I primi due secoli della storia di Firenze, v. 1 - 06

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principalmente Lucca e Pisa. La prima aveva prosperato per essere stata
lungamente la sede principale del Ducato, la seconda dovette invece
la sua prosperità al mare, su cui era, secondo la felice espressione
dell'Amari, già libera, quando in terra rimaneva ancora soggetta.
Firenze però viveva allora sempre modesta ed oscura, col suo piccolo
commercio, circondata per tutto da castelli feudali.
L'anno 1037 Bonifazio aveva sposato Beatrice di Lorena, da cui ebbe
nel 1046 la figlia Matilde, la celebre Contessa o _Comitissa_, come
la chiamano i cronisti. Morto Bonifazio, assassinato nel 1052, Matilde
si trovò ben presto a governare la Toscana e tutto il Ducato, insieme
con la madre; piú tardi, alla morte di lei nel 1076, fu sola signora
dei vasti dominî. Beatrice, donna assai religiosa, aveva, in seconde
nozze, sposato Goffredo di Lorena, il cui fratello fu papa Stefano IX,
e ciò li spinse sempre piú a favorire la politica papale, che fu poi
da Matilde seguíta con passionato ardore. Questa donna d'alto animo
e di energico carattere, quando si trovò sola, assunse subito con
fermezza le redini del governo, e spesso la vediamo, colla spada al
fianco, sui campi di battaglia. La sua politica condizione fu piena di
pericoli, perché essa venne trascinata nell'aspra lotta, che scoppiò
allora tra l'Impero e la Chiesa. Il grande e fiero Ildebrando condusse
questa lotta dapprima come ispiratore di varî Papi; piú tardi, salito
sulla cattedra di S. Pietro col nome di Gregorio VII, si trovò egli
stesso a dirigerla di fronte ad Arrigo IV, ed ebbe in Matilde il piú
franco e valido sostegno. In questo conflitto, che divise ed agitò
l'intera Europa, molte furono, come era naturale, le opposte passioni
che s'accesero in Italia. Le città che, come Pisa e Lucca, si tenevano
oltraggiate dal duca Bonifazio, si dichiararono per l'Impero, che
subito le favorí contro Matilde. Lo stesso fecero tutti i feudatarî
scontenti, massime quelli che da Bonifazio erano stati spogliati dei
loro beni. Matilde, è vero, piú di una volta li tolse a coloro cui
erano stati arbitrariamente donati; ma di rado li restituí poi agli
antichi possessori, preferendo concederli invece a chiese, a conventi,
a suoi fedeli. E ciò dette nuova esca al fuoco. Ne nacque cosí un
viluppo sempre piú intricato di opposte passioni, d'interessi in
conflitto, fra i quali Firenze cominciò finalmente a cavarne vantaggio.
Il suo spirito guelfo e la sua posizione commerciale, sulla via che
conduce a Roma, l'avevano, sin dal principio, fatta inclinare verso la
Chiesa, e la facevano adesso parteggiare apertamente per Beatrice e per
Matilde, che perciò molto la favorirono.

II
Per lungo tempo si credette che sin dal 1102 la città avesse avuto i
suoi Consoli, cioè la sua indipendenza, perché essi sono ricordati in
un trattato, che ha questa data, col quale gli abitanti di Pogna le si
sottomettevano. Ma riusciva difficile mettere in armonia un tal fatto
con la dipendenza allora chiaramente manifesta di Firenze da Matilde.
Piú tardi fu provato che la data del documento era sbagliata, e doveva
mutarsi in 1182, quando realmente era avvenuta la sottomissione di
Pogna. L'indipendenza della Città fu perciò portata a dopo del 1115,
anno in cui morí la Contessa. Ma non riusciva poi facile spiegare le
guerre che già prima la Città aveva mosse, per suo proprio conto, ed
altri eventi di simile natura. La verità è che non si può assegnare
un anno determinato alla nascita del Comune fiorentino, il quale
s'andò lentamente formando e svolgendo dalle condizioni in cui
Firenze s'era trovata sotto gli ultimi duchi o marchesi. Riassumiamo
un momento il già detto. Noi abbiamo ricordato i tumulti popolari,
degli anni 1063-68, contro il vescovo Mezzabarba, accusato di simonia,
ed abbiamo narrato come finissero con la prova del fuoco, sostenuta
da Pietro Igneo nel 1068. Citammo, a questo proposito, le lettere
di S. Pier Damiano, indirizzate: _civibus florentinis_. Citammo
pure un documento[84] in cui il _clerus et populus florentinus_ si
rivolgevano al Papa, e, narrando ciò che era accaduto, parlavano di
un _municipale praesidium_, di un _Praeses_ della Città, e di una
superiore _Potestas_. Questo ci provò che la cittadinanza allora
già sentiva la sua propria personalità, e che dentro le mura v'era
già l'embrione d'un governo locale. La suprema _Potestas_ era senza
dubbio il duca Goffredo, marito di Beatrice: il _Praeses_ era il loro
rappresentante in Firenze. Dinanzi ad esso il Vescovo aveva minacciato
di far trascinare, come vedemmo, i suoi avversarî, i cui beni sarebbero
stati confiscati, egli diceva, se persistevano nella disubbidienza.
Questo Preside comandava il _praesidium_, al quale si dava nome di
_municipale_ prima ancora che il municipio veramente esistesse, ed un
tal nome ci prova che, almeno in massima parte, il presidio doveva
essere composto di cittadini. Ma tutto ciò dimostra del pari che,
quando Firenze faceva ancora parte integrante del Margraviato, le
forme, le tradizioni, le idee romane prevalevano già tanto in essa,
da far dare nomi romani ad istituzioni di origine feudale. Questo è un
fatto sul quale dobbiamo ora fermarci, perché ne sorge una questione,
che non è solo di forma, ma ha una vera importanza storica.
Un tale linguaggio non deve recare gran meraviglia, se pensiamo che
lo studio degli elementi del diritto romano, unito a quello della
retorica,[85] dell'_ars dictandi_, faceva allora parte del _Trivium_,
e s'insegnava perciò largamente in Italia. Nella prima metà del secolo
XI, uno studio anche piú elevato del diritto era già fiorente nella
scuola di Ravenna, di dove faceva sentire la sua crescente azione
in tutta la Romagna, e di là in Toscana. Pareva che questo diritto
rifiorisse spontaneamente dal seno stesso delle popolazioni latine,
in mezzo alle quali non s'era mai interamente perduto: nel suo nuovo
vigore esso modificava, alterava le istituzioni, le legislazioni
diverse con cui veniva a contatto.[86] Infatti nelle sentenze di
Beatrice e di Matilde troviamo qualche volta citato il Digesto, che
secondo la procedura del tempo, era portato nei tribunali da coloro
che su di esso fondavano i loro diritti.[87] Che anche i Fiorentini
attendessero a questo studio, e tenessero in gran pregio il diritto
romano, ne abbiamo una prova abbastanza manifesta nelle opere di S.
Pier Damiano. Egli ci narra d'una loro disputa giuridica, per la quale,
verso la metà di quel secolo, avevano chiesto il parere dei _sapientes_
di Ravenna, che, a suo grande disdegno, presumevano, coll'autorità
del Digesto, alterare le prescrizioni del diritto canonico. E fra
tali sapienti, egli dice, il piú impetuoso e sottile, era appunto un
Fiorentino.[88] Un'altra prova se ne potrebbe vedere nella osservazione
già fatta dal Ficker,[89] che cioè nei tribunali tenuti in Firenze e
nel suo contado, assai di rado si trovarono presenti quegli assessori
o causidici romagnoli, che abbondavano invece nei tribunali d'altre
parti della Toscana. Questo vorrebbe dire, ci sembra, che i Fiorentini
non avevano per ciò bisogno di ricorrere alla Romagna. Piú tardi,
cioè verso la fine del secolo, cominciò a fiorire in Bologna la
scuola d'Irnerio, che mirava all'esatta riproduzione, e promosse un
vero rinascimento del diritto romano. Ma la scuola di Ravenna, nel
tempo di cui qui parliamo, rappresentava invece una continuazione
dell'antica sapienza, in parte decaduta, in parte alterata dai diversi
elementi di civiltà, in mezzo ai quali sopravviveva, e che a sua volta
andava profondamente modificando.[90] Una di queste alterazioni,
assai notevole per le sue conseguenze, non solo giuridiche, ma
anche politiche, seguí nella formazione e nell'indole del tribunale
margraviale.
Noi sappiamo che Matilde, al pari de' suoi antecessori, amministrava,
in nome dell'Impero, la giustizia, solennemente presiedendo i
tribunali. Questo era anzi uno de' suoi principalissimi ufficî. Abbiamo
parecchie delle sue decisioni, dalle quali possiamo vedere come era
composto il tribunale. Accanto a lei sedevano alcuni grandi feudatarî;
poi v'erano giudici, assessori, causidici e testimoni; poi il notaio.
Già il Lami aveva osservato, che i giudici e specialmente gli assessori
mutavano, secondo che la Contessa andava da città a città, il che gli
dimostrava che non pochi di essi erano abitanti di quelle città in cui
giudicavano.[91] Ed invero chi sono costoro in Firenze? Noi vi troviamo
i Gherardi, i Caponsacchi, gli Uberti, i Donati, gli Ughi ed alcuni
altri.[92] Questi erano sin d'allora i principali e piú autorevoli
cittadini, i _Bomi Homines_, i _Sapientes_, gli stessi che piú tardi
vedremo Consoli. È un piccolo numero di famiglie, che prima entrarono
a far parte del tribunale margraviale, e poi si trovarono alla testa
del Comune. Il mutamento politico venne agevolato, apparecchiato da
un mutamento giuridico, seguito per la crescente azione del rinnovato
diritto romano. Quale fu questo mutamento? La distinzione precisa
delle diverse funzioni che, secondo il diritto germanico, spettavano
al presidente del tribunale, il quale pronunziava la sentenza, o ai
giudici, che l'apparecchiavano, applicando la legge, s'era andata
perdendo. Qualche volta la Contessa sentenziava senza i giudici; piú
spesso erano essi che facevano il processo, applicavano la legge,
formulavano la sentenza, la quale veniva semplicemente sanzionata
da lei, che si riduceva cosí ad essere, secondo dice il Ficker, un
presidente inattivo.[93] Ciò vien confermato dal vedere come piú di
una volta manchi nel tribunale la presenza stessa di Matilde, ed il
processo rimanga interamente affidato ai giudici. Entrata che fu per
questa via, le sue molte e gravi occupazioni politiche, le continue
guerre in cui si trovava impegnata, dovettero aumentare il numero
dei giudizî abbandonati a giudici cittadini. Ed il fatto doveva avere
una grande importanza in un tempo nel quale l'amministrazione della
giustizia era uno dei principali attributi della politica sovranità.
Questi tribunali cittadini sono quindi un segno precursore della
indipendenza comunale, prima che il Comune abbia ancora acquistato la
sua vera autonomia, la sua piena personalità. La notevole mancanza
di documenti, i quali provino la esistenza di giudizî presieduti da
Matilde in Firenze, negli ultimi quindici anni della sua vita, è una
conferma di quanto diciamo. Un fatto simile si riscontra ancora in
quelle città toscane che erano rimaste fedeli all'Impero, giacché vi
troviamo del pari esempi di tribunali, nei quali la giustizia non
veniva amministrata da potestà feudali, ma da cittadini investiti
dell'autorità giudiziaria dall'Imperatore.[94] Anch'essi sono un
apparecchio all'indipendenza comunale, quantunque non ne siano
veramente il principio, come alcuni pretesero.
Certo è che per questa e per altre vie, durante la lotta fra Matilde ed
Arrigo IV, molte delle città toscane, parteggiando per la Chiesa o per
l'Impero, venendone perciò efficacemente favorite, iniziarono cosí la
propria indipendenza. Dopo la sconfitta data a Matilde nel Mantovano,
l'anno 1081, Arrigo IV fece larghe concessioni a Pisa ed a Lucca,
dimostratesi a lui amiche. In un diploma dato a Roma, il 23 giugno
1081, egli non solo garantiva a Lucca la integrità delle sue mura, ma
le concedeva facoltà di non permettere ad alcuno di costruire castelli
dentro le Città o nel contado, a sei miglia d'intorno, e le assicurava
che non sarebbe costretta a edificare palazzo imperiale. Dichiarava
inoltre che non manderebbe messo imperiale a pronunziar sentenze nella
Città, riservando però il caso che fossero presenti l'Imperatore
stesso, il suo figlio o il cancelliere. Finalmente annullava le
_perverse consuetudini_ imposte da Bonifazio III a danno di Lucca,[95]
a cui dava libera facoltà di esercitare il proprio commercio nei
mercati di S. Donnino e di Capannori, dai quali espressamente escludeva
i Fiorentini. Quest'ultima clausola ci prova ad un tempo l'avversione
dell'Impero contro Firenze, e l'importanza che doveva allora avere già
preso il commercio di questa città. Nel medesimo anno, con un altro
diploma, furono a Pisa garantite le sue antiche consuetudini, ed Arrigo
le dichiarava, che non avrebbe nelle mura o territorio di essa mandato
a far placiti alcun messo imperiale, appartenente ad altro contado.
Ma, quello che è piú ancora, dichiarava che non manderebbe in Toscana
alcun marchese, senza il consentimento di dodici Buoni Uomini, eletti
dall'assemblea popolare, radunata in Pisa al suono della campana.[96]
Qui, se noi ancora non vediamo apparire i Consoli, abbiamo però in
questi Buoni Uomini o _Sapientes_ eletti dal popolo, i loro precursori,
ed abbiamo già una popolare assemblea. Se il Comune non è ancora nato,
lo vediamo, si può dire, nascere sotto i nostri occhi. Notevolissimo
è poi (se non v'è qualche interpolazione) il trovare sottomesso
all'approvazione del popolo l'invio di un margravio imperiale. Questo
accennerebbe anche al bisogno (inattuabile finché viveva Matilde) di
assumere direttamente il governo del Margraviato, cosa che, dopo la
morte di lei, fu davvero tentata, ma che anche allora solo in piccola
parte e per breve tempo poté, come vedremo, riuscire.

III
Ma le condizioni di Firenze erano molto diverse da quelle di Pisa
e di Lucca. Queste due città, già lo vedemmo, erano da gran tempo
state piú prospere. Esse avevano spesso combattuto fra loro; Pisa,
fiera e baldanzosa sui mari, aveva, sin dalla metà del decimo secolo,
cominciato una guerra lunga ed ardita contro i Musulmani in Sicilia,
nella Spagna, in Africa.[97] Firenze, invece, parteggiando per Matilde,
si trovava di necessità nemica di tutta quella grossa nobiltà feudale
del contado, che da ogni parte la circondava, e che, sin dai tempi di
Bonifazio III, scontenta del modo come era stata trattata dai marchesi
di Toscana, aderiva in parte non piccola all'Impero. Il suo antagonismo
con la Città era reso maggiore, non solamente dall'essere i nobili
di origine germanica, come germaniche erano le istituzioni feudali,
quando invece in Firenze s'era riunita una popolazione principalmente
artigiana, di origine e di tradizioni romane; ma anche dalla stessa
posizione geografica della Città. Se questa fosse stata sulla pianura,
come Pisa e Lucca, o sul monte, come Siena ed Arezzo, la nobiltà
feudale avrebbe avuto assai maggiore interesse ad entrarvi. Ma si
trovava in una valle, in mezzo ad un cerchio di colline, su cui s'erano
incastellati i nobili, che da ogni lato la circondavano minacciavano e
stringevano, chiudendo tutte le vie al suo commercio.
Queste condizioni geografiche portarono conseguenze non lievi nel
destino futuro di Firenze; anzi contribuirono non poco a dare alla
sua storia la particolare fisonomia che essa ebbe. Prima di tutto ne
resultò piú inevitabile, piú sanguinoso il conflitto tra i nobili
feudali e la Città, che sin dal principio dimostrò un carattere
assai piú democratico; ne fu inoltre molto ritardata la proclamazione
d'indipendenza. Perché questa fosse possibile, era infatti necessario
che Firenze giungesse ad aver forze sue proprie, tali da poter
combattere contro i tanti nemici che l'accerchiavano. Fino a che
ciò non avveniva, ogni suo interesse la induceva a starsene amica
e sottomessa a Matilde, che sola poteva tenere a freno i nobili, e
che, abbandonandola, l'avrebbe lasciata in preda sicura ai loro odî.
Ciò spiega, insieme col ritardo della proclamata indipendenza, anche
la totale mancanza di documenti intorno alle origini di un Comune,
il quale aveva già acquistato forze notevoli, e cominciava a far
guerre per suo conto, prima che avesse una esistenza ufficialmente
riconosciuta. Quelle guerre continuavano ad esser fatte in nome di
Matilde, che qualche volta si trovava presente in campo; la Città non
compariva nei pubblici atti, perché non aveva ancora una personalità
propria. Ciò non ostante, noi dobbiamo riconoscere i primi segni della
sua vita comunale nelle guerre da essa cominciate contro i nobili del
contado, a tutela del proprio commercio, guerre che andarono sempre
crescendo di numero e di forza, né cessarono mai fino al totale
annientamento d'ogni nobiltà feudale. Questo fu il punto di partenza e
il punto di mira di tutta quanta la storia fiorentina.
Di certo, sin dal principio noi troviamo anche in Firenze non poche
famiglie che possono dirsi nobili. Tali sono i Donati, i Caponsacchi,
gli Uberti, i Lamberti e quegli altri che abbiam visti nei tribunali,
e troveremo fra poco nel Consolato. Sono essi che comandano, che
governano, che stanno alla testa della Città. Ma non erano né conti,
né marchesi, né duchi, come i conti Cadolingi, Guidi, Alberti, che
dimoravano nel contado; non appartenevano a quei _Cattani lombardi_,
come li chiamavano allora, per indicare appunto la loro origine
germanica. Piú che veri nobili, essi erano dei _Boni Homines_, dei
Grandi,[98] senza titoli feudali; gente salita in Città a maggiore
fortuna, o discesa dalla piccola nobiltà feudale, oppressa nel contado,
e rifugiatasi perciò dentro le mura. Essi ben presto s'assimilarono
col popolo, alla cui testa si trovarono; presero parte a tutte le sue
guerre contro i vicini castelli, e le guidarono. Né è raro il caso,
come vedremo, di trovare piú tardi alcuni di essi, che esercitano
il commercio o sono a capo delle Arti, non appena che queste si
furono costituite un po' stabilmente. Ed è un fatto certo non privo
d'importanza, il vedere che nei tumulti seguiti a Pisa, a Siena,
altrove, s'incontrano spesso veri e propri nobili cittadini, come
conti, visconti e simili, i quali non s'incontrano mai a Firenze. Nei
documenti non c'è quasi mai avvenuto, quando si parla dei Fiorentini,
d'imbatterci nella parola _nobiles_, che invece è usata non di rado
quando si parla dei Pisani, dei Senesi o di altri. Troviamo, è vero,
di frequente, la parola _Milites_; ma se questi non erano popolani,
che certo allora non facevano parte della cavalleria, non erano in
Firenze neppure nobili feudali; erano quei maggiori cittadini, che
non attendevano ai mestieri, quei Grandi, di cui abbiamo piú sopra
fatto cenno. Accolti da Matilde nei tribunali, adoperati da lei in piú
modi, essi comandavano il _municipale praesidium_, ad essi era molto
probabilmente affidato l'ufficio di _Præses_, essi conducevano le
guerre. Piú culti, piú ricchi, piú adatti alla politica ed alle armi,
perché non costretti al lavoro giornaliero, erano quei _Boni viri_,
quei _Sapientes_, quei _Milites_, che troviamo piú o meno per tutto, e
qui con un carattere diverso.
Ma con questo Preside e presidio, con questi tribunali, sappiamo assai
poco del modo in cui era governata, amministrata una società, la quale
già cominciava a prosperare non poco, ad avere svariati interessi.
Il governo esercitato da Matilde doveva in Firenze essere poca cosa,
una volta che la Città poté cominciare a far guerre per proprio
conto, nel suo proprio interesse, sia pure che le facesse ancora in
nome di lei. A misura che la sua prosperità commerciale cresceva,
e la lotta coll'Impero teneva Matilde sempre piú occupata, la Città
doveva rimanere sempre piú abbandonata a sé stessa. La conseguenza
fu che sin d'allora si andarono formando quelle associazioni, in cui
la cittadinanza si divise ed organizzò, e che piú tardi noi troviamo
già forti e vigorose. Questo faceva sí che quasi senza un governo
centrale, esistesse un governo locale, e che le forze del Comune
s'apparecchiassero di lunga mano, prima che esso proclamasse la
sua indipendenza. E spiega come è che quando esso fu sorto davvero,
poté subito con grande rapidità progredire e mettersi a capo della
Toscana. Certo è che, nella seconda metà del secolo XII, noi vediamo
da una parte i Grandi o, se cosí vogliamo chiamarli, i nobili ordinati
in Società delle torri, delle quali ben presto troveremo anche gli
statuti; e vediamo dall'altra le associazioni delle Arti non solo
esistere, ma avere anche una politica importanza tale da far loro
assumere qualche volta la rappresentanza stessa della Repubblica.
È possibile supporre che ciò avvenisse senza una lunga preparazione
antecedente? Le _Scholae_, da cui vennero poi le Arti, non continuarono
nel basso Impero, non le troviamo in tutto il Medio Evo dividere
la società intera, anche l'esercito, anche gli stranieri a Roma, a
Ravenna? Potevano averle distrutte i barbari, che non esercitavano
i mestieri, di cui pure avevano bisogno? Il commercio e l'industria
fiorentina erano già, sotto la contessa Matilde, cresciuti di certo.
Il diploma del 1081 ce ne ha dato una prova, e le prime guerre
iniziate dai Fiorentini, nell'interesse del loro commercio, ce ne
dànno una sicura conferma. Se in tali condizioni noi non ammettessimo
le associazioni delle Arti, dovremmo ammettere sin d'allora l'operaio
moderno, isolato, indipendente, il che non è possibile nel Medio Evo.
Era un tempo in cui tutti i mestieri venivano esercitati da gruppi
di famiglie, e tradizionalmente si trasmettevano da padre in figlio.
Spesso anche gli ufficî pubblici venivano serbati ad alcune famiglie.
Era una società di gruppi e di caste, quella da cui il Comune cavò
poi lo Stato moderno, ma di questo non v'era allora neppur l'idea.
Supporre, come fanno alcuni, che le Arti sieno cominciate solo quando
ebbero proprî statuti, è assurdo. Questi formularono sempre ciò che
da un pezzo già esisteva, ed a Firenze ogni cosa ci fa credere che
le associazioni, sebbene ancora embrionali, delle Arti e delle Torri,
dovettero precedere la formazione del Comune, che da esse si svolse.

IV
Da per tutto noi vediamo del resto, in modo diverso, un lungo periodo
d'incubazione, che precedette la formazione del Comune, il quale
nacque, come era naturale, dagli elementi preesistenti. La celebre
Concordia che il vescovo Daiberto fece a Pisa, circa il 1090, forse
anche qualche anno prima,[99] dimostra che i nobili erano organizzati
e fieramente si combattevano fra loro colle torri, che egli indusse
a demolire in parte, con solenne giuramento di non oltrepassare mai
l'altezza di 36 braccia, la quale era stata già prima determinata
nel diploma di Enrico IV (1081).[100] E colui, cosí proseguiva la
Concordia, che crederà essere ingiustamente danneggiato nelle sue
case, dovrà querelarsene _ad commune Colloquium Civitatis_; né la casa
del disturbatore potrà essere demolita, senza l'approvazione della
cittadinanza intera.[101]
Da tutto questo documento si vede non solo che i nobili pisani erano
già organizzati; ma che avevano dentro la Città una importanza non mai
avuta a Firenze.[102] Ancora non troviamo i Consoli, e se ci fossero
stati, il documento li avrebbe certo nominati. Vi sono però tutti
gli elementi che costituiranno quel Comune assai piú aristocratico
del fiorentino.[103] Si vede in fatti già un _commune Consilium_
di _Sapientes_ o _Boni homines_, che è una specie di Senato, ed il
_commune Colloquium_ di tutti i cittadini, che sarà poi il Parlamento o
Arrengo. Cinque _Sapientes_, di cui si danno i nomi, si trovano accanto
al Vescovo.[104] Essi sono gl'immediati precursori, i _Vorbilder_,
(come dice giustamente il Pawinski) dei Consoli, che poco dopo,
nel 1094, troviamo finalmente nominati in un'altra Concordia dello
stesso Daiberto. Alla loro autorità (_huius civitatis Consulibus_)
egli esplicitamente se ne appella, ordinando che fossero lasciati in
pace i fabbri, i quali attendevano ai lavori che eran tenuti fare al
Duomo.[105] Il Comune pisano adunque è preceduto da una lotta di nobili
armati ed ordinati intorno alle loro torri, ed i suoi Consoli sono
nominati la prima volta a difesa dei fabbri.
L'esistenza delle Arti fin dal secolo IX in Venezia viene accertata
dalla cronaca Altinate, la quale ci prova che sin d'allora esistevano
alcune maggiori industrie, esercitate da determinate famiglie,
ed i mestieri propriamente detti o _ministeria_, assai piú umili,
costituiti già come consorzî di persone, che esercitavano l'arte loro,
con regole tradizionali, definite. Questi mestieri o _ministeria_
indicavano una condizione non perfettamente libera, giacché coloro che
vi appartenevano erano tenuti a prestare allo Stato alcuni servizî
gratuiti. Le industrie maggiori, invece, come quelle del mosaico,
dell'architettura e simili, che richiedevano piú coltura ed ingegno,
esercitate dalle principali famiglie, erano conciliabili con gli ufficî
politici dello Stato.[106] Un documento del secolo XI ci dimostra che
allora l'Arte dei fabbri era costituita con a capo un Gastaldo, contro
il quale uno dei membri ricorse al Doge, per aver giustizia, secondo
le consuetudini non ancora scritte.[107] Tutto ciò costringe a credere
che l'esistenza delle Arti e delle associazioni in genere, nelle quali
la cittadinanza dei Comuni si trova piú tardi divisa, era antichissima,
e che a Firenze come altrove erano costituite già prima che il Comune
avesse proclamato la sua indipendenza. Altrimenti sarebbe impossibile
spiegarsi l'esistenza d'una città che, senza quasi avere un governo
visibile, già prosperava nel commercio, e faceva guerre per proprio
conto. Tutti i fatti che seguono e dei quali non si può dubitare,
resterebbero inesplicabili.

V
Noi abbiamo dunque sin da' tempi di Matilde, una cittadinanza divisa
e costituita in gruppi. Da una parte sono le antiche _Scholae_,
trasformate in associazioni d'arti e mestieri, il germe delle future
Arti maggiori e minori; da un'altra le parentele, le consorterie
dei Grandi, il germe delle future Società delle Torri. Tutte queste
associazioni formavano già il governo effettivo della Città, nella
quale i Grandi avevano i principali ufficî, affidati ad essi da
Matilde. È assai probabile che quello di Preside, secondo l'usanza
del Medio Evo, rimanesse in una medesima famiglia o consorteria,
forse quella degli Uberti, i quali, come vedremo, già erano tra i
piú potenti, e vantavano un'origine germanica. Però Grandi e popolo
non erano allora nemici e divisi, ma uniti da vincoli e da interessi
comuni. Infatti, come dicemmo, ben presto i documenti ci mostreranno
che alcuni dei Grandi pigliano parte al commercio, si trovano alla
testa delle Arti, e già ora combattono, uniti al popolo, contro i
nobili del contado. Essi erano, è vero, i possessori della terra e
degli armenti, ma tutto ciò formava allora la sorgente principale
dell'industria e del commercio fiorentino, a difesa del quale furon
intraprese le prime guerre. I castelli che circondavano la Città,
chiudevano le vie del commercio; da essi usciva di continuo gente
armata, che assaliva, batteva coloro che dalla Città portavano i
prodotti del suolo o dell'industria nei vicini paesi. La contessa
Matilde, occupata nelle sue continue guerre, di rado poteva dare aiuto,
e quindi i Fiorentini, che combattevano in nome di lei, dovevano
di fatto difendersi colle proprie armi. Questa unione di tutta la
cittadinanza, stretta dai medesimi interessi, in un solo pensiero,
contro un comune nemico, fu ciò che costituí allora la forza del popolo
di Firenze, del quale Dante ed i cronisti esaltarono con tanto calore
la lealtà, la purità dei costumi ed il valore. È il momento in cui si
pongono, con la virtú, le basi della futura indipendenza e prosperità
del Comune.
Il Villani certo esagera, ma dice pure una cosa che in fondo è vera,
quando all'anno 1107 (IV, 25) afferma, che «la Città, essendo molto
montata e cresciuta di popolo, di genti e di podere, ordinarono i
Fiorentini di distendere il loro contado di fuori, e allargare la
loro signoria, e qualunque castello non gli ubbidisse, di fargli
guerra». In questo anno infatti essi cominciarono le loro guerre,
assalendo il castello di Monte Orlando, presso la Lastra a Signa, che
i cronisti chiamano anche da Gangalandi o Gualandi, e che dipendeva
dai conti Cadolingi,[108] famiglia allora potentissima, ben presto
nemica acerrima di Firenze. Nello stesso anno assalirono e distrussero
il castello di Prato, che apparteneva ai conti Alberti, altri nemici
potentissimi. Qui però troviamo presente in campo la Contessa, e cosí
si spiega piú facilmente la vittoria.[109]
Nel 1110 abbiamo notizia di un'altra guerra. _Florentini iuxsta Pesa
Comites vicerunt_, dicono gli _Annales I_, i quali incominciano appunto
con questo avvenimento, che fanno seguire il 26 maggio. I _Comites_
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