I primi due secoli della storia di Firenze, v. 1 - 03

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il ducato di Benevento nell'Italia meridionale. Il Papa, coll'assumersi
il diritto di consacrare l'Imperatore, da cui ricevette grandi donativi
e promesse di terre, ne crebbe assai di potenza. Roma però si reggeva a
libero municipio; anche Venezia, come le città greche del mezzogiorno,
era già sorta a libertà. Tale era lo stato d'Italia dopo l'ultima
invasione di barbari, quella cioè dei Franchi.
Questi nuovi padroni, al solito, presero il terzo delle terre; ma la
condizione degl'Italiani fu allora assai migliorata. La legge romana
venne riconosciuta come legge dei vinti, il che è segno evidente
che nei due secoli di dominazione longobarda essa non era poi morta
davvero. Carlo Magno sollevò di molto lo stato dei Latini, che innalzò
qualche volta sino agli _onori_, ossia ufficî di nomina regia. Ma
ciò che dette carattere proprio al suo regno in Italia, fu il nuovo
ordinamento che vi fondò. Distrusse la potenza dei duchi, minacciosi
troppo all'unità dell'Impero; sollevò in lor vece i conti. Neppure
nelle Marche, o sia province limitrofe, nelle quali piú Comitati
restavano uniti, egli volle un duca; ma vi pose invece i marchesi
(_Mark-grafen, Praefecti limitum_). In questo modo l'antica unità
del comitato o _Gau_ ritornava ad esser la base della nuova società
barbarica. Ma Carlo Magno andò piú oltre ancora; cominciò a dare
ufficî, terre, possessi in _beneficio_, cioè a dire in feudo, e quindi
sotto condizione d'un servizio militare obbligatorio. Questo fu il
principio d'una rivoluzione sociale, cominciata forse prima di lui, ma
portata ora a compimento col nome di feudalismo. Né solo l'Imperatore,
ma i re, i conti, i marchesi, per avere buon numero di vassalli,
dettero terre, rendite, uffici in feudo. Cosí si creò un numero
infinito di nuovi potenti, _vassalli, valvassori_, e _valvassini_, che
erano i minimi. A poco a poco la forma di tutta la società del Medio
Evo divenne feudale: la terra, con gli uomini che la coltivavano,
fu concessa con l'obbligo di prestare insieme con essi un servizio
militare. I medesimi privilegi, i medesimi obblighi accompagnavano ogni
concessione di dominî o ufficî, ed anche a questi era quasi sempre
unita la concessione di terre o di rendite. Cosí quella tendenza
della stirpe germanica a dividersi e suddividersi in piccoli gruppi,
veniva soddisfatta, ed in pari tempo l'Impero, le città, la Chiesa
stessa rivestivano forma feudale. I vescovi ben presto divennero
anch'essi possessori di benefizî, e di grado in grado salirono a
sempre maggiore potenza, fino a che li troviamo come altrettanti conti
o baroni. Essi ricevono per sé e pei loro sottoposti la _immunità_
dai tribunali e dalle leggi ordinarie, altro vantaggio inestimabile,
che doveva contribuire a farli piú indipendenti, a creare grandi
nuclei di popolazioni a loro sottoposte. Il feudalismo adunque è un
nuovo ordinamento, una nuova aristocrazia affatto germanica, e nello
stesso tempo è il principio d'una profonda rivoluzione nella società
barbarica, rivoluzione che dovrà continuare, estendersi in mezzo
a molte vicende. A poco a poco la Corona comincerà ad _esentare_ i
benefizî o feudi dei vassalli dall'autorità del conte, per dichiararli
ereditarî, con una serie di leggi, che tendevano tutte a sollevare i
minori potenti contro i maggiori, a dare sempre piú forza all'autorità
regia, ma che riuscirono invece ad aprire la via del riscatto al popolo
oppresso. Tutto ciò, per altro, non era anche visibile sotto Carlo
Magno; egli ordinò il feudalismo, tenne unito e fiorente l'Impero, che
poco dopo la sua morte (814) si sciolse in varî regni.
In Italia il dominio dei Franchi durò sino alla morte di Carlo il
Grosso, seguita nell'888. E durante questo dominio di 115 anni, la
rivoluzione da noi accennata seguí costantemente il suo cammino.
Crescevano per tutto i benefizî o feudi, e crescevano del pari, d'anno
in anno, le esenzioni. Si concedevano ai vescovi piú che agli altri,
perché i benefizî dati ai laici, si trasmettevano agli eredi, e cosí
li rendevano troppo potenti. Di tutto ciò, insieme coi vescovi,
profittavano le città in cui essi abitavano. Dapprima vi dominava
solo il conte, meno che nella parte di patrimonio regio, la quale era
detta _gastaldiale_, perché vi comandava il gastaldo; poi aumentò
la potenza del vescovo, ed allora un'altra parte fu _esentata_, e
divenne _vescovile_. A poco a poco questa parte s'estese a quasi
tutta la città: molte di esse si trovano infatti comandate dal solo
vescovo. Cosí s'indeboliva la fibra, e, quasi direi, si smagliava la
società barbarica, con un metodo utile a tenerla soggetta all'autorità
suprema del re, se non vi fosse stato un popolo, che si credeva morto,
ma che pure era vivo e vicino a sollevarsi contro i nobili, i re,
gl'imperatori, contro i vescovi e contro i papi.
Due rivoluzioni, adunque, hanno luogo successivamente in favore della
libertà, cominciate ambedue sotto i Carolingi, e continuate sotto i
loro successori. La prima indebolisce e snerva la società barbarica,
che in Italia trova un terreno poco adatto a fecondarla; la seconda
apparecchia il sorgere dei Comuni. Colla morte di Carlo il Grosso cessa
il regno dei Franchi e cessano finalmente le invasioni dei barbari. I
popoli germanici s'erano fermati sulla terra italiana, e cominciavano
ad incivilirsi. L'Italia però doveva ancora traversare una serie di
rivoluzioni e d'anni tristissimi. Nello sciogliersi dell'Impero franco,
s'erano visti conti e soprattutto i marchesi, i quali ultimi, riunendo
piú comitati, erano come tanti duchi, sorgere a strane pretese,
tentando di formare addirittura Stati indipendenti, e spesso finire
col riuscirvi. Infatti, anche oggi, molte delle famiglie regnanti
sono discendenti di conti e di marchesi franchi. Invano s'erano dati
benefizî ed immunità per indebolirli affatto: la loro potenza non si
poteva cosí presto estinguere. Ed in vero nella stessa Italia, dove
la diversità del paese, l'indole tenace d'un'antica civiltà non mai
scomparsa del tutto, che anzi cominciava adesso a rifiorire; dove il
Papato ed i Greci bizantini avevano impedito l'assoluto trionfo della
società germanica; nella stessa Italia sorgono pure conti e marchesi
feudali a disputarsi la corona reale. Seguirono lunghi anni di nuove
desolazioni e di lotte, che si chiusero col lasciare finalmente
l'ambita corona in mano di re e d'imperatori tedeschi. Disputarono e
combatterono dapprima Berengario del Friuli e Guido di Spoleto, con
altri conti e marchesi italiani o stranieri, un re di Germania, due
di Borgogna, e finalmente Ottone re di Germania, che restò vincitore.
Furono piú di settanta anni di guerre continue, durante le quali,
per la prima volta, regnarono in Italia re italiani, con dominio però
sempre incerto e contrastato. S'ebbero poi circa quarant'anni di pace
(961-1002), nei quali governarono Ottone I, II e III, e di nuovo un
italiano, il marchese Arduino d'Ivrea, contese ai re tedeschi la
corona d'Italia. Ma egli fu vinto nel 1014 da Arrigo di Germania,
soprannominato il _Santo_, a cui successe Corrado della casa di
Franconia o Salica.
Questi due sovrani tedeschi compierono la rivoluzione feudale da
noi accennata, che i Carolingi avevano cominciata, gli Ottoni
proseguita, e che pure non era bastata ad assicurare l'alto
dominio dei re ed imperatori in Italia. In ogni modo, siccome gli
Ottoni avevano moltiplicato a piú potere le esenzioni dei minori
vassalli dall'autorità dei conti e dei marchesi, e moltissime
città italiane avevano date ai vescovi, e siccome da tali e tante
esenzioni venne assai agevolato il risorgimento dei Comuni, cosí
è che nacque l'opinione di coloro i quali vorrebbero di questo
risorgimento attribuire agli Ottoni il merito principale. Ma lo scopo
degl'imperatori era stato ben altro, e non lo avevano raggiunto. Essi
volevano diminuire la forza di quelli che potevano contrastar loro la
corona, come di fatto fu minacciato nella sollevazione del marchese
d'Ivrea. Per questa ragione Arrigo il Santo andò oltre nel sollevare i
maggiori feudatarî a danno dei _possessori di onori_, che erano appunto
i conti ed i marchesi, i quali ultimi furon da lui quasi annullati.
Corrado il Salico portò quest'opera a maggior compimento, favorendo
anche i minori feudatarî, e dichiarando ereditarî i benefizî. Da quel
momento la vittoria dei re ed imperatori tedeschi sull'aristocrazia
feudale fu assicurata, perché i vassalli, una volta padroni dei loro
feudi, venivano sotto la dipendenza diretta della Corona, e cosí
l'orgoglio dei grandi signori era fiaccato per sempre. Ma non era
fiaccato il nuovo orgoglio popolare, divenuto tanto piú potente, quanto
meno era stato avvertito.
È certo adunque che, per una moltitudine di fatti, le condizioni della
gente romana erano andate continuamente migliorando; che la società
feudale, per opera degli stessi sovrani, si sfasciava e sfibrava di
giorno in giorno sempre piú; che la civiltà latina, per forza naturale
delle cose, risorgendo, alterava, assimilava e smaltiva i principî
della società germanica. Prima che le due stirpi si combattessero, le
tradizioni dei vinti avevano piú volte combattuto e superato quelle
dei vincitori, dai quali era stato già accettato in molte parti il
diritto romano, quando i vinti d'una volta chiesero la sanzione dei
loro municipali Statuti.
Gl'Italiani si trovavano in uno stato di fermento e trasformazione
profonda, quando si videro i primi segni del risorgimento dei
Comuni. Il dominio barbarico e l'Impero non s'erano potuti mai nella
Penisola impadronire davvero di tutta la società, e quando, ordinato
il feudalismo, questo pareva che dovesse diffondersi per tutto, ed
assicurare agl'Imperatori tranquilla signoria fra noi, sorgevano
invece a un tratto nuove cagioni di pericolo e di lotta. Il Papato
ed il clero salirono a sempre maggiore e piú pericolosa potenza; le
immunità, per tema dei laici, date sempre piú largamente ai vescovi, li
resero come signori temporali dipendenti dagl'Imperatori, e dal Papa
invece dipendevano come dignitarî spirituali: ebbero in fatti doppia
investitura. Da ciò un disordine grande, una corruzione scandalosa
nella Chiesa, essendosi i vescovi mutati in altrettanti conti feudali,
che comandavano nelle città, guerreggiavano fuori, tenevano corte
bandita, si davano a tutti i piaceri. I Papi volevano rimettere
la disciplina, reggere con assoluto imperio i vescovi, nominarli
senza trovare ostacolo di sorta; ma a ciò si opponeva l'Imperatore,
perché il temporale dominio dei vescovi li metteva logicamente anche
sotto la sua autorità. Cosí cominciò la tanto romorosa lotta per le
investiture, tra il Papato e l'Impero, lotta in cui la vittoria fu
lungamente contrastata. E intanto né la Chiesa, né l'Impero, né il
feudalismo potevano impadronirsi esclusivamente dell'indirizzo sociale,
e le continue dispute crescevano il disordine. In tale stato di cose
l'autorità dei vescovi s'andò indebolendo anch'essa, ed i Comuni che,
nel tempo delle sedi vacanti, imparavano di necessità a reggersi da
sé, che vedevano le repubbliche del mezzogiorno assai fiorenti, che
sentivano d'avere forze sempre maggiori pel cresciuto commercio e
pel disordine feudale, capirono finalmente che era sonata per essi
l'ora del riscatto. Né in quelle città dove restavano a comandare i
conti laici, le cose andarono diversamente, giacché il parteggiare per
l'Impero o per la Chiesa suscitava sempre un gran numero di nemici ai
potenti, e mille aiuti ai deboli.
Nell'undecimo secolo, adunque, dall'un capo all'altro d'Italia
sorgevano i Comuni, e una volta gustata la dolcezza del vivere libero,
non fu piú possibile rimetterli in vassallaggio dei vescovi, né dei
conti, né dell'Impero. Sorgendo, essi si trovarono ovunque circondati
da un numero infinito di conti e duchi e baroni, piccoli e grossi,
giacché la società feudale era ancora potentissima e padrona di tutte
le campagne. Eredi del sangue germanico, esercitati alle armi, questi
nobili combattevano, in nome dell'Impero, pe' suoi diritti, nel proprio
interesse, contro la nuova società comunale, che ad un tratto si levava
potente e minacciosa. Essi scendevano dai loro castelli a chiuder
le vie al commercio dei Comuni; imponevano taglie; facevano minacce;
volevano trattar da vassalli i liberi cittadini, che perciò, sdegnati,
uscivano di tratto in tratto a far vendetta, e non di rado finivano con
lo spianare i superbi castelli. Quei nobili invece che erano restati
nelle città, stanchi adesso di vivere in mezzo ad uomini che non
facevano piú distinzione alcuna di sangue o di casta, spesso emigravano
per raggiungere i loro compagni. L'emigrazione fu tale che piú volte
i cittadini, risentendone gravi danni, fecero leggi per impedirla. Il
Papa incoraggiava i Comuni, perché a lui non doleva la scemata potenza
temporale dei vescovi, e gli era necessario l'abbassamento dell'Impero.
Cosí la lotta degli artigiani contro il feudalismo finalmente
cominciava, e con essa la vera storia dei nostri Comuni.
Non bisogna però credere che il Comune sorgesse in nome dei diritti
dell'uomo o delle libertà nazionali. Nulla di ciò. L'Impero era
riconosciuto sempre come la fonte unica, universale del diritto. In
fatti fino quasi a tutto il secolo XV, le città guelfe o ghibelline,
nemiche o amiche dell'Impero, continuarono a scrivere in suo nome
i pubblici atti.[12] Le risorgenti repubbliche accettavano sempre
l'alto suo dominio, e la loro dipendenza da esso, quasi direi
che, chiedendo una nuova e piú generale esenzione, volevano solo
essere come duchi o conti di sé stesse. Combattevano i nobili e
combattevano l'Impero; ma dopo la vittoria, riconoscevano l'autorità
dell'Imperatore, ed a lui chiedevano la sanzione delle conquistate
libertà. Né i Papi desiderarono mai la distruzione dell'Impero, della
cui protezione avevano spesso bisogno, che riconoscevano anch'essi
erede legittimo dell'antica Roma, e quindi sorgente unica del diritto
politico e civile: volevano bensí sottomettere il potere temporale
allo spirituale. La teocrazia ed il feudalismo, il Papato e l'Impero
sussistevano adunque e combattevano sempre, quando il Comune sorgeva.
Esso dové lungamente ancora lottare contro ostacoli d'ogni sorta; ma
era destinato a trionfare, a creare il terzo stato ed il popolo, che
soli potevano dal caos del Medio Evo far nascere la società moderna. In
ciò sta la sua principale importanza storica.


CAPITOLO I[13]
LE ORIGINI DI FIRENZE

I
Le origini di Firenze sono assai oscure, né valgono a rischiararle i
cronisti, i quali o ne tacquero o le avvolsero nelle leggende. Su di
essi, sul valore e la credibilità diversa di ciò che dissero, si è
recentemente scritto assai. Ma, per volerne saper troppo e per troppo
sottilizzare, si è qualche volta finito col disputare lungamente
e dottamente anche su cose che forse resteranno sempre ignote, né
importava poi molto conoscere, e si è lasciato da parte ciò che piú
era facile scoprire e piú necessario sapere. A questo modo si corre
il rischio di formare intorno a tali scrittori una specie di scienza
occulta pei soli iniziati, quando tutto quello che di veramente certo
ne sappiamo, può esprimersi in poche parole.
Il Comune di Firenze sorse piú tardi di molti altri, e quindi piú
tardi ebbe i suoi storici e cronisti, perché la storia del Comune
si comincia a scrivere quando esso ha già acquistato coscienza
della sua personalità. Cosí fu che nel secolo XII si cominciarono a
raccogliere notizie annalistiche, le quali registravano alcuni fatti
principalissimi seguiti in Firenze, con le date, i nomi di luoghi
e persone, e nello stesso tempo si principiarono a formare elenchi
dei Consoli, che erano il primo magistrato del Comune, ai quali
s'aggiunsero poi i nomi dei Podestà, che successero ai Consoli. Questi
magistrati mutavano d'anno in anno; quindi i loro nomi servirono anche
di guida cronologica, e sotto di essi si registrarono ben presto i
fatti principali della Città.
Di tali raccolte annalistiche c'è rimasto un frammento assai antico,
che trovasi nella Vaticana, ed è scritto a tergo d'un foglio, il
quale fa parte d'un codice di leggi longobarde.[14] Sono in tutto
diciotto notizie, che vanno dal 1110 al 1173, scritte da diverse mani,
tutte però del secolo XII, non senza errori, e neppure in ordine
cronologico. Esse sono nondimeno molto importanti, perché le piú
antiche che abbiamo. Un'altra simile raccolta di notizie, piú lunga,
ma assai posteriore, che va dal 1107 al 1247, si trova nella Biblioteca
Nazionale di Firenze, in un manoscritto del secolo XIII.[15]
Ambedue furono recentemente ripubblicate ed illustrate dal dottor
Hartwig, che le intitolò _Annales florentini I_, ed _Annales florentini
II_.[16] Il codice in cui si trovano i secondi Annali, contiene anche
il piú antico elenco di Consoli e di Podestà che ci sia rimasto, il
quale va dal 1196 al 1267, e poté con nuove ricerche essere reso piú
compiuto.[17] Altri non pochi elenchi di notizie fiorentine dovettero
certamente esservi, prima in latino, poi in italiano, i quali, girando
di famiglia in famiglia, di mano in mano, s'andarono estendendo,
correggendo, alterando, secondo i gusti, e qualche volta anche secondo
la fantasia di chi li copiava. Ma da tutto quello che ci resta di
siffatti elenchi, da ciò che ne troviamo ripetuto nei cronisti, si può
quasi con certezza indurre che poco o nulla dicevano sulle origini del
Comune. E ciò deve farci credere, che esso non nacque da un conflitto
violento, da una vera e propria rivoluzione, che gli annalisti
avrebbero certo ricordata, ma s'andò invece lentamente formando e
svolgendo in mezzo a lotte di secondaria importanza.
Se noi oggi desideriamo conoscere le origini del Comune fiorentino,
questo desiderio, come è naturale, dovettero averlo piú vivo ancora gli
antichi. Essi non avevano però quell'arte e quel metodo critico, che fa
cercare e spesso scoprire la storia piú remota ed oscura nei documenti,
i quali allora dovevano essere di certo molto piú numerosi che non sono
oggi. Si abbandonarono quindi piú facilmente alla propria fantasia, e
cosí ne nacque una leggenda sull'origine della Città, che ben presto si
diffuse assai largamente.
Il primo nucleo, da cui questa leggenda s'andò poi sempre piú svolgendo
ed accrescendo, dovette formarsi nel secolo XII, perché essa è già
nota al cronista Sanzanome, che la ricorda, ed egli scrisse ai primi
del secolo XIII. Molto piú antica non si può supporre che sia, perché
i fatti cui accenna, e le date cui allude, per quanto indeterminate
e vaghe, la portano, come vedremo, a dopo del mille. Di questa
leggenda si trovano ancora parecchie copie inedite nelle biblioteche
fiorentine,[18] e tre diverse compilazioni ne furono pubblicate per le
stampe. La piú antica di esse, in latino, l'abbiamo in un codice della
fine del secolo XIII, o dei primi del XIV.[19] La seconda, che è in
italiano, trovasi in un manoscritto lucchese, compilato fra il 1290 e
il 1342;[20] essa ricorda in un punto l'anno 1264,[21] nel quale assai
probabilmente fu compilata. Un'ultima e piú recente, conosciuta col
titolo di _Libro fiesolano_, trovasi nella Marucelliana di Firenze, in
un codice italiano, che ha la data del 1382, e fu scoperta dal signor
Gargani, il quale la pubblicò sin dal 1854.[22] L'Hartwig scoprí la
seconda di queste compilazioni, che differisce dalla prima solo nella
lingua, e le pubblicò tutte e tre col titolo di _Chronica de Origine
Civitatis_,[23] titolo che le dà il codice lucchese; altri codici la
chiamano, invece, _Memoria del nascimento di Firenze_.
Tale è il genere di materiali, che sull'origine di Firenze trovarono,
e di cui dovettero servirsi i piú antichi cronisti. Il primo di essi
che ci sia rimasto, è il giudice e notaio Sanzanome, il quale, come
già dicemmo, scrisse i suoi _Gesta Florentinorum_ in sul principio
del secolo XIII. Il suo nome s'incontra piú d'una volta nei documenti
fiorentini dal 1188 al 1245.[24] E se non si può affermare che questo
nome si riferisca sempre ad una sola e medesima persona, è pur certo
che lo stesso cronista ricorda d'essersi trovato presente alla guerra
di Semifonte nel 1202, ed a quella di Montalto nel 1207. La sua
opera trovasi del resto in un codice fiorentino del secolo XIII, non
autografo, ma sincrono o quasi.[25] Questo primo saggio di storia
fiorentina, scritto in latino da un giudice e notaio, venuto in Firenze
da qualche vicino castello, come suppongono il Milanesi e l'Hartwig,
è di un genere a sé, diverso assai da tutti gli altri lavori dei
cronisti fiorentini che vennero dopo. Dell'origine del Comune e della
sua interna costituzione il Sanzanome non dice neppure una parola.
Dopo avere sommariamente, vagamente accennato alla leggenda,[26]
incomincia colla guerra e distruzione di Fiesole nel 1125, _cum eius
occasione Florentia sumpsisset originem_. Cosí egli ci mostra, sin
dal principio, già costituito il Comune, co' suoi Consoli e capitani,
e continua narrando le sue guerre co' vicini, in una forma gonfia e
retorica, con date spesso incerte, qualche volta errate, con discorsi
nei quali pretende imitare gli antichi storici romani. E per tutto ciò
il suo lavoro fu da alcuni scrittori giudicato senza alcuna importanza
storica. Ma critici piú imparziali e ponderati, come l'Hartwig, l'Hegel
ed il Paoli, riconobbero invece che l'opera di questo notaio, quasi
precursore degli umanisti del secolo XV, è un fenomeno letterario,
nella sua solitaria apparizione, assai notevole, perché ci dà prova
dell'antica cultura de' Fiorentini, e perché al di sotto della retorica
c'è pur da ritrovare in essa non poche notizie e cognizioni assai utili
sull'antica storia di Firenze.
Il problema quindi che allora si presentò a tutti gli altri cronisti,
rimaneva sempre questo: come si poteva scrivere sui primi tempi di
Firenze, una storia o anche una cronica, con le scarse e slegate
notizie che si avevano? Il notaio Sanzanome se n'era uscito tacendo
affatto delle origini, e poi gonfiando, a forza di retorica, la
narrazione, con discorsi immaginarî, con descrizioni di battaglie,
in cui la fantasia e l'imitazione classica avevano gran parte. Ma
un tal metodo non poteva piacere, né poteva riescire a quegli uomini
piú semplici, che, dopo di lui, volevano scrivere nella loro lingua
parlata, e avevano una cultura minore o almeno assai diversa dalla sua.
Rimanevano quindi con una leggenda e con pochi frammenti di notizie, il
che non doveva certo soddisfare il loro patriottico orgoglio.
Fortunatamente per essi, allora appunto, cioè verso la metà del
secolo XIII, avvenne un fatto che ebbe molta importanza letteraria,
e che valse ad aprire ai cronisti fiorentini una strada nuova. Un
frate domenicano, Martino di Troppau in Boemia, chiamato perciò anche
_Oppaviensis_, e volgarmente noto col nome di Martin Polono, cappellano
e penitenziario apostolico, piú tardi arcivescovo, scrisse un libro
di storia, che, sebbene non avesse alcun notevole valore, ebbe pure
una straordinaria e rapida fortuna. Era una specie di Manuale di
storia universale, cronologicamente distribuita sotto i nomi dei varî
Imperatori e Papi, sino al 1268. Piú tardi l'autore stesso la continuò
per alcuni anni ancora, e vi premise una introduzione sulla storia
anteriore all'Impero romano.[27] Questo libro, meccanicamente ordinato,
era pieno di aneddoti, di errori, di favole; ma l'aveva scritto un
prelato eminente, animato da spirito guelfo. L'aver poi l'autore
diviso i fatti del Medio Evo sotto i nomi dei Papi e degl'Imperatori,
dava come una guida, un filo conduttore nel vasto laberinto. Certo
è che il libro si diffuse subito in tutta Europa, ma specialmente in
Italia, e piú che altrove in Firenze. «Un Fiorentino primo lo tradusse,
e un Fiorentino, Brunetto Latini, primo lo adoperò», dice il prof.
Scheffer Boichorst. Le biblioteche fiorentine ne conservano infatti
un grandissimo numero di copie, in codici latini del secolo XIV, ed in
altri dello stesso secolo hanno una traduzione italiana, che, secondo
le ricerche degli studiosi,[28] dovrebbe essere stata fatta a Firenze
circa il 1279.[29] Questo solo fatto basterebbe a provar luminosamente
la rapida popolarità e diffusione dell'opera. In alcuni di coloro che
a Firenze copiavano, e copiando rifacevano, come allora usava, questa
traduzione, dovette facilmente nascere il pensiero d'introdurvi, qua
e là, le piú importanti almeno fra le poche notizie che s'avevano
sull'antica storia della Città. Ma siccome, verso la fine del secolo
XIII, l'opera di Martin Polono si fermava, e le notizie fiorentine
invece crescevano molto di numero e di estensione, cosí ne avveniva
che, senza quasi pensarvi, tutti questi rifacimenti smettevano allora
la storia universale, e continuavano con la fiorentina, a cui la
prima veniva in tal modo a servire d'introduzione, con non piccola
soddisfazione dell'amor proprio municipale.
Uno dei primi lavori che ci presenti Martin Polono tradotto,
abbreviato, rifatto, con l'innesto d'alcune notizie fiorentine,
è quello che ha per titolo: _Le Vite dei Pontefici et Imperatori
romani_, che fu attribuito al Petrarca, e trovasi in parecchi codici
fiorentini del secolo XIV. In esso però la storia di Firenze ha ancora
un'importanza molto secondaria, tanto è vero che, essendo stato piú
tardi raffazzonato e continuato fino al 1478, quando fu la prima volta
pubblicato,[30] si seguí sempre il metodo primitivo del Polono, dando
cioè, via via, in compendio, le Vite degli altri Papi ed Imperatori.
Ma non mancarono ben presto nuovi tentativi, nei quali si dette a
Firenze una parte assai maggiore. Un manoscritto del secolo XIV, nella
Biblioteca Nazionale di Napoli, esaminato la prima volta dal Pertz,
ci presenta, in fatti, molto abbreviate le notizie di Martin Polono,
dando assai piú larga estensione a quelle su Firenze, le quali arrivano
sino al 1309.[31] Qui si comincia a veder chiaro che le seconde son
per l'autore lo scopo principale del lavoro, tanto che all'Hartwig
poté sembrare opportuno estrarle dal codice, e stamparle a parte, come
una delle fonti di cui assai probabilmente si valse il Villani.[32] Lo
stesso concetto apparisce molto piú chiaro in una Cronica attribuita
a Brunetto Latini. Alcune delle notizie fiorentine che in essa
si trovano, furono da lungo tempo e piú volte estratte, stampate,
adoperate, specialmente la nota dei Consoli e dei Podestà, di cui
anche l'Ammirato si valse, e una narrazione del fatto del Buondelmonti
(1215), diversa assai da quella dataci dal Villani. Si poté subito
affermare che l'autore scriveva nel 1293, perché in quell'anno appunto
ricorda un fatto cui dice essersi trovato presente.[33] Piú tardi
la Cronica fu attribuita a Brunetto Latini, sebbene la narrazione
arrivi fino ad un tempo in cui il maestro di Dante era certamente
morto.[34] Nelle sue dotte ricerche il dottor Hartwig scoprí in Firenze
quello che, secondo ogni apparenza, dovrebbe essere l'autografo.[35]
Quantunque il codice sia mutilo, cominciando solo dal 1181, pure
è doppiamente prezioso, perché ci pone dinanzi chiarissimamente il
metodo con cui questo lavoro, al pari certo di molti altri simili,
fu compilato. Una colonna nel mezzo contiene il solito rifacimento di
Martin Polono;[36] nei margini, fra le rubriche, qualche volta anche
negl'interlinei, sono aggiunte notizie di storia generale, cavate da
altre fonti, ma sopra tutto notizie di storia fiorentina.
E cosí s'arriva al 1249, dove c'è una lacuna che va sino al 1285,
quando l'autore ripiglia la sua narrazione, per arrivare al 1303.[37]
In questa seconda parte però il suo lavoro muta affatto carattere.
Egli non ha piú dinanzi a sé la guida di Martin Polono, e ne abbandona
anche il metodo. Le notizie dell'Impero e della Chiesa diminuiscono
sempre piú, e crescono invece quelle di Firenze, le quali non sono ora
staccate ed introdotte capricciosamente nella narrazione, ma riunite e
fuse insieme. Cosí, a poco a poco, noi abbiamo dinanzi una vera cronica
di Firenze, che acquista un suo proprio valore indipendente. Il dott.
Hartwig, che l'aveva scoperta, la credette in principio autografa, ma
finí poi col dubitarne. La gran confusione del manoscritto; l'essere
mutilo in sul principio; la lacuna di trentasei anni nel mezzo;
la mancanza d'alcune notizie, che si trovavano negli estratti di
essa, riportati da antichi scrittori; il vedere che molti di questi
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