I primi due secoli della storia di Firenze, v. 1 - 07

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qui non possono essere i conti Guidi, amici allora di Matilde e di
Firenze, contro la quale combatterono assai piú tardi, quando vennero
per antonomasia chiamati _i Conti_. In Val di Pesa furono nel 1110
combattuti e vinti i Cadolingi, chiamati anche _Cattani lombardi_, che
possedevano da Pistoia, per la Val di Nievole, fin verso Lucca, e pel
Val d'Arno inferiore, fin verso Firenze. Se questa poté dar loro una
rotta, bisogna concluderne che già aveva acquistato una gran forza,
quantunque si debba supporre che anche ora sia stata aiutata dalle
genti di Matilde.
Nel 1113 seguono altre due imprese militari, che dettero luogo a
dispute infinite fra gli eruditi, perché narrate in modo diversissimo
dai cronisti. Abbiamo prima di tutto l'assalto e distruzione di Monte
Cascioli, che alcuni pongono nel 1113, alcuni nel 1114, altri nel 1119,
quando sarebbe stato difeso da un Tedesco, Rempoctus o Rabodo, vicario
imperiale, che vi morí. Altri cronisti ripetono la distruzione del
castello nei tre diversi anni, e finalmente il Villani mette il colmo
alla confusione, riunendo in uno i vari assalti, ponendoli tutti nel
1113, e dicendo che il castello era stato ribellato da Roberto tedesco
vicario dell'Imperio, il quale risedeva in S. Miniato al Tedesco (IV,
29). Ma nel 1113, prima cioè che morisse la Contessa, non v'era un
vicario imperiale in Toscana, e però non poteva risiedere a S. Miniato,
che ancora non aveva l'appellativo _al Tedesco_. La confusione però
secondo noi cessa del tutto, i cronisti si pongono d'accordo, e le
diverse narrazioni si spiegano facilmente, se si ritiene che nel 1113
vi fu solo un primo assalto a Monte Cascioli, che poté difendersi con
vigore.[110] Non si riuscí allora che a distruggere una parte sola
delle mura, e fu perciò necessario rinnovare l'assalto nel 1114, quando
esse furono demolite. Piú tardi vennero ricostruite, e però nel 1119,
quando Firenze già era indipendente, tornò ben due volte all'assalto,
nel quale uccise il messo dell'Impero, che ne aiutava la difesa:
il castello allora venne finalmente demolito e bruciato. Ma senza
anticipare i fatti, possiamo qui concludere che, prima della morte di
Matilde, i Fiorentini colle guerre di Monte Orlando, di Prato, di Val
di Pesa, di Monte Cascioli, si erano aperte al commercio le vie di
Signa, Prato e Val d'Elsa.
Un altro avvenimento, seguito pure negli anni 1113-15, e ricordato
invece dai cronisti nel 1117, l'impresa cioè dei Pisani alle Baleari,
dette anch'esso origine ad una disputa abbastanza intricata. Come
già dicemmo, i Pisani guerreggiavano i Musulmani fin dalla metà del
decimo secolo, e la guerra infierí piú che mai nella seconda metà
dell'undecimo. Nel 1087, uniti ai Genovesi, essi schierarono una
flottiglia di quaranta navi dinanzi a Mehdia; nel 1113 partirono per
la piú grossa impresa delle Baleari. Con essi andarono molti conti
e marchesi lombardi e dell'Italia centrale, fra cui anche alcuni del
contado fiorentino. Unitisi poi ai conti di Barcellona, di Montpellier,
al visconte di Narbona e ad altri, assalirono le Baleari, e, dopo
ostinatissima difesa, presero il castello di Maiorca, menando secoloro
un giovane Burabe, ultimo rampollo della dinastia che ivi governava.
Il Villani accennando a questa guerra (1113-15), la fa seguire, al
pari di altri cronisti, nel 1117, ed aggiunge che i Pisani, temendo,
nel partire, che i Lucchesi, come già altra volta avevano fatto,
assalissero la loro città, ne affidarono la guardia ai Fiorentini.
Questi s'accamparono subito a due miglia dalle mura, e severamente
ordinarono che nessuno del campo osasse entrare in Pisa, pena la vita,
perché non volevano che, trovandosi essa quasi vuota di uomini, venisse
fatta qualche ingiuria all'onore delle donne, con grave discredito
della lealtà fiorentina. E l'ordine dato fu mantenuto. Un solo che
osò violare le leggi della disciplina venne condannato a morte, né a
salvarlo valsero punto le preghiere dei Pisani, i quali, non potendo
altro, protestarono di non volere che sul loro territorio si eseguisse
dai Fiorentini una sentenza capitale. E questi, per dimostrarsi anche
in ciò scrupolosi degli altrui diritti, avrebbero, secondo il cronista,
comperato un pezzo di terra, sul quale misero a morte il colpevole.
Tornati intanto dalle Baleari i Pisani carichi di preda, offrirono, in
segno di loro riconoscenza agli amici fedeli, o due porte di metallo
o due colonne di porfido, a libera scelta. I Fiorentini preferirono le
colonne, che furon consegnate, come cosa preziosa, ricoperte di drappo
scarlatto, e son quelle che si trovano ora sulla porta principale di S.
Giovanni. Quando però le ebbero scoperte, s'avvidero che, per invidia,
erano state sciupate col fuoco. È chiaro che in tutto ciò la leggenda
ha avuto la sua parte, e vi si scorge almeno una giunta posteriore,
fatta quando tra Pisa e Firenze nacque un lungo ed inestinguibile
odio.[111] Ma l'errore di data che troviamo ripetuto nel Villani ed in
altri non pochi cronisti, a proposito d'una guerra durata piú anni,
e che nel 1117 pareva dovesse solo ricominciare, non può essere una
ragione per negare quello che da tanti è costantemente affermato.[112]
L'impresa delle Baleari è certa, come è certo che fu condotta dai
Pisani, con l'aiuto di parecchi amici ed alleati. Il timore che la
Città potesse essere, nella loro assenza, aggredita dai Lucchesi, era
giustificato, essendosi il fatto già in altri tempi avverato. I Pisani
erano ora nemici dei Lucchesi ed amici dei Fiorentini, la cui lealtà,
in quei primi tempi, veniva assai generalmente riconosciuta. Perché
non si deve credere, che ad essi gli amici pisani affidassero, in
sul partire, la guardia della propria città, e che essi rispondessero
degnamente alla fiducia in loro riposta? Paolino Pieri non solo ripete
il fatto narrato da tutti gli altri cronisti, ma aggiunge, che la
terra su cui venne eseguita la condanna del soldato violatore della
disciplina, fu comprata per mezzo di Bello sindaco, e che egli la vide
ai giorni suoi tenuta sempre senza lavorarla, in memoria del fatto:
«ciò fu a di quattro di luglio, anni trecento due piú di mille, allora
ch'io la viddi soda». Il che dimostra almeno come la tradizione del
fatto continuasse nel secolo XIV, e come tutti vi prestassero piena
fede.

VI
L'anno 1115 morí la contessa Matilde, e ne seguí un pericolo di
tanto disordine, che incominciò addirittura un'èra novella per tutta
l'Italia centrale, e specialmente per Firenze. La Contessa, come è
noto, aveva lasciato in testamento alla Chiesa i suoi beni; ma una tale
donazione poteva avere effetto solamente pei beni allodiali, perché
i feudali tornavano di diritto all'Impero. Distinguere con precisione
gli uni dagli altri, non era sempre facile, spesso non era possibile:
quindi una serie interminabile di liti. E queste venivano sempre piú
complicate per l'ambizione del Papa e dell'Imperatore, ognuno dei quali
pretendeva avere diritto a tutto, l'uno perché erede universale di
Matilde, l'altro perché autorità suprema del Margraviato. Si aggiungeva
poi, come vedemmo, che molti si ritenevano ingiustamente spogliati
dei loro beni, dati invece a chi non vi aveva diritto alcuno. E ne
seguí quindi una vera crisi politico-sociale, che portò il disordine
al colmo. L'imperatore Arrigo IV mandò allora in Toscana un suo
rappresentante, col titolo di _Marchio, Iudex, Praeses_, ad assumerne
in suo nome il governo. Legalmente nessuno poteva certo contestargli
questo diritto; ma l'opposizione del Papa; l'attitudine delle città,
che ormai si ritenevano indipendenti; il disordine universale mandarono
in fascio il Margraviato. I rappresentanti dell'Impero non poterono
perciò far altro che mettersi alla testa della nobiltà feudale
del contado, e raccoglierla intorno a loro, per formare un partito
germanico avverso alle città. Nei documenti del tempo, i membri di
questo partito sono di continuo chiamati addirittura _Teutonici_.[113]
Firenze, circondata dai nobili incastellati nel suo territorio, non
aveva adesso che due partiti dinanzi a sé. O cedere a coloro che, stati
sempre suoi mortali nemici, erano insuperbiti del favore che dava loro
Arrigo, o, per combatterli a viso aperto, dichiararsi nemica anche
dell'Impero, il che, nello stato presente delle cose, equivaleva ad
una dichiarazione d'indipendenza. E fu quello che fece. Ormai aveva
acquistato coscienza delle proprie forze, ed in sostanza poi non aveva
altro scampo che nelle armi. Il fatto avvenne in modo semplicissimo,
quasi senza parere. Quegli stessi Grandi, che avevano amministrato la
giustizia, guidato il popolo, comandato il presidio in nome di Matilde,
ora, che ella piú non non c'era, né altri ne aveva preso il posto,
continuarono a governare in nome del popolo, che nelle occasioni piú
solenni consultarono. Cosí essi divennero i Consoli del Comune, che
si può dir nato, senza che alcuno se ne avvedesse. Ed è perciò che
i cronisti non ne parlano, che i documenti ne tacciono del pari, e
che sembra quindi oscurissimo e complicato un fatto chiarissimo e per
sé stesso evidente. A forza di volere scoprire avvenimenti ignoti, e
documenti smarriti, che non sono mai esistiti, si rese difficilissima
la soluzione d'un problema assai facile, e si perderono di vista
perfino i particolari piú evidenti e noti, che meglio valevano a
spiegarlo.
Non bisogna però credere che tutto ciò avvenisse addirittura senza
alcuna scossa, perché un mutamento assai notevole vi fu. Il governo,
è vero, rimaneva quasi lo stesso; ma se ne cambiava la base, giacché
veniva assunto, non piú in nome di Matilde, ma del popolo. E neppure
questa sarebbe stata gran cosa, perché già da un pezzo la Città era,
non legalmente, ma di fatto, padrona di sé, ed il popolo sentiva e
faceva sentire la sua propria personalità. Ma le conseguenze sociali
e politiche non furono poche né piccole. Come era naturale, sotto
Matilde, coloro che governavano venivano scelti da lei, e per quanto
nei tribunali e negli uffici le persone di tanto in tanto mutassero,
si restringevano però sempre in un piccolissimo numero di famiglie, a
capo delle quali, come già dicemmo, assai probabilmente si trovavano
gli Uberti e i loro consorti. Ora, invece, che l'elezione doveva esser
fatta dal popolo, essa cadeva di necessità sopra un numero piú largo,
sebbene pur sempre limitato, di famiglie. Si mutava quindi piú spesso,
e si andava a turno dall'una all'altra. Questo era l'uso che già
prevaleva negli altri Comuni, ed anche a Firenze nelle associazioni del
popolo e dei Grandi. Dovette quindi inevitabilmente prevalere adesso
nella formazione del nuovo governo.
E neppure è credibile che coloro i quali avevano in passato
primeggiato, cedessero senza alcuna resistenza, non tentassero di
mantenere il loro posto col favore dell'Impero e dei _Teutonici_, né
che coloro cui spettava adesso avere nel governo una parte maggiore di
prima, non cercassero a loro volta di farsi forti del favor popolare,
sostenuto dai piú vitali interessi della Città. Un conflitto fra
queste famiglie di Grandi apparisce inevitabile, e dovette esservi in
Firenze, come v'era stato in Pisa al tempo di Daiberto, come vi fu in
quasi tutti i Comuni italiani. I cronisti in verità non ci parlano qui
di un tumulto propriamente detto; ma quello che dicono basta certo a
dimostrarne l'esistenza. Il Villani (V, 30), gli _Annales_, altri non
pochi ci dicono che nel 1115 seguí in Firenze un incendio, il quale
si ripeté nel 1117, e cosí «ciò che non arse al primo fuoco, arse al
secondo». Questa rovina di tutta la Città è certo un'esagerazione, ma
l'incendio è universalmente affermato.[114] E noi sappiamo che allora,
quando non v'era la polvere da sparo, il fuoco e gl'incendî erano
l'arme piú efficace nei tumulti popolari. Lo stesso Villani aggiunge,
che «tra i cittadini si combatteva... armata mano, in piú parti di
Firenze». È vero che, secondo lui, si combatté _per la fede_, essendosi
nella Città diffuse l'eresia, la lussuria, la sètta degli Epicurei,
e però Iddio la puniva con la pestilenza e con la guerra civile. Ma,
sebbene d'una eresia largamente diffusa allora in Firenze non troviamo
traccia sicura negli storici, è pur certo che sin dal 1068 noi abbiamo
visto i primi albori della libertà fiorentina, mescolati, confusi con
un moto religioso, ed è certo ancora che gli _Annales I_, all'anno
1120, registrano il fatto d'un Petrus Mingardole sottoposto per eresia
alla prova del fuoco,[115] ed aggiungono che dal 1138 al 1173 la Città
incorse, per ben tre volte, nell'interdetto, cose tutte che sono prova
d'una continua agitazione religiosa. Oltre di che Firenze, e sopra
tutto il popolo, si mantenne sempre fedele al partito della Chiesa, che
gli Uberti ed i loro amici, parteggiando invece per l'Impero, dovevano
avversare, e quindi facilmente incorrere allora nella taccia d'eretici.
Anche a tempo del Villani si dava il nome generico di Paterini a tutti
gli eretici non solo, ma anche ai Ghibellini.[116] Oltre di ciò, avendo
egli posto le origini di Firenze, prima ai tempi di Carlo Magno, poi
subito dopo la immaginaria distruzione di Fiesole nel 1010, è naturale
che non volesse vederle una terza volta ora che il Comune nasceva
davvero, e quindi cercasse di esagerare il carattere religioso, che era
assai secondario in quel movimento, e non ne vedesse il politico, che
era certo principalissimo.
In ogni modo siccome par certo che gli Uberti cercarono l'appoggio
dell'Impero, cosí ne segue che dovettero di necessità dimostrarsi
ora nemici della Chiesa. Il chiamarli eretici o paterini non avrebbe
perciò, specialmente nella bocca del Villani, sempre guelfo dichiarato,
nulla d'insolito. Che, al tempo di Matilde, gli Uberti fossero già
potenti, apparisce chiaro dai molti documenti che li ricordano. Che
avessero avuto allora parte principalissima nel governo, ed il tumulto
fosse perciò diretto principalmente contro di loro, trova conferma
esplicita nelle parole di un cronista finora poco studiato, in gran
parte anzi ignoto, il quale, per avere attinto anche a fonti diverse da
quelle del Villani, getta qualche volta nuova luce sugli avvenimenti.
Il pseudo Brunetto Latini, infatti, all'anno 1115, narra, al pari
degli altri cronisti, il primo incendio, che dice cominciato da Santi
Apostoli, e propagatosi fino al vescovado, «ardendo la maggior parte
della Cittade, onde molta gente mori di fuogo». Di eresia non parla,
ma, quello che è piú, venendo al secondo incendio, seguito nel 1177,
aggiunge: «In questo anno s'apprese il fuogo in Firenze, appresso
agli Uberti, che _reggievano_ la Cittade, e quasi tutta l'arse, che
poco ne campò, e molta gente fu morta per fuoco e per ferro».[117]
Qui dunque noi abbiamo chiaramente un vero e proprio tumulto, quasi
una rivoluzione col ferro e col fuoco, diretta contro gli Uberti, che
_reggevano_ la Città.
E del resto c'è poi da maravigliarsi di quest'odio contro gli Uberti,
di questa guerra civile cui essi dettero occasione? La tradizione,
noi lo sappiamo, li diceva venuti di Germania cogli Ottoni; ed abbiam
visto che anche la leggenda del _Libro Fiesolano_, respingendo questa
origine, li faceva nondimeno discendere dal «sangue nobilissimo di
Catilina», il nemico di Firenze. E secondo la storia, non sono essi
gli antenati di quei medesimi Uberti, che piú tardi, nel 1117, troviamo
primi ad assalire il governo dei Consoli, incominciando quelle guerre
civili che per sí lunghi anni lacerarono poi la Città? Non sono essi
gli antenati di quello Schiatta Uberti, che nel 1215, insieme con
altri, pugnalava il Buondelmonti sul Ponte Vecchio, ai piedi della
statua di Marte? Non sono gli antenati del gran Farinata, che diè in
Montaperti la rotta ai Guelfi, e si trovò nell'assemblea di Empoli, là
dove cosí fieri propositi si meditarono contro Firenze, eterno nido
di Guelfi; quel Farinata che Dante pone nella bolgia infernale degli
eretici?[118]

VII
Ma chi vinse intanto nella lotta seguita dopo la morte di Matilde? I
fatti lo provano abbastanza chiaramente. Nell'anno 1119 i Fiorentini
uscirono a dar quell'ultimo assalto al castello di Monte Cascioli, cui
abbiamo sopra accennato. Ed è in questo momento che incontriamo davvero
il già menzionato _Rempoctus_[119] o Rabodo, che il Villani (IV, 29)
con altri cronisti, fa apparire nel 1113, chiamandolo Roberto tedesco,
vicario imperiale, e facendolo quell'anno morire in guerra, a difesa
del castello. Noi abbiam detto che allora non potevano esserci vicarî
imperiali in Toscana, dove furono mandati dopo la morte di Matilde.
Infatti i documenti solo adesso cominciano a parlarne, trovandosi l'11
settembre 1116, per la prima volta, ricordato _Rabodo ex largitione
Imperatoris Marchio Tusciae_;[120] e nel 1119, Rabodo Dei gratia si
quid est,[121] la stessa formola di cui si serviva Matilde ne' suoi
diplomi. Nel 1120 esso scomparisce dalla scena, ed in sua vece troviamo
il margravio Corrado. Possiamo dunque ritenere, che Rabodo veramente
morí alla difesa di Monte Cascioli, nel 1119, per opera dei Fiorentini,
i quali allora finalmente riuscirono a demolire del tutto e bruciare il
castello.[122] E cosí la prima loro impresa, dopo la morte di Matilde,
fu la distruzione d'un castello dei Cadolingi, con la disfatta e
l'uccisione del primo vicario imperiale, mandato allora in Toscana. Ce
n'è piú che d'avanzo, per sapere quale fu l'attitudine che essi presero
di fronte all'Impero ed ai Teutonici.
L'altro fatto piú notevole ancora, che seguí poco dopo, fu la presa e
distruzione di Fiesole nel 1125. Il Sanzanome, che da questa guerra
fa incominciare la storia, come esso dice, moderna di Firenze, ce
ne dà una descrizione assai lunga, retorica, ampollosa. Dalla quale
però caviamo che la vera origine del conflitto fu principalmente il
commercio. I Fiesolani avrebbero malmenato, spogliato d'ogni suo avere
un mercante fiorentino, che, con le proprie mercatanzie, passava
tranquillo per la loro città. E questo fatto, unito alla memoria
degli antichi rancori, di altre recenti depredazioni, avrebbe acceso
gli animi alla guerra. Immantinente _factum est Consilium per tunc
dominantes Consules de processu_. Uno dei primi cittadini arringò
il popolo, incominciando: _Si de nobili Romanorum prosapia originem
duximus.... decet nos patrum adherere vestigiis_. Dopo di che, _illico
a Consulibus exivit edictum_. Un Fiesolano, invece, alludendo alla
origine leggendaria della propria città, cosí cominciava la sua
perorazione: _Viri frates, qui ab Ytalo sumpsistis originem, a quo tota
Ytalia dicitur esse derivata_. Tutta questa retorica erudita, che, in
uno scrittore dei primi del secolo XIII, ci fa sempre piú vedere quanto
pieni di tradizioni romane fossero gli antichi Fiorentini, innanzi
e dopo la formazione del loro Comune, non può nascondere l'origine
vera della guerra, quale ci vien confermata anche dal Villani, che
incomincia adesso ad avere assai maggiore importanza storica. Fiesole,
questi dice, era divenuta un vero nido di Cattani e masnadieri, i quali
infestavano le strade ed il contado fiorentino.[123] Eran sempre quei
signori feudali, che dalle loro rocche volevano impedire il commercio
e l'espansione del Comune.
Ma in questo caso v'erano speciali ragioni, che dovevano rendere
inevitabile e piú sanguinosa la guerra. I comitati o contadi delle
due città s'erano, come avvenne anche altrove, formati sul territorio
delle diocesi, che a lor volta erano stati calcati sulle antiche
divisioni romane. Essendo però, non solo vicini, ma quasi intrecciati,
compenetrati fra loro, e i rispettivi vescovi non avendo mai avuto,
come in Lombardia, l'autorità ed il potere di conti, ne seguí, che
finirono col formare una sola giudiciaria. I documenti infatti parlano
spessissimo del contado o giudiciaria di Fiesole e di Firenze, come se
fosse una sola medesima cosa. Era quindi naturale che, alla morte di
Matilde, Firenze, col divenire un Comune indipendente, volesse dominare
sui due contadi, come era naturale che Fiesole a ciò si opponesse
vivamente, e però, sebbene assai piú piccola, valendosi della sua
forte e fortificata posizione, s'alleasse coi nobili di contado, li
accogliesse nella sua rocca, e di là dessero insieme noia continua ai
mercanti fiorentini, e depredassero le campagne. Cosí incominciò la
guerra. I particolari di essa ci restano ignoti, perché il Sanzanome
li esagera in modo da renderli incredibili, e gli altri ne tacciono
affatto.[124] Non dovette però essere breve, né facile, a cagione della
forte posizione di Fiesole, e fini certo con stragi crudeli, con la
quasi distruzione di quella città. Né ce lo dicono solo i cronisti.
L'abate Atto di Vallombrosa, poco dopo, invocava da papa Onorio II
perdono _pro Florentinorum excessibus_, adducendo, a loro scusa, che
fra di essi v'erano pure vecchi, donne e bambini, che certo non avevano
potuto prender parte alla _fesulana destruccio_, e che molti di quelli
che erano andati al campo, dichiaravano ora di volersi correggere,
perché sinceramente pentiti di tutti gli eccessi, che _non meditata
nequitia commisere_.[125] La memoria del fatto, sopravvissuta poi
lungamente in Firenze, s'incontra spesso nei documenti,[126] ed è certo
che con esso e con la disfatta del vicario imperiale a Monte Cascioli,
la indipendenza del Comune fu assicurata stabilmente.

VIII
Nessuno può dubitare che Firenze avesse ora un proprio governo coi suoi
Consoli, sebbene nei documenti che abbiamo, si trovino menzionati la
prima volta solo nel 1138. Il Sanzanome però ce ne parla esplicitamente
nella impresa contro Fiesole, quando, come vedemmo, fa da essi
deliberare la guerra. Ma quale è l'origine vera e la natura di questo
nuovo magistrato? Fu da molti sostenuta l'opinione, che i Consoli
derivassero generalmente dagli antichi giudici. In Lombardia sarebbero
stati non altro che una trasformazione degli Scabini franchi, e sarebbe
quindi assai naturale che fossero in Firenze una trasformazione dei
giudici del tribunale margraviale, ai quali Matilde aveva, già assai
prima di morire, abbandonato l'ufficio di pronunziare le sentenze. Ma
questa è un'idea, che ormai non può piú sostenersi, perché contiene
una parte sola del vero. Quando, infatti, noi vediamo i Consoli
nell'esercizio delle loro funzioni, che cosa essi sono, che cosa essi
fanno, secondo i cronisti e secondo i documenti? Conducono le guerre:
conchiudon trattati in nome di tutto il popolo, che rappresentano;
governano la Città; amministrano la giustizia. E quest'ultimo è a
Firenze come altrove, _uno_ dei loro ufficî, il quale essi adempiono,
perché strettamente connesso coll'esercizio del potere politico, che è
la vera e principalissima loro funzione. D'altronde che cosa è che fa
veramente nascere il Comune fiorentino? La mancanza appunto di quella
superiore autorità politica che sino allora aveva comandato in Toscana,
il bisogno di condurre le guerre contro gli antichi e nuovi nemici.
Il carattere politico ed il carattere militare dovevano adunque di
necessità prevalere.
Ed in questo concetto dobbiamo confermarci ancora, se esaminiamo come
era costituito il tribunale dei Consoli. Dapprima sembra che tutti o
parte di essi indistintamente lo presiedessero; piú tardi tre di essi,
scelti a turno, e chiamati _Consules super facto iustitiae_, o anche
_Consules de iustitia_, presiedono per un mese; piú tardi ancora sono
due che presiedono per due mesi, e finalmente, quando però il governo
primitivo ha mutato natura, ve n'è uno solo che presiede per tutto
l'anno.[127] Potevano essere o non essere uomini periti in legge,
giacché non facevano che pronunziare, confermare la sentenza, ma non
l'apparecchiavano, né la formulavano. A quest'ufficio attendeva un
vero e proprio _iudex ordinarius pro Comune_, con tre Provveditori o
_Provisores_, che studiavano il processo e scrivevano la sentenza. I
Consoli non facevano che presiedere il tribunale, e quando mancavano,
il che pur seguiva qualche volta, esso funzionava da sé. Il posto
adunque che vi pigliavano era in sostanza quello di Matilde, di chi
cioè rappresentava la sovranità, non quello de' suoi giudici.[128]
L'indole vera del nuovo governo noi la possiamo intendere meglio,
esaminando piuttosto quali erano i diversi elementi che costituivano
la cittadinanza, dai quali esso necessariamente si svolse. Due, come
sappiamo, erano le classi principali e gl'interessi che si dividevano
la Città: le associazioni cioè delle Arti e quelle dei Grandi o delle
Torri. La forza del numero stava di gran lunga dalla parte del popolo;
ma i Grandi avevano assai piú la cultura, l'educazione alle armi ed
alla politica, l'arte di governo già da essi in parte esercitata.
Quindi è che da essi vennero i Consoli, i quali, in sul principio,
s'aggirarono in un numero assai ristretto di famiglie, tanto da
sembrare poco meno che ereditarî. La sventura di Firenze, come del
resto anche degli altri Comuni, esclusa Venezia, fu che i Grandi non
poterono mai andare d'accordo fra loro. La nobiltà feudale fu in Italia
come una pianta esotica, portata sopra un terreno ingrato. Di origine
germanica, essa formava altrove parte di tutto un sistema politico;
era capitanata dall'Imperatore intorno a cui si stringeva; ebbe delle
virtú qualche volta eroiche; dette origine ad una particolare forma di
civiltà, ad una letteratura che fiorí nella Francia e nella Germania,
non mai in Italia, molto meno poi in Toscana. I nostri signori feudali
dominati solo da interessi personali, s'appoggiavano all'Impero,
per combattere il Papa; al Papa, per combattere l'Impero; all'uno o
all'altro indistintamente, per combattere le città. E questo seguiva
di continuo anche nel contado fiorentino. I Grandi che risiedevano
dentro le mura della Città, erano, è vero, d'indole assai diversa,
molto piú vicini al popolo, con cui si accomunavano; ma erano composti
di elementi assai discordi, perché alcuni di loro erano venuti su dal
popolo; altri discesi dai castelli feudali, con cui avevano aderenze,
da cui speravano aiuti. L'ambizione del potere ben presto li divise, e
la facilità con cui gli uni trovavano favore negli artigiani, quando
gli altri lo cercavano e lo avevano nel contado, fecero da questi
semi rapidamente germogliare le civili discordie. Piú tardi poi, con
l'aumentarsi di coloro che dai castelli venivano in Città, si formò
tra di essi un vero partito aristocratico, ghibellino, contro il
partito guelfo e popolare. Ma siamo ancora assai lontani da ciò, perché
l'interesse generale di far guerra ai signori del contado, prevalse
lungamente su tutto e su tutti, da essa dipendendo l'esistenza stessa
del Comune.
Da quanto abbiam detto fin qui risulta sempre piú chiaro, che due
ordini ben distinti di cittadini già esistevano in Firenze: il popolo o
le Arti, ed i Grandi. Se il nuovo governo fosse sorto solo dalle Arti,
avrebbe preso la forma d'un ordinamento secondo i mestieri. Se fosse
sorto invece solo dai Grandi, avrebbe dato origine ad un ordinamento
regionale, locale, secondo i Sestieri della Città, nei quali essi
erano sparsi. Questa diversa tendenza noi la troviamo in tutti i Comuni
italiani. A Roma prevalse l'ordinamento per Regioni o Rioni; a Firenze
invece prevalse col tempo quello per Arti, a cagione della grandissima
prosperità che ebbero in essa il commercio e l'industria. Ma intanto
il predominio morale dei Grandi, le necessità urgenti della guerra,
per la quale l'esercito poteva assai piú facilmente raccogliersi ed
ordinarsi a Sestieri, favorirono un ordinamento locale, ed i Consoli
furono quindi eletti per Sestieri.[129]
Che i Grandi fossero allora già costituiti in Società delle Torri,
può ritenersi provato dai documenti. Uno del 1165 parla di esse come
già esistenti da un pezzo,[130] e poco dopo troviamo nelle pergamene
dell'Archivio fiorentino addirittura brani dei loro Statuti.[131] La
torre era proprietà comune dei socî o consorti, i quali non potevano
lasciare la loro parte a chi non fosse della Società, o non venisse
ammesso col voto di tutti i componenti meno uno. Le donne erano
naturalmente escluse. Le spese per mantenere, armare la torre, che
era in comunicazione con le case vicine dei consorti, e serviva a loro
comune difesa, erano a carico di tutti. Tre o piú Rettori, che qualche
volta sono chiamati anche Consoli, governavano la Società, erano
arbitri delle liti, e sceglievano i loro successori. Questi Rettori e
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