I primi due secoli della storia di Firenze, v. 1 - 01

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I PRIMI DUE SECOLI
DELLA
STORIA DI FIRENZE

RICERCHE
DI
PASQUALE VILLARI
Vol. Primo
(Seconda Edizione)

IN FIRENZE
G. C. SANSONI, EDITORE
1898


PROPRIETÀ LETTERARIA
Firenze — Tip. G. Carnesecchi e Figli.


_Al Dott. OTTONE HARTWIG_

_Amico carissimo,_
_Voi foste, ai nostri giorni, il primo che sulle piú antiche origini
di Firenze e del suo Comune, iniziò ricerche scientifiche, fondate sui
documenti._
_Io ebbi la fortuna di conoscervi quando veniste fra noi, per condurre
a termine queste ricerche. D'allora in poi, durante molti anni, potei
fare lunga esperienza della vostra fida, costante, inalterabile
amicizia, che ripongo tra i maggiori benefizî concessimi dalla
fortuna._
_Permettete che, in segno di alta stima e di animo sinceramente grato,
io dedichi a voi questi miei studî sulla Storia di Firenze._
_Vostro affez. amico_
P. VILLARI.
_Firenze, aprile, 1893._


PREFAZIONE

È necessario che io dica al lettore quando e come questo libro fu
scritto.
L'anno 1866 cominciai nel nostro Istituto Superiore alcune lezioni
sulla Storia di Firenze. In esse mi proponevo di esaminare piú
specialmente quale era stata la costituzione politica della Repubblica,
quali le sue varie forme, in conseguenza delle rivoluzioni interne,
che cosí lungamente travagliarono la Città. In tal modo io speravo di
riuscire a scoprir le cause vere di queste rivoluzioni; di trovare una
specie di filo conduttore nel laberinto d'una storia, che, non ostante
i grandi scrittori che l'avevano trattata, a molti appariva assai
spesso intricata ed oscura; di determinare i periodi, in cui dovrebbe
essere logicamente divisa. La soluzione anche d'una parte sola di
questi problemi, avrebbe certamente avuto la sua utilità.
Continuai qualche tempo queste lezioni, arrivando sino agli
_Ordinamenti di Giustizia_ di Giano della Bella (1293), dove mi fermai.
Una parte ne pubblicai nel _Politecnico_ di Milano, un'altra nella
_Nuova Antologia_ di Firenze. Mi proponevo allora di raccoglierle,
rivederle e ristamparle; ma dopo avere esitato alquanto, non posi in
atto il mio pensiero. Mi sembrava necessario aggiungere almeno qualche
cosa sui fatti che seguirono dopo la caduta di Giano della Bella e
l'esilio di Dante, per conchiudere cosí tutto il primo e piú importante
periodo della Storia politica di Firenze. Ma oltre di ciò, io vedevo
che l'obbligo di continuare, a giorno fisso, le lezioni una volta
cominciate, non mi aveva sempre lasciato il tempo necessario a superare
le difficoltà incontrate per via. Non bastava perciò una revisione
superficiale; occorreva riempire qualche lacuna, riscrivere da capo
alcune pagine. E questo portava la necessità di nuove ricerche, dalle
quali altri lavori allora mi distrassero.
Intanto uscivano continuamente alla luce nuovi documenti, nuove
dissertazioni e monografie sulla Storia di Firenze, anche opere
notevolissime e di gran mole, come quelle del Capponi, del Del Lungo,
dell'Hartwig, del Perrens, di altri. Tutto ciò rendeva sempre piú
difficile il rivedere e correggere quei miei scritti, che divenivano
necessariamente sempre piú antiquati. Ma da un altro lato dovetti piú
d'una volta accorgermi, che alcune delle osservazioni da me fatte erano
dai nuovi documenti confermate, che alcune delle idee generali da me
esposte venivano da autorevoli scrittori accolte e seguite. Questo
m'induceva naturalmente ad essere meno severo nel giudicare l'opera
mia, che anche amici nei quali fidavo, mi spingevano a ripubblicare.
Cosí fu che m'indussi a riprendere gli studi tralasciati, e nel 1888
feci alcune lezioni sui tempi d'Arrigo VII e dell'esilio di Dante. Piú
tardi ancora, nel 1890, convinto che, dopo le recenti pubblicazioni,
quello che avevo scritto sulle origini della Città e del Comune,
riusciva affatto insufficiente, tornai da capo sull'argomento in
una nuova serie di lezioni, che, come le precedenti, pubblicai nella
_Nuova Antologia_. Finalmente cominciai a radunare le foglie sparse, a
rivedere ed a correggere.
Da quanto ho detto risulta assai chiaro, che io qui ho dovuto riunire
lavori diversi, i quali, sebbene continuino tutti, con uno stesso
concetto generale, a trattare il medesimo argomento, furon pure scritti
a grandissima distanza di tempo gli uni dagli altri, in un periodo di
25 anni, periodo in cui gli studî sulla Storia di Firenze facevano, per
opera di molti e valenti scrittori, rapido cammino. E però, quantunque
mi sia adoperato, come meglio ho saputo e potuto, a modificarli e
coordinarli, essi restano tuttavia vecchi lavori, piú o meno staccati;
né mi fu possibile evitare molte ripetizioni. Per raggiungere una
maggiore unità organica, avrei dovuto riscrivere tutto da capo, fare
un libro nuovo, non, come volevo, una semplice ristampa di scritti
diversi, ai quali appunto perciò ho dato il titolo di Ricerche.
A ristamparli mi sono finalmente indotto, perché mi pare che il
concetto dominante e fondamentale di essi rimanga vero, anche dopo
le molte pubblicazioni fatte da altri. Anzi, se io non m'inganno,
le osservazioni che feci, le idee che sin dal principio esposi sul
carattere generale e sullo svolgimento progressivo della Storia
fiorentina ne vengono spesso confermate. Il lettore deciderà se mi
sono illuso. Io spero tuttavia che, nel dare il suo giudizio su questo
libro, vorrà tener conto del tempo e del modo in cui esso s'andò
formando.


INTRODUZIONE[1]

I
La storia delle libertà italiane, dal Medio Evo fino alle nuove
invasioni straniere, che incominciarono con Carlo VIII nel 1494, si
riduce principalmente alla storia dei nostri Comuni. Questa storia non
è anche scritta, e quel che è peggio non potrà scriversi fino a che
non saran messi in luce, ordinati, illustrati i materiali su cui lo
storico deve lavorare. Quali erano i piú antichi Statuti politici, e
quelli delle associazioni d'Arti e mestieri, quali le leggi penali e
civili, lo stato delle persone, le entrate e le uscite, il commercio,
l'industria di quelle repubbliche, sono tutte domande alle quali noi
possiamo assai imperfettamente rispondere, e qualche volta non possiamo
rispondere punto. E senza rispondervi, la storia civile dei nostri
Comuni rimane oscura.
L'Italia, col Machiavelli e col Giannone, dette al mondo i primi esempi
della storia civile, e coi lavori giganteschi del Muratori iniziò
quella grande scuola di erudizione storica, che è l'unica base sicura
della storia moderna, massime della storia civile. Ma noi ci lasciammo
ben presto strappar di mano lo scettro, che avevamo conquistato. Non
ci sono, è vero, mancati mai grandi eruditi e scrittori di storie; ma
a compiere la storia nazionale d'un popolo, non basta il lavoro d'uno
o di pochi; essa deve, in qualche modo, essere l'opera della nazione
stessa. Solo il lavoro coordinato di piú dotti e di piú generazioni può
riuscire a mettere insieme e studiare l'infinita massa di materiali,
che è necessaria a ritrovare nella storia di tanti municipii, che
sono cosí diversi ed in continua guerra fra loro, la storia del popolo
italiano. Fra noi da lungo tempo si lavora ognuno per conto proprio;
mancano quell'accordo e quella corrispondenza tanto necessari a fare,
col lavoro degl'individui, progredire di pari passo quello di tutta la
nazione.
Io certo non dimenticherò qui di citare l'esempio delle Deputazioni
e Società di storia patria, sussidiate dal Governo, delle quali
fanno parte uomini benemeriti e dottissimi. Ma esse ancora non
lavorano secondo un disegno generale e comune; anzi nel seno delle
stesse Deputazioni si vedono qualche volta i vari membri attendere
a lavori importanti, se si vuole, ma che pure non hanno fra loro
alcuna relazione. Cosí si dovrà aspettare un gran tempo, prima che
qualche periodo della nostra storia venga da tanti dotti compiutamente
illustrato. Eppure noi non avremmo bisogno d'andar fuori di casa a
cercar le norme da seguire, perché queste norme noi fummo i primi a
trovarle, né le abbiamo dimenticate. Né solamente le Deputazioni e
Società pubblicarono raccolte importantissime di documenti. Chi non
ricorda le fatiche indefesse del benemerito Vieusseux e de' suoi amici,
nel dirigere l'_Archivio Storico Italiano_? A mostrare quanto possa
giovare la pubblicazione d'una sola serie di documenti, basterebbe
citare le _Relazioni_ degli ambasciatori veneti, date alla luce per
opera dell'Albèri, con tanto profitto della storia non solamente
d'Italia, ma d'Europa. Che progresso non si farebbe, se il lavoro di
tutti gli eruditi italiani si potesse, per consenso unanime, coordinare
ad uno scopo comune? Si guardi che cosa ha potuto fare a Berlino il
Pertz, sussidiato dalla Confederazione, e aiutato da tutti i dotti
tedeschi. I suoi _Monumenta_ sono davvero un monumento immortale alla
storia nazionale della patria tedesca, intorno al quale s'è potuto
fondare una nuova scuola di eruditi e di storici.
Ora che l'Italia s'è unita, e di tanti Stati ha fatto uno Stato solo,
è necessario che essa sappia nella storia de' suoi Comuni ritrovare
la storia del suo popolo. Oltre di che bisogna considerare, che il
Comune è la istituzione con la quale dal Medio Evo esce la società
moderna. Sorto in mezzo ad una moltitudine di schiavi, di vassalli, di
baroni, di duchi e marchesi, seppe creare quel _terzo stato_ e quel
popolo, che distrusse il feudalismo in Italia, e con la rivoluzione
francese, lo distrusse poi in tutta Europa. Cosí si formò, osserva
anche Agostino Thierry, quella immensa riunione di uomini liberi,
che nel 1789 intraprese, per la Francia intera, ciò che avevano
compiuto nei municipi i suoi antenati del Medio Evo.[2] Ora, siccome
l'Italia appunto è stata il centro e la sede delle libertà comunali,
cosí si tratta, con questi studi, non solo di conoscere la nostra
storia civile, ma di porre in evidenza la parte che noi avemmo nel
ritrovare i principii della società e della civiltà moderna. Chi
studia attentamente la storia del diritto romano nel Medio Evo, può
osservare che i nostri glossatori, mentre che facevano rinascere la
vecchia giurisprudenza, inconsapevolmente la modificavano, adattandola
ai nuovi tempi. E Francesco Forti affermava, che chi studia i nostri
Statuti s'accorge che molte di quelle norme, le quali si trovano nel
Codice Napoleone, e che si credono opera della rivoluzione francese,
erano già nelle antiche legislazioni italiane. Io credo che la
nostra storia dovrà in ogni parte della vita civile degl'Italiani,
confermare osservazioni simili, perché in essa sono le prime origini
delle libertà moderne. Ma questo lavoro aspetta ancora chi sarà capace
d'intraprenderlo, e non basterà, come dissi, un uomo solo. Noi vogliamo
occuparci ora d'un soggetto assai piú modesto. Il nostro scopo è di
far vedere, con un rapido sguardo alla storia d'un Comune solo, quante
nuove ricerche ancora ci restano a fare, e quante quistioni restano
ancora insolute.
Le vicende della repubblica fiorentina trovano qualche riscontro
solamente nei tempi piú floridi della libertà ateniese. Invano
cercheremmo in tutta la storia moderna un'altra città piena, ad un
tempo, di tanto tumulto e di tanta ricchezza, dove, versandosi tanto
sangue civile, potessero le arti, le lettere, il commercio, l'industria
fiorire del pari. Lo storico quasi non crede a sé stesso, quando egli
deve descrivere un pugno di uomini che, raccolti sopra un palmo di
terra, stendono i loro traffici in Oriente ed in Occidente; aprono
le loro banche in tutta Europa; accumulano tesori cosí vasti, che le
private fortune bastano qualche volta a sostenere sovrani vacillanti
sui loro troni. Egli deve dire ancora, che questi ricchi mercanti
fondarono con Dante la poesia moderna, e con Giotto la pittura; con
Arnolfo, con Brunellesco, con Michelangiolo, che fu poeta, pittore,
scultore e architetto ad un tempo, innalzarono quelle stupende moli
che il mondo continuerà sempre ad ammirare. I primi e piú accorti
diplomatici d'Europa erano fiorentini, la scienza politica e la storia
civile nacquero in Firenze col Machiavelli. In sul finire del Medio
Evo quell'augusto municipio somiglia ad un piccolo punto di luce che
illumina il mondo.
Parrebbe che a conoscere la storia di questo Comune, le difficoltà
dovessero essere già tutte superate, perché di esso i piú grandi
scrittori italiani, i piú grandi storici moderni si occuparono da
lungo tempo e lungamente. Quale altra città può, infatti, vantare
i suoi annali descritti da uomini come il Villani, il Compagni, il
Machiavelli, il Guicciardini, il Nardi, il Varchi? Ed alle storie o
cronache bisogna aggiungere una serie infinita di Diari, Prioristi,
Ricordi, senza parlare per ora dei moderni scrittori. Era tra i
Fiorentini comunissimo l'uso di registrare, di giorno in giorno, i
fatti che seguivano; e cosí si andò sempre piú aumentando la loro ricca
e splendida letteratura storica. Eppure, con tutto ciò, non v'è storia
che presenti tante difficoltà, e che sia come questa, piena di tante,
che sono o paiono insolubili contraddizioni. Gli avvenimenti passano
dinanzi ai nostri occhi, descritti, dipinti con splendidi colori; si
succedono con rapida e non mai interrotta vicenda; ma sembra che, senza
tregua e senza legge, obbediscano solo al caso. Odii personali, gelosie
e private vendette sono cagione di rivoluzioni politiche, le quali
contaminano la Città di sangue civile; durano dei mesi e qualche volta
degli anni, per finire in leggi arbitrarie, che si tenta di violare o
disfare appena che sono sanzionate dai magistrati. E cosí spesso vien
fatto di chiedere: questa è dunque l'opera degli accorti diplomatici,
dei grandi politici? O sono bugiarde le lodi di senno e di accortezza
politica, prodigate ad uomini che non seppero mai dar sicure leggi e
ferme istituzioni alla patria, e nelle piú gravi faccende di Stato si
lasciarono dominar solo dagli odii e dalle passioni personali; o sono
bugiarde le lodi che da secoli noi diamo a questi storici, i quali coi
piú splendidi colori ci descrivono fatti impossibili. È egli possibile,
in vero, che da tanto senno nasca tanto disordine? E come poi, in
mezzo a tanto disordine, su questa nave della Repubblica, abbandonata
all'arbitrio di ogni vento, poterono tanto splendidamente fiorire le
arti, le lettere e le scienze?
Certo la storia, quale la vogliamo oggi, era ignota agli antichi. Noi
cerchiamo le cagioni di fatti, che gli antichi descrivevano solamente.
Noi vogliamo conoscere le leggi, i costumi, le idee, i pregiudizi degli
uomini, e gli antichi s'occupavano esclusivamente delle azioni e delle
passioni umane. La scienza politica del secolo XV era principalmente
uno studio dell'uomo, e la nostra è principalmente uno studio delle
istituzioni. La storia moderna cerca di essere uno studio dell'uomo
e della società, in tutte le sue forme, sotto tutti gli aspetti. Per
queste ragioni ci è stato necessario rifar tante volte il lavoro, che
pure cosí splendidamente avevano fatto gli antichi.
Lasciando da parte quei raccoglitori di favole e leggende sulle origini
di Firenze, le quali si ripetono anche negli scritti posteriori,
noi possiamo dividere gli storici fiorentini in due grandi scuole.
Primi sono gli autori di Cronache o Diari, i quali fiorirono, piú che
altro, nel Trecento, sebbene continuassero per lungo tempo di poi. Lo
scrittore registra, giorno per giorno, i fatti di cui fu spettatore,
e spesso anche attore; animato dalle medesime passioni che descrive,
egli diviene non di rado eloquente, e la sua eloquenza passionata
gl'impedisce di fermarsi a fare considerazioni astratte. Egli suppone
sempre nei suoi lettori la piena conoscenza di quelle istituzioni
politiche, nelle quali era nato e vissuto, che a noi sono ignote, e che
piú di tutto vorremmo conoscere. Nondimeno il cronista del Trecento,
come spesso avviene a Giovanni Villani, osservatore impareggiabile, si
ferma a descrivere cosí minutamente i fatti, raccoglie tante notizie,
che, senza quasi avvedercene, noi ci troviamo trasportati in mezzo
alla società dei suoi tempi. E nello scendere a questi particolari,
egli qualche volta si scusa col lettore d'averlo fermato su cose di sí
piccolo momento, tanto era lontano dal supporre quanto preziose piú
tardi sarebbero state per noi appunto quelle notizie sul commercio,
sulla pubblica istruzione, sulle entrate e sulle uscite della
Repubblica, e quante altre dovevamo desiderarne invano. Appena però che
questi scrittori s'allontanano dai loro tempi e dai fatti che hanno
veduti, essi o debbono copiare letteralmente da altri cronisti, o la
loro narrazione perde ogni pregio ed ogni autorità, ogni calore ed ogni
colore. Noi passiamo, a un tratto, dalla piú vera e vivace descrizione
alle favole piú strane, al piú grande disordine, perché essi, anche
nel copiare letteralmente dagli altri, lo fanno senza il piú piccolo
discernimento. Ne sono un esempio i loro puerili racconti sulle origini
di Firenze. La critica storica allora non era neppure in culla.
Colla erudizione del secolo XV incominciò la lettura e l'imitazione di
Sallustio, di Livio, e gli scrittori italiani non si contentarono piú
di registrare i fatti alla giornata, senza nesso, senza ordine. Molti
scrissero in latino, altri in italiano; ma tutti volevano _comporre_
una narrazione storica piú artistica o piú artificiale. Facevano esordi
e considerazioni generali, descrivevano a lungo e con molto aiuto della
fantasia guerre che non avevano visto, e di cui poco o punto sapevano;
ponevano in bocca ai loro personaggi discorsi immaginari, qualche
volta perfino scrivevano in forma di dialogo la loro narrazione,[3] pur
di allontanarsi dai loro padri del Trecento. Fu un tempo di esercizi
retorici e d'imitazione servile dei classici, nel quale la storia e
la letteratura italiana decaddero, apparecchiandosi però a risorgere
nel secolo seguente. Ed infatti nel Cinquecento noi troviamo un'arte
storica assai progredita. Il Machiavelli, che se ne potrebbe dire il
piú illustre fondatore, comincia appunto col fare un rimprovero agli
storici precedenti, perché «delle civili discordie e delle intrinseche
inimicizie e degli effetti che da quelle sono nati, avevano una parte
al tutto taciuta, e quell'altra in modo brievemente descritta, che
ai leggenti non puote arecare utile o piacere alcuno». Queste parole
ci danno indirettamente il ritratto fedele del suo libro, col quale
ha lasciato un monumento immortale alla propria fama. Egli cerca le
cagioni dei fatti, l'origine dei partiti e delle rivoluzioni seguite
nella Repubblica: cosí un nuovo metodo è trovato, una nuova via è
aperta. Egli abbraccia in una mirabile unità tutta la storia della
Repubblica; lascia da un lato, con profondo disprezzo, tutte quelle
favole che i cronisti avevano accumulate sulla fondazione di Firenze,
e getta uno sguardo di aquila sul gioco dei partiti, dalla loro origine
fino ai suoi tempi. Fu il primo a intraprendere questa ricerca, e dopo
di lui, dopo tante nuove indagini, il suo concetto fondamentale rimane
fermo.
Ma delle istituzioni il Machiavelli s'occupò assai poco, delle
leggi, dei costumi, quasi punto. E quello che è piú, egli era cosí
fattamente in balìa del suo genio divinatore, che curò assai poco
anche la esattezza storica dei fatti particolari. A persuadersi del
numero infinito d'inesattezze e di errori, che per noi sarebbero
imperdonabili, e che pure si trovano nel suo libro, bisogna paragonare
la sua narrazione con le narrazioni contemporanee degli antichi
cronisti, alcuni dei quali egli conosceva. Non solo le date sono
spesso sbagliate, ma ancora il nome, il numero dei magistrati, la
forma delle istituzioni. Sembra che nel tempo medesimo in cui divinava
lo spirito dei fatti, raffazzonasse a suo capriccio i fatti stessi.
Qualche volta egli prende pagine e pagine intere dalle storie del
Cavalcanti, copiando perfino i discorsi immaginari che questi poneva
in bocca dei personaggi storici, e con pochi tocchi infonde vita nuova
nella pesante narrazione che gli sta dinanzi, senza punto occuparsi
di far nuove ricerche. Cosí il suo libro divenne una guida preziosa
e pericolosa nello stesso tempo. Egli qualche volta non si asteneva
dal porre un fatto vero là dove meglio tornava al suo ragionamento,
riempiendo cosí, senza troppo scrupolo, le lacune che trovava. Suo
scopo, come egli stesso ci dice, era d'indagar le cagioni dei partiti
e delle rivoluzioni. Quello che alcuni chiamano oggi il colorito
locale, il colorito storico dei fatti, scomparisce del tutto nella
sua narrazione, massime dei primi avvenimenti della Repubblica. Gli
uomini appartengono a diversi partiti, commettono azioni ora tristi
ora generose, ma in tutti i tempi sono per lui sempre i medesimi. E
quanto ciò debba nuocere ad una chiara conoscenza dei fatti è facile
immaginarlo. A misura poi che il Machiavelli s'avvicina ai suoi tempi,
vede la costituzione della Repubblica alterarsi e corrompersi, la
libertà allontanarsi, e mille passioni personali sorgere ad affrettare
la rovina delle istituzioni che decadono. La conoscenza dei piú minuti
particolari sarebbe allora tanto piú necessaria a farci intendere
la trasformazione della società; ma egli, che pure restò sempre un
Fiorentino del secolo XV, aveva dinanzi a sé l'esempio di Tito Livio
e degli altri scrittori romani, i quali, a lui come a tutti gli
eruditi di quel secolo, ispiravano un grande disprezzo dei troppo
minuti particolari, che fanno perdere l'epica unità della storica
narrazione. E quando piú tardi s'avvicina la prevalenza inevitabile
dei Medici, sotto i quali anch'egli visse, rivolge allora, con mal
celato disgusto, il suo occhio dai fatti interni della Repubblica,
per occuparsi solo dei fatti esterni. Ci parla allora di guerre e di
quella politica italiana, che fu la passione di tutta la sua vita. In
mezzo agl'intrighi delle Corti, alla prevalenza contrastata degli uni
o degli altri, noi ci accorgiamo che esso va cercando il modo con cui
un principe nuovo avrebbe potuto riunire le sparse membra della patria
italiana, lacerata, calpestata, e questo nobile pensiero gli fa spesso
dimenticar la storia di Firenze.
Quando noi leggiamo le antiche cronache contemporanee, vediamo
sorgere dinanzi a noi vive e parlanti le immagini di Giano della
Bella, Farinata degli Uberti, Corso Donati, Michele di Lando. Le loro
passioni, i loro amori e i loro odii ci sono noti, quasi familiari;
ma noi siamo in mezzo al tumulto irrequieto e irrefrenabile delle
passioni, senza sapere donde spiri il vento che agita e confonde
in un solo turbine uomini e cose, senza dar mai tregua. Appena che
usciamo dal raggio visuale dello scrittore, le immagini si confondono,
e la nostra vista insieme colla sua si oscura. Anche nei momenti
della piú eloquente descrizione, udiamo il nome d'istituzioni e di
magistrati, che non possiamo comprendere, e che vediamo ora alterarsi,
ora scomparire, ora riapparire di nuovo, senza saperne il perché. Ma
dall'altro lato, quando, invece, per lo studio e l'imitazione degli
antichi scrittori, l'arte di abbracciare una piú vasta cerchia di fatti
incomincia, e si cercano le cagioni e le relazioni di questi fatti, per
raccoglierli in una visibile unità, manca ancora quella critica storica
che accerta i fatti stessi, ricerca, definisce le istituzioni e le
leggi, colorisce e quasi ridesta il passato nella sua varia, mutabile
fisonomia. Lo storico manda col suo genio come dei lampi di luce,
che, di tratto in tratto, illuminano le età trascorse; ma esse restano
pur sempre incerte e confuse nella nostra mente. Noi abbiamo bisogno
di conoscere gli uomini, le istituzioni, i partiti e le leggi quali
veramente furono; né ciò basta, perché bisogna comprendere ancora come
tutto ciò si costituí in una sola unità, e da quegli uomini, da quei
tempi nacquero quelle istituzioni e quelle leggi.
Questo è ciò che gli scrittori moderni avrebbero dovuto fare, ma che
non hanno fatto per molte ragioni. E prima di tutto, il fiorire delle
lettere e delle arti nei tempi in cui la libertà s'allontanava da
Firenze, e la loro grande efficacia su tutta quanta la cultura moderna,
richiamarono l'attenzione degli scrittori principalmente su questa
parte della storia fiorentina, che aveva una importanza assai generale,
ed era piú intelligibile a tutti. Cosí fu che la piú parte dei moderni,
massime gli stranieri, non studiarono, non conobbero quei tempi nei
quali s'erano pure formate tutte le qualità piú nobili del carattere
fiorentino, e s'erano svolte, educate quelle forze intellettuali,
che piú tardi divennero visibili nelle lettere e nelle arti, tanto
universalmente ammirate. E molti stranieri sembrarono persuadersi non
solamente che le arti e le lettere italiane fossero fiorite quando
i costumi erano piú corrotti, ma quasi risultassero da essi, fossero
immedesimate con quella corruzione, la quale invece corruppe le arti
stesse, che furono figlie della libertà e della moralità, e poterono ad
esse solo per qualche tempo sopravvivere.
Vi è inoltre da osservare, che finora non s'è visto nessun libro di
grande scrittore moderno, il quale tratti di proposito la storia
politica e costituzionale di Firenze.[4] Qualche cosa, bisogna
riconoscerlo, anche piú dei moderni fecero i due Ammirato, i quali nel
secolo XVII avevano già cominciato a ricercare gli archivi, e composero
un lavoro, per quei tempi, veramente nuovo e notevole. Se non che,
né essi s'erano proposto di scrivere una storia della costituzione
fiorentina, né la loro critica storica era sufficiente a raggiungere un
tale scopo, quando pure se lo fossero proposto. Accanto a notizie nuove
e preziose sui fatti ed anche sulle istituzioni, ci danno spesso una
congerie di particolari inutili, che fanno smarrire l'unità generale
della narrazione.
È inutile poi aggiungere che gli scrittori moderni, i quali parlarono
di Firenze solo nelle storie generali di tutta Italia, dovettero,
di necessità, trattare fuggevolmente ciò che era secondario nei loro
lavori. Spesso s'affidarono troppo ciecamente all'autorità ed al gran
nome degli antichi, senza neppur distinguere abbastanza nelle opere di
essi, quelle parti il cui valore è certo incontrastabile, da quelle
in cui copiano narrazioni lette altrove, o ripetono solo tradizioni
favolose. Basta paragonare il Villani col Malespini, per vedere come
uno dei due ha certamente copiato dall'altro molti e molti capitoli.[5]
E non è il solo esempio. Il Machiavelli, come dicemmo, copiò capitoli
interi dal Cavalcanti;[6] il Guicciardini tradusse piú volte Galeazzo
Capra, piú noto col nome di Capella;[7] il Nardi riprodusse di sana
pianta il Buonaccorsi. Senza dunque una critica degli scrittori ed un
giusto giudizio del valore relativo che hanno, della fede che meritano
le varie parti delle loro opere, nulla è piú facile che lasciarsi
trarre in inganno. Per questa e per non poche altre ragioni, molte sono
le sorgenti d'errori nei moderni storici dell'Italia, quando parlano
delle cose fiorentine. Noi li vediamo, di tratto in tratto, fermarsi,
dietro la scorta dei piú reputati cronisti, a definirci che cosa
era il Capitano del popolo o il Podestà o il Consiglio del Comune, e
poi durare una gran fatica, per mettere d'accordo queste definizioni
colla realtà dei fatti, ogni volta che quei nomi ricompariscono nella
storia. In tutto ciò v'è quasi sempre una doppia sorgente di errori.
Le definizioni che gli antichi ci dànno dei magistrati, sono appena
accennate, quando essi parlano dei loro tempi, e sono spesso inesatte
quando se ne allontanano. I moderni poi cercano generalmente una
definizione precisa e determinata di istituzioni, che incominciarono
a mutare il giorno stesso in cui nacquero, e che d'immutabile non
ebbero altro che il nome. Questo nome non solo resta inalterato quando
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