnarono con gran coraggio, e gli
Aretini perderono quasi tutti i loro capi. L'arcivescovo Ubertini morí
combattendo; cosí pure il suo nipote Guglielmino dei Pazzi, tenuto
allora fra i piú valorosi capitani d'Italia, e Buonconte figlio del
conte di Montefeltro. Perirono ancora molti esuli fiorentini, fra cui
tre Uberti e uno degli Abbati. Solo il conte Guido Novello salvò la
vita con la fuga. La rotta degli Aretini fu grandissima, e, secondo
il Villani, lasciarono sul campo 1,700 morti e 2,000 prigionieri. Di
questi però ne entrarono in Firenze solo 740, gli altri essendo stati
trafugati o riscattati per denaro. Né ciò deve far gran meraviglia, se
si pensa che in queste guerre di Guelfi e Ghibellini combattevan fra
loro uomini della medesima città, e spesso antichi amici o parenti;
per il che la pietà era piú naturale che l'odio, sebbene questo fosse
pur troppo frequente e feroce. I Fiorentini ebbero poche perdite, e
nessuna d'importanza. Corso Donati che, col suo ardire, contribuí
assai a decidere la battaglia, e Vieri de' Cerchi si coprirono di
gloria. Molti, poco stimati in passato, acquistarono quel giorno grande
reputazione, e molti invece che già prima l'avevano, la perdettero
allora. In ogni modo tutti i principali cittadini e capitani tornarono
salvi a Firenze, dove l'allegrezza fu perciò universale.[327]
I Fiorentini s'erano tenuti sin da principio sicurissimi della
vittoria. Si narra infatti che quando, nel giorno stesso della
battaglia, i Priori, stanchi delle vigilie durate, si addormentarono,
furono desti, come da una voce, che ad un tratto pareva dicesse loro:
levatevi su, che gli Aretini sono sconfitti. E nello stesso tempo
tutti i cittadini si trovavano per le vie, aspettando impazienti la
notizia che ancora non veniva. Finalmente arrivò il desiderato messo,
e la gioia, le feste furono grandissime. Dispiacque piú tardi sentire
che l'esercito non aveva saputo profittare della vittoria, inseguendo
il nemico fin dentro le mura della città, della quale allora sarebbe
stato facile impadronirsi. Invece presero Bibbiena, terra del vescovo;
saccheggiarono varî castelli, e guastarono il contado per venti giorni.
Corsero il pallio intorno alle mura d'Arezzo, a forza di mangani
gettandovi dentro, per dileggio, asini con le mitrie in capo. Ma in
sostanza non fecero altra impresa di momento, sebbene la Repubblica,
quando furono eletti i nuovi Priori, ne mandasse due al campo, perché
sollecitassero in persona la guerra, e tentassero subito di prendere la
nemica città. Ma omai era tardi, e gli Aretini riuscirono anche a fare
qualche sortita, nella quale misero fuoco alle macchine d'assedio. Per
il che i Fiorentini, lasciati ben guardati i castelli già presi e le
opere cominciate, tornarono a casa il 23 di luglio; e ciò dispiacque
tanto alla Città, che si disse esser corso nel campo oro nemico. In
ogni modo la vittoria era stata grande, e grandissima fu l'accoglienza
che ebbero i reduci. Tutto il popolo, con le insegne e i gonfaloni di
ciascuna Arte, tutto il clero uscí in processione per andare incontro
al vittorioso esercito. Il capitano Amerigo di Narbona ed il podestà
Ugolino de' Rossi fecero la loro entrata solenne, sotto ricchissimi
baldacchini di drappi d'oro, portati dai piú nobili cavalieri di
Firenze. E tutta la spesa di questa guerra si fece con una imposta di
lire sei e soldi sei per cento sui beni nella Città e nel contado, il
che portò subito trentasei mila fiorini d'oro, essendo allora l'estimo,
l'amministrazione e le rendite del Comune mirabilmente ordinate, come
osserva il Villani (VII, 132).
La repubblica fiorentina, dopo la umiliazione delle due nemiche città
d'Arezzo e di Pisa, aveva in tutta Toscana abbattuto il partito
ghibellino, fatto trionfare il guelfo; s'era assicurato in essa
un predominio politico e commerciale quasi senza limiti; e la sua
ricchezza andò d'ora in poi rapidamente crescendo. Vi furono grandi
feste, cene, desinari in tutte quante le piú ricche case, radunandosi i
cittadini nelle corti dei loro palazzi, le quali venivano ricoperte di
zendado, ornate di ricchissimi drappi. Le donne, in segno d'allegrezza,
andavano per la Città, inghirlandate di fiori. Eppure si voleva ancora
proseguire la guerra, perché pareva che si desiderasse addirittura
veder la fine delle due piú potenti città ghibelline. Ma ciò non poteva
riuscir facilmente.
Nel 1289 seguirono nuove scaramucce tra Guelfi e Ghibellini, ma furono
cose di poco momento. I Fiorentini tentarono piú volte, però sempre
invano, di pigliare Arezzo per forza o per inganno. Nel novembre erano
riusciti a fare un accordo segreto, col quale pareva dovessero proprio
entrare nella nemica città, per sorpresa. Improvvisamente fu dato
ordine a tutti gli uomini atti alle armi di trovarsi riuniti fuori
delle mura, prima che una candela accesa innanzi ad una delle porte,
fosse consumata. E l'esercito cosí tumultuariamente raccolto, corse
a furia verso Arezzo; ma l'accordo era stato già scoperto, almeno si
disse, da uno che morendo l'aveva rivelato al confessore. Certo è che
bisognò ritirarsi senza aver nulla concluso. I Fiorentini tornarono nel
giugno del seguente anno, con un esercito di 1,500 cavalieri e 6,000
pedoni della Lega; circondarono Arezzo, e per sei miglia intorno ne
guastarono il contado, durante 29 giorni, ma anche ora non conclusero
altro. Le città erano a quei tempi tutte fortificate, e le opere
d'assedio, prima dell'invenzione della polvere, riuscivano affatto
inutili, ogni volta che v'era una resistenza decisa e senza tradimenti.
Al che s'aggiungeva adesso, che i Fiorentini volevano combattere nello
stesso tempo Arezzo e Pisa. Infatti, lasciati a guardia dei vicini
castelli 300 cavalieri e molti pedoni, andarono col resto dell'esercito
dal Valdarno di sopra a quello di sotto, per far guerra a Pisa.
Nello scorso anno erano stati i Lucchesi che, con l'aiuto di Firenze e
della Lega, avevano raccolto e guidato un esercito di 400 cavalieri e
2,000 pedoni, per tener viva la guerra contro Pisa, mentre che Firenze
era occupata con Arezzo. Arrivarono fino alle porte, e, secondo il
solito costume, vi corsero il pallio; per 25 giorni guastarono il
contado, pigliando il castello di Caprona, assalendo piú volte Vico
Pisano, ma senza altro risultato. Nel 1290 si ripigliava dai Fiorentini
la medesima guerra, con le forze assai maggiori di tutta la Lega. E nel
tempo stesso che questa, col suo esercito, faceva dalla parte di terra
un assalto generale, i Genovesi assalivano dalla parte di mare, con
un'armata la quale recò danni infiniti. Livorno e Porto Pisano furono
presi, rovesciate in mare le quattro torri a guardia del porto, e il
fanale detto della Meloria fu del pari abbattuto, insieme cogli uomini
che v'erano dentro. Prima di ritirarsi i Genovesi affondarono alla
bocca del porto quattro navi cariche di pietre, distrussero i palazzi
ed i magazzini. Ma dalla parte di terra non vi furono che guasti nel
contado e rovine di piccoli castelli. Intanto i Pisani resistevano
a tutti con animo fermo. Il loro capitano Guido di Montefeltro, alla
testa della nuova fanteria leggiera da lui istituita, combatteva con
molta efficacia contro i fanti toscani della Lega, contro la cavalleria
pesante da essa assoldata. E piú volte riuscí a fare sortite, con le
quali vendicò sanguinosamente le perdite sofferte. Nel dicembre del
'91, i Pisani assalirono il castello di Pontedera, e trovandolo mal
difeso, se ne impadronirono; fecero poi ribellare contro S. Miniato
il castello di Vignale. I Fiorentini volevano subito correre a nuova
battaglia; ma il loro esercito partí tardi, e quando fu in via, caddero
pioggie torrenziali, le quali inondarono per modo la campagna, che
bisognò retrocedere.
Le cose della guerra procedettero ora sempre piú debolmente, perché
cominciavano in Città mali umori, che facevano presentire discordie
assai gravi. Laonde, sebbene il giudice di Gallura spingesse a
ripigliare le armi, nelle quali egli s'era mostrato operoso e valoroso,
pure era divenuto cosí grande nei Fiorentini il bisogno della pace,
che finalmente la conclusero a Fucecchio il 12 giugno '93. I patti
furono: restituzione dei prigionieri; esenzione da ogni gabella,
tanto per gli abitanti dei Comuni della Lega, che passavano per Pisa,
quanto pei Pisani, che passavano per detti Comuni. L'ufficio del
Podestà o Capitano di Pisa doveva darsi ad uomini della Lega, venendo
espressamente vietato il darlo a ribelli o nemici di essa, o ad alcuno
dei conti di Montefeltro. Ed il conte Guido, il valoroso soldato, che
con tanta energia e coraggio aveva difeso la repubblica pisana, dovette
essere licenziato con tutti i Ghibellini forestieri, in fede di che
bisognò dare in ostaggio 25 cittadini delle migliori famiglie. Cosí
furono pagati la fede e l'eroismo del vecchio capitano, che, riscosso
il suo soldo, entrò nel Consiglio, e rimproverata dignitosamente
ai Pisani la loro ingratitudine, se ne partí senza mostrare alcun
desiderio di vendetta. E avrebbe potuto farla, se avesse voluto operare
secondo il costume di quei tempi, trovandosi egli tuttavia a capo d'un
esercito agguerrito, che in lui fidava pienamente. Fu ancora pei patti
di questa pace stabilito, che i discendenti del conte Ugolino ed il
giudice di Gallura venissero liberati da ogni bando, e rimessi nei loro
beni.[328]

X
Da questo momento i Fiorentini cominciarono a pensare sopra tutto alle
cose interne della Città, che neppure durante le ultime guerre avevano
abbandonate. Infatti l'amministrazione della Repubblica s'era andata
migliorando sempre, ed in molte parti si poteva dire esemplare; il
commercio, l'industria, la ricchezza erano assai aumentati. E nello
stesso tempo si erano compiute molte opere pubbliche, lavorando allora
il celebre architetto Arnolfo di Cambio, autore di parecchi de' piú
bei monumenti di Firenze. Col suo disegno si pose mano nel 1285 ai
primi lavori per allargare la Città, costruendo piú tardi il terzo
cerchio delle mura, alle quali sorvegliò anche il celebre cronista
Giovanni Villani; e per opera dello stesso architetto fu nel medesimo
anno costruita e lastricata tutt'intorno la Loggia d'Or S. Michele,
sotto la quale allora vendevasi il grano; e cosí pure fu lastricata
la Piazza dei Signori, e venne abbellita e restaurata la Badia. Folco
Portinari, padre della Beatrice di Dante, fondava a sue spese la chiesa
e l'ospedale di S. M. Nuova. Si lavorò alla Piazza di S. M. Novella; e
s'iniziarono molte altre opere di simil natura.[329]
Intanto continuavano come sempre le riforme politiche, fra cui
ricorderemo quella che nel 1290 ridusse da un anno a sei mesi l'ufficio
del Podestà,[330] che fu dato allora a Rosso Gabrielli da Gubbio,
città dalla quale vennero in Firenze e per tutta Italia molti Podestà
e molti Capitani del popolo. Le Marche, la Romagna e l'Umbria pareva
ne fossero allora il vivaio, perché gli abitanti di quelle province
dediti alle armi, come è provato dal gran numero di capitani e
soldati di ventura che ne uscirono, erano anche assai pratici della
giurisprudenza, a cagione della vicina Università di Bologna. Questa
riduzione dell'ufficio del Podestà a soli sei mesi, non durò molto;
ma si deliberò per le ragioni stesse che fecero restringere a due
la durata della Signoria. L'ufficio di un magistrato, che doveva
amministrar la giustizia, comandare l'esercito, e menava seco un certo
numero di gente armata e per proprio conto assoldata, poteva riuscire
pericoloso, perché assai facile a trasformarsi in tirannide, come era
seguito già in parecchi Comuni italiani. Quindi è che a Firenze si
cercava ripararvi con una rapida mutazione, la quale non desse modo di
maturare disegni funesti alla libertà, né di trovare favori ed amici su
cui a lungo contare.
Ma ben altri e piú gravi mutamenti politici e sociali avevano luogo
nel seno della cittadinanza fiorentina. I segni d'una nuova e profonda
trasformazione divenivano ogni giorno piú visibili; era perciò
sempre piú necessario apparecchiarsi con la pace a sostenere l'urto
inevitabile e vicino delle future rivoluzioni. Gli Angioini, colla
loro presenza, coll'esempio dei loro baroni, col creare sempre nuovi
cavalieri in Firenze, avevano fatto crescere a dismisura l'orgoglio
dei potenti guelfi, cui ora si dava nome di Grandi. Costoro, imitando
i nobili francesi, assumevano modi poco repubblicani, e volevano
soverchiare in tutto e su tutti. Nel 1287 vi fu grave tumulto, perché
uno di questi prepotenti, a nome Totto Mazzinghi, venne, per omicidio
e per altri delitti, condannato a morte dal Podestà; e quando lo
menavano al supplizio, messer Corso Donati, uno dei maggiori cavalieri
in Firenze, si provò coi suoi a liberarlo colla forza. Il Podestà,
non volendo tollerare una cosí manifesta violazione delle leggi, fece
sonar la campana a martello, ed il popolo, levatosi a rumore, corse
armato, a piedi ed a cavallo, gridando: _giustizia, giustizia_ dopo
di che la giustizia venne fatta, ed anche assai severa. Il Mazzinghi,
condannato nel capo, fu prima strascinato per via e poi impiccato;
gli autori della ribellione contro il magistrato, furono condannati in
danaro, e la Città ritornò tranquilla. Ma questi non eran che segni di
mali maggiori, e gli uomini politici in Firenze se ne impensierivano
assai. I popolani guelfi, per mettere un argine all'alterigia dei
Grandi, e per impedire la loro unione col popolo minuto, cominciarono
ad allargare sempre piú le libertà politiche, nel tempo stesso che
vincolavano l'azione dei potenti. Questi erano già stati costretti,
come abbiam visto, a dare mallevadori responsabili delle loro azioni,
a giurare di non far vendette, di non sopraffare la plebe, e simili.
Destinata ad abbattere in Città e fuori la potenza dei Grandi, ad
accrescere quella del popolo, disfacendo gli ultimi residui del
sistema feudale, ancora esistenti, fu la legge assai memorabile del 6
agosto 1289. Con essa fu interamente distrutta la servitú nel contado,
dichiarando con parole le quali suonano come una proclamazione dei
diritti dell'uomo, che la libertà è un diritto imprescrittibile
di natura; che essa non può dipendere dall'arbitrio altrui; che la
Repubblica voleva in tutto il suo territorio, non solo mantenerla, ma
anche accrescerla.[331] E veniva cosí abolita ogni specie di servitú,
temporanea o a vita, ogni contratto, accordo o patto contrario alla
libertà personale.
Parve ad alcuni che già sin dal 1256 il Comune di Bologna avesse
compiuta questa riforma importantissima, la quale i Fiorentini
avrebbero solo 33 anni piú tardi imitata. Ma è un errore nato dal
supporre che l'abolizione della servitú si compiesse nei Comuni
italiani a un tratto, quando invece procedette lentamente e per
diversi gradi. Nel contado v'erano non solo i _nobiles_ ed i loro
_servi_, ma anche i _fideles_, i quali avevano già una personalità
giuridica, ma dipendevano ancora dai _nobiles_, cui prestavano servigî
e pagavano dazî. Piú tardi questa condizione dei _fideles_ migliorò
ancora, ed essi ottennero terre, in feudo o a livello, dai signori, ai
quali rimanevano però legati da patti personali, che li obbligavano
a restare in perpetuo sul fondo. E per questa ragione, i signori si
credevano sempre, o almeno fingevano credersi, in diritto di vendere il
fondo insieme coi _fideles_, anche quando ciò era divenuto contrario
allo spirito della legislazione. Nel 1256 i Bolognesi abolirono la
servitú, lasciando i contadini sempre dipendenti dal padrone, cioè
nella condizione piú o meno di _fideles_, condizione che nell'83
migliorarono ancora, ma non abrogarono del tutto. Invece già prima del
1289 nel contado fiorentino non v'erano piú servi, e i _fideles_ erano
giuridicamente da piú tempo divenuti quasi indipendenti dai padroni,
sebbene questi, abusando di patti puramente personali, li obbligassero
spesso a risiedere sul fondo, e presumessero di poterlo vendere, anzi
lo vendessero non di rado insieme con essi. Questi sono gli abusi
che i Fiorentini condannarono e soppressero nel 1289, come contrarî
alla libertà, la qual è «di diritto naturale», e perciò inalienabile.
La nuova legge dichiarava inoltre che, in conseguenza di ciò, tutte
queste vendite erano abusive e però di nessun valore nei loro effetti:
sciogliendo ed annullando ogni patto illegale, garantiva finalmente
al contadino la sua piena ed intera libertà. Aggiungeva anzi, che
d'ora in poi esso poteva (ancora senza che la vendita del fondo avesse
luogo) sciogliersi, mediante denaro, dai patti personali con cui s'era
legato al padrone. Cosí è che la legge del 1289 non aboliva la servitú
già da un pezzo abolita dai Fiorentini, ma per la prima volta rendeva
pienamente liberi i lavoratori della terra. E ciò seguiva ancora con
grande vantaggio economico del Comune, perché essi divenivano cosí
tutti suoi contribuenti diretti, e con non minore vantaggio della
democrazia, perché si spezzavano gli ultimi legami del sistema feudale,
e si fiaccava la potenza dei signori del contado.[332]
In questo e nel seguente anno furono prese altre non poche
deliberazioni intese a rafforzare il popolo nella Città, le
quali dimostrano che Firenze procedeva sempre piú oltre nelle sue
trasformazioni politiche e sociali. Prima di tutto s'accrebbe il
numero delle Arti legalmente costituite, aggiungendone alle 7 maggiori
altre cinque, portandole a 12, con proprie insegne, ordini, armi
ed importanza politica.[333] Infatti noi ora troviamo, che gli atti
ufficiali della Repubblica parlano di 12 Arti maggiori, mentre che per
lo innanzi parlavano solo di sette. Ben presto, è vero, esse tornarono
a sette; ma le cinque che restavano, vennero allora unite ad altre, e
portate cosí a quattordici, col nome di Arti minori, formando in tutto
21 Arti, che fa il numero definitivo. Si fece nel 1290 un'altra legge,
chiamata _del divieto_, la quale ordinò che chiunque fosse stato una
volta Priore, non potesse per tre anni di poi tornare in ufficio. Piú
tardi questo _divieto_ fu in parte esteso anche ai parenti.[334] Erano
sempre provvedimenti intesi a mettere un argine contro ogni possibilità
di futura tirannide, un freno alla crescente alterigia dei Grandi.
A questo medesimo fine miravano ancora altre leggi. Troviamo infatti
due provvisioni deliberate alla quasi unanimità il 30 giugno ed il 3
luglio 1290.[335] Con esse si proibiva severamente a tutti coloro che
erano a capo delle Arti di far monopolio, accordi, leghe, _posture_
e simili, con cui si cercasse, in qualunque modo, imporre prezzi
arbitrariamente fissati, senza osservare le norme prescritte dagli
Statuti. E la pena ricadeva severamente non solo sugli autori di questi
arbitri, che dovevano pagare l'ammenda di 100 lire, ma anche sull'Arte
cui essi appartenevano, la quale era condannata in 500 lire, per non
aver provveduto all'osservanza delle leggi, e sui Rettori e Consoli di
essa, che erano condannati in 200 lire.
Di assai maggiore importanza fu un'altra legge deliberata il 2 gennaio
1291, la quale diceva chiaro di voler frenare con la forza la rapacità
felina dei Grandi (_volentes lupinas carnes salsamentis caninis
involvi_).[336] Essa proibiva severamente di ricorrere a tribunali o
magistrati, che non fossero quelli per legge costituiti, cioè i Priori,
il Capitano, il Podestà e i giudici ordinarî del Comune. Coloro che
dal Papa, dall'Imperatore, dal re Carlo o dai loro Vicarî avessero
ottenuto esenzione di qualunque sorta, o arbitrio di ricorrere ad
altri magistrati, e pretendessero di poterlo fare; coloro che, con
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