I primi due secoli della storia di Firenze, v. 1 - 16

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per crear nuovi cavalieri. Cosí cercavasi, con mezzi artificiali e
vani, perché contrarî affatto all'indole della costituzione e della
società fiorentina, di ridonar forza a quella aristocrazia, che il
cammino naturale delle cose distruggeva continuamente. Liberi ormai dal
Papa e dall'Imperatore, liberi dalla uggiosa protezione di re Carlo,
tutto occupato nelle faccende della Sicilia, i Fiorentini avevano
ordinata a lor modo la costituzione, dando la Repubblica in mano delle
Arti maggiori; avevano ottenuto in Toscana un grande predominio, di cui
seppero giovarsi mirabilmente per aumentare il loro commercio. A questo
infatti giovò moltissimo la lega politico-commerciale, conclusa nel
marzo dell'82, cui abbiamo piú sopra accennato, come aveva giovato la
sottomissione delle terre o città vicine.
Restavano però sempre nemiche Arezzo e Pisa, ambedue ghibelline. La
prima minacciava nella valle superiore dell'Arno; la seconda, ricca,
potente, signora del mare, minacciava nella valle inferiore, e teneva
in mano la chiave del commercio marittimo dei Fiorentini, trovandosi
nella via che mena a Livorno ed a Porto Pisano. Bisognava quindi che
Firenze prima o poi pensasse, con le forze riunite de' suoi amici, con
nuove alleanze, a liberarsi da questi nemici, soprattutto dal secondo,
che, chiudendole il mare, divenuto ora piú che mai necessario al suo
commercio, poteva render vani tutti i trionfi già ottenuti.
Intanto vi furono due anni tranquilli, nei quali i Fiorentini poterono
godersi i benefizî della pace. Vennero accolti in Città, con pompa ed
onore, il principe di Salerno figlio di re Carlo, ed altri della casa
reale. Nel marzo del 1283 venne il Re stesso, che andava in Francia,
per battersi in singolar tenzone a Bordeaux con Pietro d'Aragona, il
quale dal popolo di Sicilia era stato proclamato signore dell'Isola.
Con questo duello, di cui fu molto parlato, ma che non ebbe poi luogo,
doveva finir la guerra che desolava l'Italia meridionale. Ed anche
ora il Re, sebbene dovesse aver l'animo turbato da molti e gravi
pensieri, sebbene ricevesse in Firenze una clamorosa accoglienza,
pure, non curando punto la noia che dava al popolo, volle creare
altri cavalieri. Tuttavia, partito che fu, le feste continuarono con
piú ardore che mai. In occasione del giorno di S. Giovanni, sempre
solennemente celebrato in Firenze, si formò una compagnia di mille
giovani, i quali, vestiti di bianco, avendo alla testa uno di loro che
rappresentava l'Amore,[320] si dettero a giuochi e sollazzi d'ogni
sorta, con balli di dame, cavalieri e popolani nelle vie e nelle
case. Questa specie di corte d'amore era una imitazione dei costumi
francesi, che s'erano cogli Angioini introdotti in Firenze. Ora vi
si numeravano 300 cavalieri di corredo, creati in massima parte,
secondo l'usanza francese, dal re Carlo. Essi imbandivano tavole con
donzelli, cortigiani e buffoni, che venivano da molte parti d'Italia
e di Francia. Ma tutto ciò era uno sforzo vano, per introdurre nella
Città costumi contrarî alle sue tradizioni; un desiderio puerile di
far credere all'esistenza d'una nuova aristocrazia. Il basso popolo
godeva di questi passatempi; ma la cittadinanza piú operosa, che teneva
il governo e costituiva la forza della Repubblica, li disapprovava
altamente, e s'accorgeva che, dopo tante guerre fatte ai nobili, v'era
pur sempre da combattere ancora, per distruggerne gli ultimi avanzi.
E v'era anche da combattere in tutta Toscana il partito imperiale,
che dopo i Vespri pareva volesse alzare la testa. Il 26 febbraio
1285, Corso Donati aveva perciò esclamato in una delle Consulte,
che tutte le terre, le quali erano _de Imperio_, e confinavano col
territorio fiorentino, dovevano essere sottoposte _ad iurisdictionem
Comunis Florentiae_.[321] Ed a questo fine si fecero nuovi accordi
con le città guelfe.[322] Innanzi tutto era però urgente il pensare
a domare la potenza e l'orgoglio di Pisa, sempre ghibellina, contro
cui s'era sempre dovuto, e si doveva ora combattere di nuovo. Ma per
venirne veramente a capo, quando non si poteva né si voleva fidare
piú negli aiuti di re Carlo, tutte le forze unite della Repubblica
e de' suoi alleati non erano sufficienti. Bisognava, coll'ingegno o
coll'accortezza politica, saperle moltiplicare; ed in questa occasione
si vide di che cosa i Fiorentini erano capaci.

VII
La città di Pisa, sebbene traesse tutta la sua forza e la sua potenza
dal commercio marittimo, pure, sia per essere stata sempre imperiale,
sia perché tale pareva che fosse in Italia il destino delle repubbliche
marittime, si trovava dominata da una potente aristocrazia, al pari
di Genova e di Venezia. I Fiorentini avevano, da lungo tempo e con
molta prudenza, cercato d'esercitare fra i nobili pisani la loro azione
per poterli dividere. Giovanni Visconti, chiamato giudice di Gallura,
pel ricco e potente ufficio da lui già tenuto in Sardegna, dove aveva
governato alcune province in nome della repubblica pisana, ne era stato
poi esiliato nel 1274 come guelfo, e s'era quindi unito col vicario
di re Carlo e colla Taglia dei Guelfi contro la sua patria. Egli morí
nell'anno seguente; ma allora uno dei piú potenti e ambiziosi uomini di
Pisa, il conte Ugolino della Gherardesca, che aspirava alla tirannide,
fu, insieme con altri Guelfi assai possenti, esiliato (1275). Ed essi,
non solamente s'allearono co' Fiorentini, ma, insieme con la Taglia,
combatterono contro i Pisani, occuparono Vico Pisano ed altri castelli.
Nel settembre del medesimo anno, tornarono all'assalto coi Fiorentini,
coi Lucchesi, col vicario di re Carlo, ed a tre miglia della loro città
sconfissero i proprî concittadini, pigliando il castello d'Asciano,
che restò ai Lucchesi. Nel 1276 i Fiorentini ed i Lucchesi ripigliarono
la guerra, istigati sempre dal conte Ugolino e da' suoi amici. Questa
volta, come abbiamo già accennato piú sopra, s'incontrarono da una
parte e dall'altra due poderosi eserciti, fra Pisa e Pontedera, presso
quello che chiamavasi Fosso Arnonico, un canale fatto già dai Pisani
colle acque dell'Arno, per difendere con esso il territorio della loro
repubblica. La disfatta che questi subirono fu ora anche maggiore, e
bisognò accettar dai Fiorentini le condizioni della pace, fra cui la
prima e piú dura fu, che dovessero rimettere in città gli esuli guelfi,
specialmente l'ambizioso e già molto odiato conte Ugolino.
Gregorio X era assai scontento della guerra, proseguita con tanto
ardore, con tanta ostinazione d'animo, perché egli vedeva nel
ghibellinismo pisano un argine contro la crescente potenza de'
Fiorentini, i quali eran guelfi, ma facevano ogni opera per rendersi
affatto indipendenti dal Papa. Avendo loro imposto di posare le armi,
e vedendo che invece continuavano a combattere, scomunicò la Città, la
quale, scusandosi alla meglio, non tenne di ciò alcun conto fino al
1276, quando si concluse una pace, che fu però assai breve, e già si
meditavano nuovi assalti.
La repubblica di Pisa restò allora tranquilla qualche anno, ed il
suo commercio era cosí vasto, le sue colonie cosí estese, che le
finanze in brevissimo tempo ritornarono assai floride. Se non che,
queste medesime ricchezze avevano colà reso alcune famiglie tanto
potenti, che, non soddisfatte piú d'una eguaglianza repubblicana,
volevano primeggiare nell'interno, e dirigere la politica estera, non
già secondo l'interesse dello Stato, ma secondo le loro ambizioni
personali. Il giudice di Gallura ed il giudice d'Arborea, i conti
Ugolino, Fazio, Neri e Anselmo della Gherardesca tenevano ognuno una
piccola corte con uomini armati, quasi fossero altrettanti principi.
Occupati nelle loro gare ambiziose, distraevano l'attenzione dei
magistrati dai pericoli che, ogni giorno piú da vicino e piú gravi,
minacciavano la loro repubblica. Infatti non era solo la Lega guelfa,
che con una guerra continua esauriva sempre piú le forze dei Pisani;
ma da qualche tempo l'eterna rivalità di Genova minacciava una guerra
ben piú sterminatrice. Queste due città marittime, ambedue ghibelline,
avrebbero avuto ogni ragione d'essere unite, per difendersi dal
predominio assai maggiore, che aveva sui mari quella di Venezia. Ma
sembrava che tutto ciò le rendesse invece piú gelose l'una dell'altra.
Le loro navi venivano continuamente alle prese sui mari di Oriente.
Un fiero scontro ebbe luogo nel 1277 presso Costantinopoli e nel mar
Nero. Cominciato dai Pisani, era finito con loro danno, ed aveva
lasciato in essi un grande desiderio di vendetta. Né le occasioni
mancavano. Mentre che i Veneziani dominavano quali padroni assoluti
nell'Adriatico, i Genovesi ed i Pisani, che erano a poca distanza sul
Mediterraneo, s'incontravano ogni giorno, perché facevano i medesimi
commerci, e possedevano terre nelle medesime isole di Corsica e di
Sardegna. Tutto ciò era cagione di continue discordie. Inoltre la Lega
guelfa, diretta specialmente contro i Pisani, dava a Genova occasioni
continue d'iniziare la guerra, alla quale i Fiorentini l'istigavano
con tutte le arti della loro politica. Tale e tanto era poi l'odio fra
loro, che furono i Pisani stessi quelli che primi si lasciarono indurre
a provocarla. Li moveva un'ardente brama di tornare alle armi, sempre
riaccesa dalle ambizioni dei nobili, che speravano cosí di farsi strada
al potere, ed erano anch'essi stimolati, incoraggiati da Firenze.
Comandava in Corsica un tale Sinucello, che aveva titolo di Giudice
di Cinarca. Costui, allevato in Pisa, era stato da essa aiutato a
riprendere ed accrescere nell'isola i possessi della sua famiglia.
Dominando come protetto e dipendente da Pisa, s'era poi sottomesso
invece con giuramento di fedeltà, a Genova, che teneva un'altra
parte dell'isola. E piú tardi, commettendo ogni sorta di crudeltà
e di prepotenze, era tornato nemico dei Genovesi, le cui città
nell'isola aveva devastate. Rifuggitosi a Pisa, questa se ne dichiarava
protettrice come di suo antico vassallo, senza fare alcun conto né dei
posteriori trattati, con cui esso aveva giurato fedeltà a Genova, né
delle crudeltà commesse. Voleva rimetterlo colla forza in Corsica, ma
i Genovesi volevano invece tenerlo lontano, e fu questa un'occasione
alla guerra. Egli venne ricondotto nell'isola con 120 cavalli e 200
fanti, coi quali riprese le sue terre; e da quel momento (1282) le
navi genovesi e pisane s'andarono cercando sul Mediterraneo, per
combattersi. Ed infatti dalla fine dell'anno 1282 all'agosto del
1283 fu una serie continua di sanguinose scaramucce, che piú d'una
volta presero le proporzioni di vera battaglia navale, quasi sempre
colla peggio dei Pisani, i quali però ripigliavano subito forza, e
s'apparecchiavano a nuove lotte. Una volta ebbero metà delle navi
distrutte dalla tempesta, e, ciò nonostante, poco di poi (1284)
ventiquattro delle loro galee scortarono il conte Fazio, che andava in
Sardegna, dove essi avevano coi Genovesi continua cagione di guerra.
Infatti il dí 1 maggio incontrarono l'armata genovese, e cominciò
la battaglia, che durò tutto il giorno con grande ostinazione; ma
finalmente i Pisani lasciarono 13 galere in mano del nemico, con
moltissimi prigionieri. Eppure fu in quello stesso anno, che ebbe luogo
fra le due repubbliche un'altra battaglia navale, che è fra le piú
memorabili nelle storie del Medio Evo.
Genova, che aveva dovuto pagar care le sue vittorie, faceva costruire
ed armare navi in tutta la Riviera; Pisa, esausta da tante guerre per
terra e per mare, fece prodigi d'ogni sorta. Ricorse al patriottismo
delle sue piú nobili famiglie, che si mostrarono degne del proprio
nome. I Lanfranchi, assai numerosi in Pisa, armarono a loro spese
non meno d'undici galere; i Gualandi, i Lei, i Gaetani ne armarono
sei, i Sismondi tre, gli Orlandi quattro, gli Upezzinghi cinque,
i Visconti tre, i Moschi due, altre famiglie s'unirono per armarne
una. Andrea Morosini veneto, dei piú reputati nelle cose di mare, fu
nominato Podestà, ed a lui venne data ogni autorità per provvedere
agli apparecchi della guerra, e tener poi sul mare il comando supremo
del naviglio. Cosí, da un lato e dall'altro, si misero in moto due
delle piú formidabili armate, che si vedessero mai a que' tempi. Gli
scrittori genovesi fanno ascendere a 96 le navi di Genova, a 72 quelle
di Pisa; gli storici pisani, invece, numerano 130 navi genovesi e
103 pisane. Comunque sia, gli uni e gli altri riconoscono nelle prime
una superiorità numerica, che fu aiutata anche dall'arte maggiore nel
comando. Le due armate si cercarono lungamente, e poi temporeggiarono,
perché ciascuna voleva trovarsi in una posizione piú vantaggiosa.
Dicesi che i Pisani arrivassero sino al porto di Genova, tirando
frecce d'argento e palle fasciate di porpora, per far pompa della
propria ricchezza, secondo il costume del tempo. Certo è però, che una
parte delle loro navi trovavasi ancorata a Porto Pisano, altre erano
nell'Arno fra i due ponti della città, quando venne l'annunzio che
i Genovesi erano in vista. Tutta Pisa fu a rumore; i marinai corsero
alle loro navi; l'arcivescovo, seguito dal clero, portando in mano lo
stendardo della repubblica, venne sul Ponte Vecchio, di dove benedisse
l'armata, che con un grido di gioia levò l'ancora, e, scendendo
il fiume, s'avviò al mare. Si racconta pure che, nel momento della
benedizione, cadde il Cristo che era sull'alto della bandiera, e fu
tenuto segno di sinistro augurio.
Il 6 agosto 1284 fu un giorno memorabile. I due navigli s'incontrarono
presso la Meloria, a poca distanza da Porto Pisano. Ivi, in passato,
i Genovesi aveano ricevuto una grave disfatta dai Pisani, ed ora
venivano a vendicarla, con la battaglia memorabile di cui son piene le
nostre storie. La distanza del tempo, e la moltitudine spesso discorde
degli scrittori toscani e genovesi, rendono assai difficile una vera
esattezza nei particolari. Cercheremo quindi d'accennare solo i piú
notevoli e sicuri.
L'armata pisana era divisa in tre schiere. Comandava la prima
l'ammiraglio Andrea Morosini; la seconda era affidata al conte Ugolino,
valoroso, ma poco sicuro, perché divorato da un'ambizione, che gli
faceva posporre l'interesse della patria al desiderio di dominarla;
la terza era comandata da Andreotto Saracini. Oberto Doria, assai
valoroso ed esperto, era l'ammiraglio dell'armata genovese, la quale,
a vederla allora sul mare, sembrava per numero uguale alla pisana; ma
ciò era perché Benedetto Zaccaria, con una riserva di trenta galere, se
ne stava nascosto, secondo alcuni, dietro la Meloria, secondo altri,
dietro Montenero, pronto ad accorrere in tempo opportuno. Poco dopo
il mezzogiorno si cominciò a combattere, e la lotta durò aspra ed
incerta per lungo tempo. Quando le due navi ammiraglie s'avvicinarono,
lo scontro delle armate fu generale. Un numero grandissimo d'uomini
vennero da una parte e dall'altra gettati nel mare, tra morti, feriti
o storditi dai colpi ricevuti. Le onde erano rosse pel sangue; i
naufraghi s'attaccavano ai remi per salvarsi, ma venivano dai medesimi
remi rituffati nel mare, per la necessità di continuare le manovre,
in un momento in cui la mischia era giunta al suo punto culminante e
decisivo. Ed allora appunto, Benedetto Zaccaria, il quale già aveva
ricevuto l'ordine d'avvicinarsi, fece forza di vele e di remi, per
arrivare in tempo a decidere l'esito della battaglia. Quando i Pisani
lo videro apparire, riconobbero subito la inferiorità delle proprie
forze, e l'animo cominciò loro a mancare, sebbene proseguissero con
uguale ardore a combattere. Lo Zaccaria, appena che sopraggiunse,
riuscí ad avvicinare la sua galera a quella del Doria, per poter cosí
pigliare in mezzo il Morosini, che con la sua capitana combatteva
fieramente. Nel medesimo tempo la galera che portava lo stendardo di
Pisa, veniva anch'essa circondata da piú lati. L'improvviso aiuto
aveva per tutto accresciuto l'animo dei Genovesi, abbattuto quello
dei Pisani. La lotta, divenuta troppo disuguale, continuava pure senza
cedere da ambo i lati, perché ciascuna delle due eterne rivali pareva
che volesse questa volta distruggere con l'armata nemica, l'esistenza
stessa dell'avversa repubblica.
Ma cosí non si poteva durare a lungo. Ad un tratto si vide lo stendardo
di Pisa, che era sostenuto da una grossa asta di ferro, piegarsi e
cadere con fracasso orribile sotto i ripetuti colpi che aveva ricevuti,
e nello stesso tempo cominciava a cedere la capitana dell'ammiraglio
Morosini, il quale, orrendamente ferito nel volto, dovette arrendersi
insieme con essa. Fu questo il momento in cui il conte Ugolino tradiva,
dando il segnale della fuga: la disfatta divenne allora generale.
Sette galere pisane colarono a fondo, ventotto restarono in mano del
nemico, e i prigionieri furono, secondo una iscrizione che si trova
sulla facciata della chiesa di S. Matteo a Genova, non meno di 9,272.
Gli scrittori pisani li fanno ascendere fino ad undici, ed alcuni anche
a quindicimila, forse perché vi computano molti dei morti, che furono
5,000. Certo è che dopo la battaglia della Meloria, soleva dirsi in
Toscana, che per veder Pisa bisognava ormai andare a Genova.
Quando i superstiti pisani ritornarono a casa, tutti i cittadini
uscirono nelle strade, per aver notizia dei loro parenti, e non vi fu
quasi nessuno che non dovesse piangere qualche morto o prigioniero.
Una moltitudine di donne, di vecchi e bambini, errava per la città
come forsennata, a segno tale, che i magistrati dovettero dare
ordine, che ognuno tornasse alle proprie case. Ben presto tutti in
Pisa erano vestiti a bruno, e per le vie non si vedevano che donne.
A Genova, invece, era dovunque gioia e tripudio; né l'odio contro i
nemici s'era per la vittoria punto scemato. E di ciò s'ebbe una prova,
quando si venne a discutere che cosa dovesse farsi dei prigionieri.
Alcuni proposero di restituirli per una grossa somma di danaro; altri
volevano invece avere il Castel di Castro, in Sardegna, ch'era la
chiave dei possedimenti pisani in quell'isola; ma non fu vinto nessuno
di questi partiti. Si levarono oratori, i quali proposero di ritenere
i prigionieri fino a che non fosse finita del tutto la guerra. In
tal modo, si diceva, le donne resterebbero vedove, senza potersi
rimaritare, e si sarebbe impedito alla popolazione, e quindi all'armata
pisana, di rifarsi delle perdite sofferte. La guerra infatti durò
sedici anni ancora, e quando i prigionieri vennero restituiti, erano
ridotti a poco piú di mille, gli altri essendo morti per le malattie,
l'età, le ferite o gli stenti sofferti.

VIII
Mal si potrebbe dire, se in questi anni sia stata maggiore l'energia
eroica dei Pisani nella sventura, o l'odio insaziabile dei loro
nemici. Subito dopo la terribile rotta della Meloria, i Fiorentini
ed i Lucchesi offerirono a Genova d'allearsi, per compiere insieme lo
sterminio della comune rivale. L'alleanza doveva durare sino a 25 anni
dopo finita la guerra. Le ostilità sarebbero cominciate fra 15 giorni,
con l'obbligo a Genova di mettere in mare 50 galere, ai Fiorentini e
Lucchesi di mettere insieme un esercito. Questi assalirebbero dalla
parte di terra, quelli dalla parte di mare. Ogni anno, almeno per
quaranta giorni, si sarebbe combattuto. Pisa capí che ormai si voleva
la sua ultima rovina, e tale fu allora il suo odio contro Lucca,
soprattutto contro Firenze, che, per non cedere ad esse, si dichiarò
pronta a sottomettersi piuttosto ai patti che Genova avesse voluto
imporle. Ma invano. Il 13 di ottobre l'alleanza fu conclusa nella
casa della Badia in Firenze, presenti i sindachi di Genova e di Lucca,
insieme con quelli di Firenze, fra i quali ultimi si trovava Brunetto
Latini; e si lasciò luogo alle altre città toscane d'entrare nella
Lega. Ma, quello che è piú notevole, in essa potevano essere ammessi
ancora i piú autorevoli prigionieri pisani, che avessero dato sicurtà
di venire a muover guerra alla patria loro. Potevano, alle medesime
condizioni, essere ammessi anche il conte Ugolino, i suoi figli ed il
Giudice di Gallura, se divenivano cittadini genovesi, e riconoscevano
le proprie terre in feudo da Genova. Tutti questi dovevano però
essere accolti di comune consenso degli alleati, e non oltrepassare il
numero di 20. Si conferma da ciò chiaramente che fra i Pisani v'erano
parecchi, che avevano tradito o erano disposti a tradire. Firenze non
dimenticò neppure ora quello che del resto non dimenticava mai, cioè,
di stipulare, insieme con le alleanze politiche, vantaggiosi patti
commerciali.[323]
Ben presto parecchie altre città di Toscana entrarono nella Lega, e
cominciarono gli apparecchi di guerra. Pisa allora si vide subito da
ogni lato circondata. I Fiorentini entrarono in Val d'Era, i Lucchesi
pigliarono alcuni castelli, lo Spinola con le navi genovesi assalí
e danneggiò molto Porto Pisano. Ma ad un tratto i Fiorentini si
dimostrarono assai freddi nell'impresa, con grandissimo scontento dei
Lucchesi e dei Genovesi. Essi volevano sopra tutto avvantaggiare il
proprio commercio, e quindi era loro necessario fiaccare l'orgoglio
di Pisa, e sottometterla, come avevano fatto delle altre città di
Toscana; ma non volevano che ciò seguisse per opera principalmente
dei Genovesi, molto meno poi a loro unico profitto, come sarebbe di
certo ora avvenuto per la preponderanza che avevano sul mare. Ed in
vero, se Genova si fosse resa padrona di Pisa, sarebbe stata padrona
anche del Mediterraneo, e la sua potenza, di molto accresciuta, sarebbe
divenuta addirittura formidabile ai Fiorentini. Quindi è che essi, dopo
avere addensata cosí gran tempesta contro Pisa, pensavano ora, secondo
la dubbia fede di quei tempi, in cui poco o punto si rispettavano i
trattati, a volgere ogni cosa a loro esclusivo vantaggio. E i Pisani
videro subito l'occasione opportuna, e cercarono profittarne; ma lo
fecero poi in modo, che tutto tornò invece a loro rovina. Avendo,
come vedemmo, invano cercato un accordo con Genova; non potendo, dopo
tante calamità, sostenere una guerra del pari formidabile per terra e
per mare, cercarono d'intendersi almeno con Firenze. Ed a questo fine
nominarono loro Podestà il conte Ugolino, dandogli piú tardi anche il
comando della guerra, non ostante le accuse ben note di tradimento alla
Meloria. Ma essi lo sapevano guelfo e segreto amico dei Fiorentini,
quindi lo ritenevano adatto allo scopo ora che li volevano allontanare
da Genova. Il Conte, è vero, sembrava non avere che un solo pensiero,
quello di dominare in Pisa; ed era perciò pronto ad intendersi,
occorrendo, coi nemici della patria, capace di lasciarsi trasportare
ad ogni atto nefando, pur di soddisfare la sua sfrenata ambizione. Una
volta però che questa era soddisfatta, credevano i Pisani che egli,
coraggioso, accortissimo, con molte amicizie tra i Guelfi, avrebbe
saputo trovar modo di venire ad un accordo. E cosí fu, ma con resultato
ben diverso da quello che s'aspettavano.
Narrano i cronisti, che egli inviasse ai rettori di Firenze un dono di
fiaschi con vino di vernaccia, in fondo ai quali aveva messo fiorini
d'oro per corromperli.[324] Questa tradizione prova solamente, che egli
era tenuto capace di ricorrere ad ogni mezzo pur di raggiungere i suoi
fini. Ma ben duri furono i sacrifizî, che dovette imporre a Pisa, per
indurre i Fiorentini a sospendere la guerra contro di essa. Bisognò
cedere terre e castelli importanti, come S. Maria a Monte, Fucecchio,
S. Croce, Monte Calvoli, e mandare in esilio i Ghibellini, riducendo
la città a parte guelfa, il che per una repubblica stata sempre
ghibellina, era un'umiliazione grandissima. Pisa doveva ormai piegarsi
a tutto, perché trattavasi di salvare la propria esistenza. Quando però
i Genovesi e i Lucchesi s'accorsero che erano abbandonati da Firenze,
la quale sosteneva i Pisani contro Lucca, i lamenti furono cosí grandi
contro la violata fede, che il conte Ugolino, per far tacere almeno i
Lucchesi, cedette loro Bientina, Ripafratta e Viareggio. In questo modo
l'orgogliosa repubblica pisana restringeva il suo territorio fin quasi
alle mura, privandosi d'ogni difesa dalla parte di terra, quando le sue
navi erano su tutti i mari inseguite e predate dai Genovesi. Solo il
conte Ugolino trionfava in mezzo a tante rovine ed umiliazioni, perché
comandava in città, ed era tutto quel che voleva. Ma nel suo ambíto
dominio egli era essai meno sicuro di quel che pensava, perché i fieri
spiriti pisani non erano del tutto domati, e già i piú tolleravano
assai male una tirannia interna, che non riusciva a salvare dalle
umiliazioni esterne. Ogni piú piccola occasione faceva ora veder segni
manifesti, che le passioni cittadine potevano da un momento all'altro
prorompere.
Un'altra causa di mali umori continuavano ad essere le trattative per
riavere da Genova i prigionieri, che formavano parte non piccola della
migliore gioventú pisana. Tutti desideravano riaverli in ogni modo;
ma il Conte frapponeva ogni giorno nuovi ostacoli, perché li sapeva
ghibellini e però a lui avversi. Faceva sempre proposte inaccettabili
dai Pisani, per mandare le cose in lungo. Cosí nulla si concludeva, ed
era quel che voleva. Ma la sua alterigia finí col portare la divisione
nel seno dello stesso partito guelfo. Nino Visconti, giudice di
Gallura, suo nipote e capo naturale dei Guelfi, cominciò ad accostarsi
ai Ghibellini per far guerra allo zio. Il quale allora, senza esitare,
mandò in esilio molti altri Ghibellini, e fece abbattere dieci dei
loro piú ricchi palazzi. Lo sdegno cominciò a divampare. Nino si uní
strettamente ai Gualandi, ai Sismondi, e cercarono di sollecitare
il ritorno dei prigionieri, cosa che il Conte ritardava con nuovi
pretesti, mantenendo vive le cagioni di guerra con Genova. Pensarono
allora di sollevare il popolo contro di lui, ma non vi riuscirono;
ricorsero perciò alle vie legali, per vedere se cosí potevano porre
un freno alla sua autorità eccessiva. Egli era stato nominato Capitano
generale del popolo, ma aveva illegalmente assunto anche l'ufficio di
Podestà, e senza diritto s'era alloggiato nel Palazzo della Signoria.
Nino e i suoi amici protestarono presso gli Anziani, e l'obbligarono
ad abbandonare il Palazzo, riducendosi nei termini della legge. Il che
egli fece, ma per poco tempo, e ripigliò ben presto con la forza la
sua prima autorità. Intanto l'odio delle parti cresceva, studiandosi il
Conte di mantener viva la discordia con Genova, i suoi nemici cercando
invece di concludere la pace e riavere i prigionieri, perché anche
questo era un mezzo per abbatterlo.
Finalmente, accortosi del grave pericolo in cui versava, il Conte
voleva in qualche modo uscirne. Visto che alcuni dei Guelfi, uniti
ai Ghibellini, gli erano divenuti del pari avversi e gli facevano
guerra, pensò d'avvicinarsi a questi, per separarli da quei Guelfi
che lo avevano abbandonato, e che perciò voleva abbattere, sperando
di potere piú tardi compiere la medesima opera contro i Ghibellini,
dopo averli isolati. Ma, sebbene non gli mancasse di certo l'astuzia,
finí coll'aver contro di sé gli uni e gli altri, ed alla testa de'
suoi nemici cosí riuniti, si pose l'arcivescovo Ruggieri, ghibellino
autorevolissimo. La guerra civile infiammò la città intera, ed il
Palazzo del popolo si trovò in mano ora dell'Arcivescovo, ora del
Conte, il quale, accecato dal furor della vendetta, non tollerava
avvertenze o consigli neppure da' suoi piú intimi. Un giorno in cui
lo scontento del popolo era al colmo pel caro dei viveri, e niuno
osava parlargli, uno de' suoi nipoti si presentò a lui, per rivelargli
lo stato delle cose, consigliandogli di sospender le gabelle, acciò
diminuisse il prezzo dei viveri. Ed il Conte si lasciò talmente
trasportare dall'ira, che gli tirò un colpo di pugnale, ferendolo nel
braccio. Un nipote dell'arcivescovo, amico del giovane, trovandosi
presente, non seppe resistere, e gli fece scudo della sua persona. Il
Conte, fuori di sé pel furore, pose mano ad un'ascia, che era vicino a
lui, e con un colpo alla testa lo stese morto a' suoi piedi.
L'arcivescovo Ruggieri dissimulò un pezzo, aspettando l'occasione, che
finalmente venne. Il 1.º luglio 1288 il Consiglio della repubblica
era radunato nella chiesa di S. Sebastiano, per deliberare sulla
pace coi Genovesi. I Ghibellini ed il popolo la volevano in ogni
modo, ma il Conte frapponeva nuovi ostacoli, sperando sempre aiuto
dagli amici. Quando uscirono dall'adunanza, l'Arcivescovo capí che
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