I primi due secoli della storia di Firenze, v. 1 - 14

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formavano le Capitudini, le quali ebbero piú tardi alla loro testa un
Proconsolo, che fu un magistrato tenuto in grandissimo onore.
Se ora mettiamo da un lato gl'immensi vantaggi industriali e
commerciali, che nel secolo XIII doveva portare alla Repubblica un tale
ordinamento delle Arti, e le esaminiamo solo dal lato politico, vedremo
vantaggi non punto minori. Tutti questi mercanti, che costituivano
la grandissima maggioranza dei cittadini fiorentini, si trovavano
continuamente ad amministrare grandi interessi, a giudicar liti
commerciali, a discutere leggi e Statuti; avevano relazioni in tutte le
parti del mondo conosciuto, e vi andavano in ambascerie, per difendere
i comuni interessi. Si vede una continua, febbrile partecipazione
di tutti alla vita politica, giacché ognuna di queste Arti era una
istituzione autonoma, che si reggeva da sé, con magistrati, leggi,
Statuti e Consigli suoi proprî, ed ognuna di esse diveniva un centro
di vita intellettuale, politica, industriale. Cosí le forze del popolo
fiorentino, liberamente circolando, si moltiplicavano con raddoppiato
vigore, e tutte le facoltà dello spirito umano, tutta l'energia morale
e politica di cui l'uomo è capace, sorsero d'un tratto in Firenze,
ad una prodigiosa altezza. Bastava quasi mettere alla ventura la
mano fra quei mercanti, e il primo che si toccava, riusciva capace
di governare la Repubblica; gli si poteva affidare la piú gelosa
missione diplomatica, ché egli avrebbe saputo cavarsene con onore,
farsi ricevere con decoro da papi, re o imperatori, senza lasciarsi
aggirare, senza mancare neppure alle forme convenzionali delle Corti.
La sottigliezza dell'ingegno dei Fiorentini poté cosí acquistare quella
grande reputazione, che li rese celebri in tutta Europa, ed in mezzo
a quella straordinaria attività industriale e politica si andarono
formando anche l'arte, la letteratura italiana, e la piccola repubblica
di mercanti divenne ben presto come un punto di luce che illuminava il
mondo.
Un altro vantaggio ancora portarono a Firenze le Arti maggiori. Nel
tempo in cui l'ordinamento politico teneva come divisa in due la
Città; quando i partiti dovevano di nuovo fieramente combattersi, e i
Capitani di Parte eccitavano le passioni, mantenendo sempre accesa la
discordia, ed il supremo magistrato dei Dodici, mutando di continuo
portava cittadini sempre diversi e sempre passionati a reggere la cosa
pubblica; in tempi siffatti riusciva d'un benefizio incalcolabile
l'avere dicentrato il governo in un numero infinito di piccole
associazioni. Se il popolo o i nobili si ribellavano contro i reggitori
per mutare i Dodici o il Podestà o il Capitano o anche lo Statuto,
la sospensione degli affari che doveva necessariamente seguirne,
produceva un disordine assai piú apparente che reale. La Repubblica,
divisa in tante piccole associazioni, poteva restare anche piú mesi
senza governo, perché le Arti armate, disciplinate e costituite cosí
fortemente, bastavano, assai meglio che nel passato, a reggerla, ed
impedivano quei danni, che altrimenti sarebbero stati inevitabili in
una città abbandonata a sé stessa. Cosí la costituzione delle Arti,
quale fu formata nel 1266, ci spiega nello stesso tempo come la poesia,
la pittura, la scultura, l'architettura, potessero sorgere in mezzo
a un popolo di mercanti; come, in mezzo a tanto apparente disordine,
fosse possibile tanto progresso, e come la democrazia riuscisse in
Firenze a distruggere del tutto ogni avanzo di feudalismo, arrivando
ad una assoluta eguaglianza, a tutte quante le libertà di cui il
Medio Evo era capace. Il Comune di Firenze fu il centro di una cosí
grande cultura, perché fu la sede delle maggiori libertà che erano
allora possibili. Il piú bello e splendido fiore di quella cultura si
deve alla democrazia, che lasciò la sua impronta, dette il proprio
carattere alle chiese e ai palazzi di Arnolfo, ai quadri di Cimabue
e di Giotto, alla poesia di Dante. Nella letteratura provenzale,
francese, tedesca, inglese del Medio Evo, non pochi furono i nobili
signori che acquistarono fama, anzi la piú parte di quei poeti furono
nobili. Le arti e le lettere fiorentine, che costituirono il germe
piú fecondo delle arti e delle lettere italiane, furono essenzialmente
repubblicane; molti degli scrittori, moltissimi degli artisti furono
figli di mercanti o di semplici artigiani.


CAPITOLO V
IL PREDOMINIO DI FIRENZE IN TOSCANA[298]

I
Dopo la morte di Federigo II, vi fu un lungo interregno imperiale.
Per ventitre anni nessuno fu in Germania definitivamente proclamato
re dei Romani, e per sessantadue nessuno venne in Roma a prendere la
corona dell'Impero. Il partito ghibellino si trovò quindi abbandonato
a sé stesso, ed i suoi capi cercarono di far prevalere i loro diritti
feudali, le loro armi, la loro fortuna, a danno della Città e dei
minori potenti, che non avevano speranza di trovare protezione
nell'Imperatore. Cominciavano quindi a sorgere per tutto piccoli
tiranni, e la piú parte di essi erano nobili ghibellini, i quali, fra
le tante disfatte avute dall'aristocrazia in Italia, trovavano pure
nuovo ed inaspettato aiuto nelle mutate condizioni dei tempi. Assai vi
contribuiva anche la nuova arte militare, la quale aveva dato nella
guerra prevalenza agli uomini d'arme, che erano cavalieri coperti,
insieme col loro cavallo, di pesanti armature, e muniti d'una lunga
lancia, con la quale abbattevano il fantaccino prima che potesse,
con la sua alabarda, arrivare fino a loro. Occorreva perciò un lungo
tirocinio, il quale rendeva sempre piú difficile all'artigiano o al
mercante il seguire con fortuna il mestiere delle armi, che diveniva
invece l'occupazione principale dell'aristocrazia. Molti infatti delle
piú nobili famiglie cominciavano ora ad acquistar nome nella nuova arte
della guerra, trovavano seguaci, e, messisi alla testa d'una piccola
compagnia, a poco a poco divenivano potenti, e cosí nascevano in essi
il desiderio e la speranza di farsi tiranni. Per questa e per molte
altre ragioni, che appariranno anche piú chiare in seguito, quasi tutte
le città di Lombardia, e non poche della Italia centrale, andavano
perdendo la loro libertà.
Non mancavano certo le medesime ambizioni anche nel partito guelfo;
ma in esso l'aristocrazia feudale era assai meno potente, e maggiore
invece il numero dei mercanti e dei ricchi popolani. Oltre di che, il
Papa era vicino, e nella vacanza dell'Impero, le città guelfe trovavano
nello stesso tempo un pericolo ed un protettore ambizioso non solo
in lui, ma anche in Carlo I d'Angiò, Paciaro e Vicario imperiale in
Toscana, durante l'interregno. Carlo nominava i Podestà in tutte le
città guelfe di Toscana, dove, quando non veniva egli stesso, mandava
un suo rappresentante, o, come lo chiamano i cronisti, Maliscalco
del Re, accompagnato da alcune centinaia di fanti e cavalieri, Pisa,
Arezzo, tutte le città ghibelline, che non riconoscevano la sua
autorità, si trovavano esposte a continue minacce di fuori, ed erano
dentro lacerate dai tentativi di coloro che volevano fondarvi la
tirannide. Le città guelfe, invece, si trovavano, sotto il continuo
incubo dell'ambizione del Re; ma egli non era poi tanto sicuro di sé,
da potere, con un ufficio temporaneo e limitato, pretendere di dominare
come signore di Toscana, sebben tale fosse la sua segreta mira. Per
ora gli bastava presentarsi come alto protettore dei diritti e delle
libertà municipali, affinché le città guelfe potessero lusingarsi di
trovare in lui un aiuto contro le ambizioni esterne dei Ghibellini, e
contro i tentativi di tirannide interna.
Ma i Fiorentini non erano uomini da lasciarsi illudere sull'avvenire,
né ingannare sul presente. Avevano richiesto la protezione di Carlo,
ponendovi però dei limiti, che erano decisi a fare, in ogni modo,
rispettare. Anch'essi avevano un segreto pensiero, e questo era:
valersi dell'autorità e delle armi del Re, per crescere non il suo,
ma il loro predominio in Toscana. L'autorità imperiale era in Italia
assai decaduta; l'autorità temporale dei Papi decadeva anch'essa,
e i municipî, sentendosi piú indipendenti, estendevano il proprio
territorio. Tutte le città italiane miravano ora a questo scopo.
Ma appena che una diveniva piú potente, le altre ad essa vicine,
o dovevano fare altrettanto, o divenivano sua preda. E cosí erano
spinte a guerreggiare continuamente fra loro, non tanto per gara di
partiti o gelosia, quanto per difesa dei propri interessi. Inoltre,
con l'uso invalso d'assoldar gente straniera e soldati di ventura,
chiunque aveva denari a sua disposizione, poteva a un tratto mettere
insieme un esercito potente, ed assaltare il vicino. Bisognava quindi
premunirsi, star sempre sull'avviso, accrescere le proprie forze, la
propria potenza; ed i Fiorentini pensavano, a questo fine, di valersi
ora dell'autorità, del nome e delle genti di Carlo.
E però quando vennero in Firenze, da lui mandati (1267), il Podestà
Emilio di Corbano,[299] ed il Maresciallo Filippo di Monforte con 800
cavalieri francesi,[300] i Fiorentini andarono subito con quest'ultimo,
con la sua cavalleria, ed un loro esercito, raccolto da due Sesti della
Città, ad assediare il castello di S. Ilario o S. Ellero, dove s'erano
rifugiati parecchi Ghibellini, capitanati da Filippo da Volognano. Il
castello venne preso, e 800 Ghibellini che v'erano dentro furono quasi
tutti uccisi fatti prigionieri[301]. Si trovavano fra di essi molti
delle piú nobili famiglie di Firenze, come i Fifanti, gli Scolari,
gli Uberti, e l'odio di parte era, allora tale, che un giovanetto
degli Uberti, quando vide ogni difesa riuscita vana, piuttosto che
cader nelle mani dei Buondelmonti, preferí gettarsi dall'alto di un
campanile.[302] Continuando la guerra, furono presi i castelli di Campi
e Gressa; volte a parte guelfa, cacciandone i Ghibellini, le città di
Lucca, Pistoia, Volterra, Prato, S. Gemignano, Colle ed altre ancora,
che entraron nella Lega o _Taglia_ coi Fiorentini, sotto il comando del
Maresciallo di Carlo.
Pisa e Siena restarono però ghibelline; la prima era stata sempre,
e si manteneva ancora il piú forte sostegno del partito in Toscana;
nella seconda s'erano, come al solito, rifugiati di nuovo gli esuli
di Firenze, e parecchi Tedeschi avanzati alla strage di Manfredi.
I Fiorentini non erano riusciti ancora a vendicare la rotta di
Montaperti, il che era come una spina nel loro cuore; e Carlo che
desiderava anch'esso ardentemente di distruggere ogni avanzo degli
amici e sostenitori di casa sveva, s'apparecchiava a venire in
Toscana, per condurre in persona la guerra contro Siena. E intanto i
Fiorentini, dopo avere invano assalito la città e dato il guasto al
contado, visto che gli esuli, coi Tedeschi e con altri Ghibellini,
s'erano fortificati in Poggibonsi, andarono coi Francesi e coi Guelfi
della Taglia, a portarvi regolare assedio. Allora appunto re Carlo
arrivò a Firenze, dove le accoglienze furono perciò assai liete. I
piú autorevoli cittadini gli andarono incontro col carroccio, segno
di grandissimo onore, e dopo otto giorni di festa in Città, dove
nominò varî cavalieri, egli se ne partí pel campo. L'assedio durò
quattro mesi, dopo i quali il castello dovette arrendersi per fame,
verso la metà di dicembre 1267. Carlo vi mise allora un Podestà che
governasse in suo nome, e vi cominciò una fortezza, per costruire la
quale, secondo il suo costume, impose gravi tasse alle città della
Taglia. Firenze dovette dare 1992 lire. E dopo di ciò, senza metter
tempo in mezzo, si condusse l'esercito contro Pisa. Sottomettere una
cosí potente e bellicosa repubblica non era impresa agevole; ed il Re
quindi si contentò solo di umiliarla, pigliando per ora Porto Pisano
e facendone abbatter le torri. Nel febbraio del 1268 andò a Lucca,
donde si mosse ad assediare il castello di Mutrone, che prese e donò
ai Lucchesi. E cosí aveva, con una serie di vittorie, non di molta
importanza, ma pure abbaglianti e rapide, rialzato assai il nome e
l'autorità della parte guelfa, la quale aveva contribuito alla guerra,
non solo coi suoi uomini, ma sostenendone tutta la spesa, con grosse
e continue somme di danaro, che Carlo imperiosamente e continuamente
chiedeva. Infatti, fino a tutto il febbraio del 1268, Firenze sola
aveva pagato 72,000 lire, 20,000 delle quali per pigliare Poggibonsi,
dove il Re non aveva poi costruito la fortezza promessa. Ma ora si
levava improvviso un grido di guerra, che commoveva tutta Italia, e
Carlo si vide a un tratto minacciato da un pericolo cosí imminente,
che, dopo avere alquanto esitato, dovette nel marzo decidersi a tornar
nel Reame per difenderlo.

II
Corradino, figlio di Corrado e nipote di Federico II, era l'ultimo
erede di casa sveva in Germania, e l'ultima speranza dei Ghibellini
in Italia. A lui spettava per eredità il regno di Napoli, che Carlo
d'Angiò aveva usurpato colle armi; ed era anche ritenuto da molti
futuro imperatore. Giunto che fu alla età di 15 anni, si presentarono a
lui molti fuorusciti di Napoli, di Sicilia, e d'altre parti d'Italia,
invitandolo a riconquistare il suo regno, a sollevare la parte
imperiale in Italia. Ed egli, che era d'animo precoce, pieno di ardore
e di ambizione, appena che vide balenare una speranza, subito decise di
passare le Alpi. Vendé i pochi beni che gli restavano, raccolse i suoi
piú fidi amici, mise insieme un piccolo esercito, e giunse a Verona il
20 ottobre, con 3000 cavalieri e parecchi fanti. Di là spedi a tutti i
principi cristiani lettere, che narravano le sue sventure; le ingiurie
ricevute per le usurpazioni di Carlo d'Angiò, per l'odio di papa
Urbano IV, il quale, non contento d'invitare un usurpatore francese a
calpestare i diritti dell'Impero, aveva ancora scomunicato i legittimi
eredi dell'Impero stesso. E papa Clemente, in risposta, rinnovava ora
la scomunica contro Corradino; mandava per tutto lettere violenti,
velenose contro di lui; sollecitava Carlo, che ancora se ne stava in
Toscana ad aspettare ivi la battaglia, perché andasse a difendere il
suo Reame dai pericoli imminenti. Infatti la cospirazione ghibellina si
estendeva adesso in tutta Italia. Pisa e Siena sollevavano l'animo a
grandi speranze, le città di Romagna, le città del Napoletano, quelle
soprattutto della Sicilia, si ribellarono contro di lui. Nell'aprile
del 1268 Corradino era già a Pisa, col suo esercito, che s'andava
aumentando per l'accorrere di molti partigiani, sebbene la mancanza
di danari avesse fatto tornare a casa parecchi Tedeschi. Carlo era già
tornato nel Reame, per apparecchiarsi alla difesa, ed intanto assediava
Lucera, dove i Saraceni di Manfredi avevano innalzato la bandiera di
Corradino, che era pronto a partire, senza neppur fermarsi in Toscana
ad incoraggiare le città che si sollevavano in suo favore, Pisa e Siena
erano apertamente per lui; Poggibonsi si ribellò subito dai Fiorentini;
altre terre s'apparecchiavano a far lo stesso. Intanto i soldati
tedeschi s'avviarono subito verso Roma, dove il senatore Errico di
Castiglia li attendeva. I Francesi, che erano in Firenze, uscirono per
chiuder loro la via, e furono invece respinti con gravissime perdite,
il che dette nuovo animo a Corradino ed ai suoi.
Ma la battaglia di Tagliacozzo, seguita il 23 d'agosto 1268, presso
le rive del Salto, doveva decidere il suo fato. Dapprima l'esercito
di Carlo, inferiore di numero, pareva disfatto, a segno tale che i
Tedeschi già si davano da ogni lato ad inseguirlo. Ma quando s'erano
sbandati, inseguendo e saccheggiando, Carlo, che s'era nascosto con
una riserva di 800 cavalieri, piombò loro addosso, e la vittoria
improvvisamente fu sua. La sera stessa, frenetico di gioia, annunziò il
fatto al Papa, non meno di lui esultante. Inaudite furono le crudeltà
commesse contro i prigionieri, amputati, decapitati, bruciati vivi.
Corradino, con circa 500 de' suoi, in compagnia di Arrigo d'Austria,
Galvano Lancia, il conte Gherardo Donoratico di Pisa, ed altri fidi,
s'avviò verso Roma, di dove, abbandonato dai piú, dovette fuggire
per la Maremma, ricoverandosi nel castello d'Astura. Ma ivi, mentre
che s'apprestava ad andarsene con pochi de' suoi, sopra una barca in
Sicilia, fu preso da Giovanni Frangipane signore del luogo, che lo
consegnò a Carlo, e ne ebbe in premio alcuni feudi.
Questi adesso manifestava la sua grande gioia con sempre nuove
crudeltà. In Corneto, si afferma, fu vista una torre incoronata di
cadaveri dei piú cospicui e valorosi soldati ghibellini. Nelle città
del Reame egli eccitava i piú crudeli furori della plebe contro i
signori, che avevano parteggiato per Corradino. E i suoi ministri
gareggiarono di crudeltà in Sicilia, dove, fra le altre barbarie,
si racconta che in Augusta il carnefice dovette, in un sol giorno,
ammazzare tanti infelici Siciliani, che ne rimase esausto, e, a forza
di vino, lo rinfrancarono per farlo continuare nel macello. Ma l'animo
feroce del Re si fermò piú particolarmente a decidere il destino,
che voleva serbare a Corradino. Uccidere migliaia di cristiani, farli
morire fra i piú crudeli tormenti, era cosa per lui di poco momento;
ma dinanzi ad un uomo di sangue reale ed imperiale, egli doveva esitare
alquanto. Dicesi infatti che chiedesse consiglio al Papa; ma poi, senza
aspettar la risposta, cercò di coonestare la sua vendetta con le forme
menzognere d'un giudizio legale. Egli presumeva di trattare un rivale,
cui aveva usurpato il regno, come un ribelle al legittimo sovrano,
e come reo d'alto tradimento un prigioniero di guerra, che voleva
render colpevole ancora di tutti gli eccessi commessi nella guerra
dai soldati tedeschi. E pure, sebbene il tribunale fosse composto di
persone scelte dal Re fra i nemici di casa sveva, pare che non mancasse
chi difese nobilmente Corradino. Si affermò, che Guido da Suzzara,
nell'Emilia, giureconsulto al suo tempo riputato, adducesse la giovane
età dell'accusato, i diritti che esso credeva d'aver sul Reame, le
ragioni della guerra. Si affermò del pari che molti dei giudici si
tacquero, e che uno solo si dichiarò apertamente per la condanna. Ma
fu tutto invano. Carlo, che già aveva messo a morte alcuni dei baroni,
e fra gli altri il conte Galvano Lancia, a cui, prima di morire, aveva
fatto vedere il figlio strangolato sotto i proprî occhi, aveva iniziato
il processo di Corradino per pura forma: interpetrò quindi il silenzio
dei giudici come assenso alla condanna, che fu senz'altro pronunziata.
E la sentenza venne subito comunicata nella prigione a Corradino, che
giocava agli scacchi col cugino Federico d'Austria. Il 29 d'ottobre
1268 essi furono condotti al patibolo sulla piazza del Mercato di
Napoli. Il protonotario Roberto di Bari, che aveva sostenuto l'accusa,
lesse la sentenza, e Carlo volle esser presente. Dicesi che non pochi
dei Francesi stessi fremevano di sdegno e di umiliazione dinanzi a
questo crudele spettacolo. Una moltitudine immensa era nella piazza,
e molti s'inginocchiarono commossi. Corradino si levò il mantello,
dette uno sguardo alla folla silenziosa, gettò ad essa, in segno di
futura vendetta, il guanto, e poi sottopose il capo alla scure. Cosí
moriva l'erede di Federico II, l'ultimo degli Svevi. Federico d'Austria
voleva baciarne il capo, ma fu subito preso, e la scure del carnefice
fece a lui subire la stessa fine. Non pochi sono i particolari,
storici o leggendarî, con cui i cronisti accompagnarono il racconto di
questa lugubre tragedia. Il Villani, che pur era guelfo, prestò fede
all'erronea voce (VII, 29), la quale affermava che Roberto conte di
Fiandra, genero di Carlo, all'udire il Protonotario di Bari leggere
la sentenza di morte, fu preso da tal furore che gli dette un colpo di
stocco col quale lo finí sotto gli occhi del Re. Tutto ciò prova almeno
quale era la impressione che il fatto universalmente produsse. Della
parte avuta in questa tragedia dal Papa, s'è diversamente parlato. Il
vero è che egli vide e tacque.[303]

III
Ma sebbene questi fatti venissero da tutti in Italia con grande
severità condannati, pure essi tornarono subito a vantaggio di Carlo
e della parte guelfa. I Fiorentini ne profittarono per pronunziar
nuove condanne contro i Ghibellini, e poco dopo s'apparecchiarono a
ripigliare la guerra contro i vicini, massime contro Siena, desiderosi
sempre di vendicare la rotta di Montaperti, ed ora piú che mai irritati
dal vedere colà raccogliersi di nuovo, ed essere festeggiati i loro
esuli. A Siena essi attribuivano anche la recente ribellione di
Poggibonsi, il cui territorio andarono perciò a devastare, il che bastò
a riaccendere la guerra. I Senesi, che per la passata di Corradino
s'erano levati a grandi speranze, non volevano ora darsi facilmente
per vinti. Prevaleva sempre nella loro città Provengano Salvani, uno
dei promotori della battaglia di Montaperti, nella quale aveva fatto
prova di gran valore. E molti fatti generosi a lui si attribuivano
anche ora. Narrasi come, trovandosi un suo amico prigioniero di Carlo,
che gl'impose una taglia di 10,000 scudi, sotto pena del capo, e non
potendo la famiglia pagarli, né avendo Provenzano il danaro sufficiente
ad aiutarlo, stendesse un tappeto sulla piazza, e, ponendosi
pubblicamente a questuare pel prigioniero, raccogliesse la somma voluta
e liberasse l'amico. Tutto ciò gli dava nel popolo una grandissima
autorità; ed esso era ghibellino e nemico dichiarato di Firenze. A
Siena v'era inoltre un buon numero di Spagnuoli e di Tedeschi avanzati
alle battaglie ghibelline, e v'era il conte Guido Novello, che, sebbene
assai poco valesse, pure eccitava di continuo gli animi alla guerra.
Cosí fu raccolto un esercito, che il Villani dice di 1,400 cavalieri, e
8,000 pedoni, ed andò ad assediare il Castello di Colle in val d'Elsa,
per vendicare il guasto dato al contado di Poggibonsi. I Fiorentini,
guidati dal vicario di Carlo, con 800 cavalieri, uniti ad un numero
non molto grande delle loro genti, si avanzarono subito, e sebbene
con forze assai minori, andarono contro i Senesi, che accettarono la
battaglia (17 giugno 1269) e furono disfatti. Il conte Guido Novello,
secondo il suo solito, sparí dal campo; ma Provenzano Salvani, non
smentendo mai sé stesso, morí combattendo. La sua testa, fitta sopra
un'asta, fu portata in giro pel campo, verificandosi cosí una profezia,
che gli aveva detto, prima che partisse: _la tua testa fia la piú alta
nel campo_, parole che egli aveva interpretate, invece, come augurio di
vittoria. I Fiorentini, che non dettero ora quartiere ai Senesi, se ne
tornarono trionfanti a casa, e, credendo di avere finalmente vendicata
l'ingiuria di Montaperti, cominciarono trattative di pace. E prima
espressa condizione fu, che i Senesi non dovessero piú ricoverare gli
esuli ghibellini, i quali se ne dovettero, infatti, ben presto partire,
andando d'ogni parte raminghi, per tutto inseguiti, e crudelmente
trattati. I Pazzi, fra gli altri, che avevano ribellato il castello
d'Ostina, furono presi e tagliati a pezzi.
Dopo un guasto, dato dai Fiorentini e Lucchesi nel contado di Pisa,
che aveva, nell'aprile 1270, fatta pace con Carlo, se ne conchiuse il
2 maggio un'altra anche tra essa e Firenze, nella quale si stipularono
quasi gli stessi patti e la medesima alleanza politico-commerciale
che nella pace del 1256.[304] In quel momento erano di Siena partiti
pel Casentino, Azzolino, Neracozzo e Conticino degli Uberti, con
un cavaliere Bindo dei Grifoni, che caddero subito nelle mani de'
Fiorentini. Questi interrogarono re Carlo in qual modo dovessero
trattarli, ed egli rispose: punirli come traditori, inviando a
lui Conticino, ch'era assai giovane. Gli altri tre vennero subito
decapitati per ordine del podestà Berardino d'Ariano (8 maggio 1270).
Si narra che, avvicinandosi al patibolo, Neracozzo domandasse ad
Azzolino: dove andiamo? A che l'altro avrebbe tranquillamente risposto:
a pagare un debito che ci lasciarono i nostri padri. Conticino morí
nelle prigioni di Capua. Tutto ciò dimostra chiaramente quanto grande
fosse divenuta l'autorità di Carlo nella Repubblica. Ma i Fiorentini
tolleravano ogni cosa, pur di arrivare col suo aiuto a rendersi temuti
in Toscana, ed a rialzare in essa il nome del partito guelfo, nel che
si può dire che erano già riusciti. Tutta Toscana era infatti ridotta
al partito guelfo; le antiche e le nuove ingiurie erano vendicate.
Disfecero adesso anche il castello di Pian di Mezzo in Val d'Arno, e le
mura di Poggibonsi.
Nello stesso tempo era però cresciuta la potenza, e s'era resa
temibile l'autorità degli Angioini. Carlo, sicuro padrone del reame
di Napoli; nominato dai Papi, durante l'interregno, Senatore di Roma e
Vicario, non solo in Toscana, ma anche in Romagna, aveva, nel rendere
potente il partito guelfo, reso piú potente assai ancora sé stesso. Si
vedeva chiaro, che già balenava in lui l'ambizione di farsi signore
d'Italia, ed ai Fiorentini cominciava perciò a puzzare quel suo
inframmettersi per tutto; quel tenere in ogni Comune i suoi Podestà,
che in suo nome e sotto la sua autorità, comandavano e condannavano.
E quasi ciò non bastasse, vi doveva essere in Toscana ancora un
Maresciallo o Vicario del Re, che insieme cogli altri vessava le
città con domande sempre insistenti e minacciose di nuovi danari. Ma
piú di tutti s'ingelosiva ora anche la Corte di Roma. I Papi avevan
chiamato gli Angioini ad abbassare la potenza degli Svevi, non tanto
perché questi erano ghibellini e quegli guelfi; quanto perché gli
Svevi avevano avuta quella medesima ambizione, che ora cominciava a
nascere anche nell'animo di Carlo. V'erano dunque le stesse ragioni
per combatterlo. Niccolò Machiavelli ha piú volte ripetuto, che i
papi «temevano sempre colui, la cui potenza era divenuta grande in
Italia, ancora che la fosse con i favori della Chiesa esercitata. E
perché e' cercavano di abbassarla, ne nascevano gli spessi tumulti e
le spesse variazioni, che in questa seguivano, perché la paura di un
potente faceva crescere un debole, e cresciuto che gli era, temere, e
temuto, cercare di abbassarlo. Questo fece torre il governo di mano
a Manfredi e concederlo a Carlo, questo fece poi aver paura di lui,
e cercare la rovina sua».[305] Infatti Urbano IV aveva invitato Carlo
a prendere il regno di Napoli, Clemente IV lo aveva nominato Vicario,
Gregorio X cominciava ora ad avversarlo, ed i suoi successori seguirono
l'esempio dato da lui. Cosí nel centro d'Italia venivano ora in gioco
tre politiche diverse: quella degli Angioini, che già vagheggiavano il
dominio d'Italia; quella dei Fiorentini, che volevano servirsi della
potenza di Carlo d'Angiò, per divenire padroni di Toscana; e quella dei
Papi, che volevano frenare l'ambizione angioina, e ripigliare il loro
antico ascendente in Toscana.

IV
Il primo segno di questa mutazione nella politica papale si vide subito
in Firenze, sebbene a Roma si cercasse, con ogni arte, nascondere
il vero scopo e le vere cagioni del mutamento, si facesse anzi ogni
opera perché nessuna variazione d'animo apparisse. Gregorio X cominciò
a mostrarsi dolente, che gli odii tra i Guelfi ed i Ghibellini
continuassero a tenere divisa una città cosí ricca e fiorente qual
era Firenze. Voleva che tra loro si facesse la pace. Niun desiderio
doveva sembrare piú naturale nel capo dei fedeli; ma in Carlo già
destava sospetto vedere il Papa nutrire a un tratto questa insolita
pietà pei Ghibellini. E piú dovette esserne insospettito, quando vide
i Fiorentini accettare assai volentieri le proposte papali. Essi già
avevano dato segno di volersi emancipare, chiedendo al Re un Potestà
italiano, a forma dei loro Statuti, ed egli l'aveva dovuto, con parole
piene di benevolenza, concedere fin dal gennaio 1270.[306] Ora essi
afferravano a volo il segreto pensiero di Roma, comprendendo che era
tempo di profittarne, secondandolo. E lo facevano tanto piú volentieri,
quanto piú volevano non solo mettere un freno alla crescente autorità
di Carlo, ma riparare ad un altro danno, che questa supremazia già
faceva nascere nella Città. Carlo era circondato sempre dai suoi
baroni e soldati, che come stranieri non erano ben veduti: da nobili
e cavalieri guelfi di Toscana e d'altre parti d'Italia. In Firenze
egli favoriva costantemente la vecchia nobiltà guelfa; ed ogni volta
che vi si fermava, creava sempre nuovi cavalieri. Cosí i mercanti
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